1. Introduzione
1.1 Processi colloidali per la preparazione di nanocompositi
Negli ultimi due decenni i materiali polimerici nanocompositi hanno attratto l’interesse della ricerca scientifica e tecnologica [1, 2]. I materiali ibridi che si possono ottenere caricando una matrice polimerica con additivi di dimensione nanometrica sono potenzialmente interessanti per le particolari proprietà elettriche e meccaniche conferite dalla sinergia tra la matrice e le nanoparticelle [3]. Tali additivi possono essere di tipo inorganico (argille [4], silice [5], biossido di titanio [6]), metallico (oro [7], argento [8], platino [9], composti intermetallici come CoPt [10]) o carbonioso (nanotubi di carbonio, carbon black, grafene e nanodiamante [11])
In alcune particolari applicazioni di materiali nanocompositi, è necessario un preciso assemblaggio e ordinamento delle nanoparticelle guidato dalla matrice polimerica [3]. È il caso dei polimeri conduttivi nanocompositi [12], che sfruttano le proprietà di nanoparticelle conduttive aggregate in network all’interno della matrice polimerica; la quantità minima [13, 14] di nanoparticelle necessaria affinché il materiale nanocomposito finale sia conduttivo deve essere tale da formare un reticolo interconnesso, che si può definire percolativo [15]. Per formare polimeri conduttivi nanocompositi i nanotubi di carbonio sono tra le nanoparticelle più impiegate, in quanto la loro forma tubolare caratterizzata da un elevato rapporto di forma può favorire la formazione di reticoli percolativi orientati già a concentrazioni molto basse di additivo, permettendo di caricare la matrice polimerica con una minor quantità di carbonio [12]. Un metodo per forzare i nanotubi in un network segregato pur mantenendoli in forma altamente dispersa nella matrice polimerica è quello di miscelarli in un lattice polimerico; durante l’essiccamento il lattice incorre in cambiamenti microstrutturali tali da confinare i nanotubi in un reticolo percolativo [15].
Le forze capillari in gioco durante l’evaporazione dell’acqua sono forti abbastanza per piegare i nanotubi attorno alla superficie delle particelle di lattice [16]. La struttura di quest’ultime non dev’essere però casuale. Le particelle ottenute dovrebbero essere dell’ordine di 100-300 nm: se troppo piccole il carico di nanotubi necessario per ottenere una conducibilità dal composito diventa troppo alto e potrebbe modificare le proprietà filmogene del film; con particelle grandi la soglia percolativa diminuisce ma la stabilità colloidale sarebbe compromessa [17]. Inoltre: particelle ben deformabili (il cui polimero ha Tg minore di quella ambiente) potrebbero essere almeno parzialmente penetrate dai
nanotubi, risultando quindi meno efficaci nel generare un network segregato; con particelle dure (il cui polimero ha Tg maggiore di quella ambiente) e dimensionalmente
monodisperse è più agevole il controllo della distribuzione topologica delle particelle nel film ottenuto per semplice evaporazione della fase acquosa, cosicchè si riesce ad ottenere un reticolo HCP (hexagonal close-packed), che consente di ottenere nanocompositi dalle caratteristiche meglio riproducibili e con una soglia percolativa minore [18, 19].
Figura 2: esempi di formazione del reticolo percolativo: particelle dure e soffici [19] La presenza di tensioattivo nel lattice finale plastifica la superficie delle particelle creando una struttura assimilabile per certi versi ad un aggregato di particelle core-shell, facilitando la formazione di network a “nido d’ape” con ordine a lungo raggio. Questo perché i nanotubi, una volta piegati dalle forza capillari, rimangono adesi alle particelle soffici e “appiccicose”, mentre nel caso di particelle più dure l’elevato modulo elastico dei nanotubi di carbonio potrebbe costituire un fattore di disturbo nella fase di autoassemblaggio durante l’essiccamento del film causando la distruzione del reticolo.
In questo tipo di nanocompositi l’eventuale comportamento “smart” è legato ad una capacità di risposta, in termini ad esempio di modifica della conducibilità elettrica, che è direttamente collegata alla capacità di disconnessione indotta nel network sottoposto a stimoli termici, chimici o meccanici [12]. Se tra le particelle di lattice e i nanotubi viene
inserito un polimero “smart”, ad esempio sensibile al pH, o vengono costruite particelle con un guscio (shell) sensibile, questo rigonfiandosi o contraendosi può indurre le suddette disconnessioni: se il contenuto di nanoparticelle conduttive nel nanocomposito è di poco superiore alla soglia percolativa di quel sistema questo effetto risulta amplificato e più facilmente rilevabile.
1.1.1 Soglia percolativa
Nel caso dei nanotubi di carbonio e di ogni altra particella conduttiva distribuita in una matrice polimerica in maniera casuale, esiste una concentrazione di soglia, chiamata soglia percolativa, oltre la quale la corrente elettrica può fluire attraverso la matrice tramite le particelle interconnesse [19, 20]. La transizione percolativa è governata dalla power law della teoria percolativa [19, 21, 22]:
= − >
dove è la conduttività del composito, è una costante di proporzionalità (che in genere è la conduttività della particella conduttiva, o nanocarica), t è un esponente critico, mentre e sono rispettivamente la concentrazione di nanocariche e la concentrazione corrispondente alla soglia percolativa.
Avere dei sistemi con particelle strutturate in network segregati abbassa il valore di soglia percolativa, perché l’interconnesione è più efficace ed è necessario un minor quantitativo di nanocariche. Un approccio particolarmente vantaggioso per ottenere network segregati si basa sulla preparazione del materiale nanocomposito a partire da un’emulsione [15]; l’impiego di dispersioni acquose unisce alla miglior efficienza nel creare percorsi percolativi dei filler, anche vantaggi a livello ambientale (assenza di solventi organici), facilità di fabbricazione e ampio spettro di applicabilià [19]. Fra i tipi di nanocarica impiegati, i nanotubi di carbonio sono molto sfruttati nella realizzazione di materiali elettroconduttivi [23] per la loro elevata conducibilità (1,85∙103 S/cm [24]), unita alle ottime proprietà meccaniche e termiche [25].
Sono noti materiali nanocompositi derivanti da lattici polimerici caricati con nanotubi di carbonio [16-18, 24, 25]; le soglie percolative ottenute con questi sistemi sono influenzate da una grande varietà di parametri, quali la natura della matrice polimerica, le dimensioni
delle sue particelle, i tensioattivi impiegati, il tipo e la forma del materiale conduttivo ed eventuali pretrattamenti da esso subiti [16-19, 24, 25].
1.2 Stimuli-responsive polymers
Gli “stimuli-responsive polymers” [26], chiamati anche “smart polymers” [27, 28] sono polimeri in grado di modificare la loro conformazione molecolare o altre loro caratteristiche chimiche o chimico-fisiche in risposta alle variazioni dell’ambiente circostante [29]. Spesso questi materiali sono sintetizzati ad hoc per sfruttare tutte le loro potenzialità [30].
Esistono molti tipi di stimoli che possono essere classificati come segnali chimici o fisici. Tra gli stimoli chimici si possono citare variazioni di pH, forza ionica o la presenza di specifiche specie molecolari. Gli stimoli fisici comprendono variazioni di temperatura, campi magnetici o elettrici e stress meccanici.
Una volta che lo stimolo è stato intercettato, le risposte si manifestano come cambiamenti in una o più fra le caratteristiche del materiale quali forma, proprietà ottiche o di superficie, solubilità, formazione di aggregati supramolecolari, transizioni sol-gel o altre [31]. In figura 3 sono riportati tre esempi di risposta del sistema: l’equilibrio tra molecole libere o organizzate in micelle, che può quindi influenzare la solubilità; un gel reticolato che si rigonfia o si contrae; una superficie modificata con catene reattive che possono servire per aumentare o diminuire l’idrofilia del materiale sottostante.
Figura 3: esempi di transizione in risposta ad uno stimolo [32]
La peculiarità di questi materiali non sta solo nei rapidi cambiamenti osservabili e misurabili a livello macroscopico, ma anche nel fatto che le transizioni avvenute sono spesso reversibili [33]
Le più studiate classi polimeriche risultano essere quelle pH-sensibili e termo-sensibili, particolarmente interessanti per via della loro semplicità e del fatto che trovano applicazioni in molti ambiti scientifici e tecnologici [34]: dalla sintesi di biomateriali per rilascio controllato di farmaci [35], alla realizzazione di sensori [30] e microattuatori [36].
1.2.1 pH-responsive polymers
I polimeri pH-sensibili consistono in macromolecole recanti gruppi funzionali in grado di accettare o donare protoni in risposta ad una variazione di pH nell’ambiente in cui si trovano [34]. Al variare del pH, si ha quindi una ionizzazione: questo rapido cambio di carica netta causa un’alterazione del volume idrodinamico della catena polimerica. La repulsione elettrostatica tra le catene del polimero, derivante dalla ionizzazione dei siti acidi o basici contenuti nella macromolecola, influenza le proprietà fisiche del materiale polimerico [37]. La transizione da stato collassato a rigonfiato è dovuta alla pressione osmotica esercitata dai controioni mobili che bilanciano la carica delle porzioni dissociate [38]. In sostanza, in soluzione acquosa, i polimeri con gruppi ionizzabili formano polielettroliti.
Esistono due tipi di polimeri pH-sensibili: poliacidi e polibasi. Il gruppo ionizzabile dei poliacidi per eccellenza è il gruppo carbossile. Poliacidi deboli come il PAA (poli acido acrilico) accettano protoni a pH acidi e li rilasciano a pH neutro o basico [39]. Al contrario le polibasi come la poli(vinil piridina) sono caricate positivamente ad alti pH e neutre a pH acidi [40]. Pertanto, la corretta selezione di un poliacido o una polibase è dettata dall’applicazione desiderata.
Anche se si può ottenere una risposta soddisfacente da un omopolimero di materiale sensibile al pH, la maggior parte dei prodotti è progettata ad hoc copolimerizzando vari domini funzionali per controllare ancora meglio la risposta allo stimolo. Polimeri pH-sensibili modificati idrofobicamente posseggono un delicato bilancio tra repulsione elettrostatica e interazione tra domini idrofobi. Delicato perché si può anche andare incontro ad un collasso: quando i gruppi sensibili sono protonati, dominano le forze di interazione idrofobe e questo può causare aggregazione delle catene polimeriche dall'ambiente acquoso [39]. Il polimero però può collassare anche per semplice interazione tra gli idrogeni dei pendagli idrofili e gli atomi elettrodonatori dei pendagli idrofobi.
1.2.2 Poliacidi
I poliacidi deboli, che si dissociano in un range di pH compreso fra 4 e 8, agiscono da polimeri sensibili al pH. I poliacidi con gruppi carbossilici con un pKa di circa 5-6, ed in particolare il poli(acido acrilico) (PAA) [39] ed il poli(acido metacrilico) (PMAA) [41] sono i più studiati.
Figura 4: (a) PAA (pKa=4,5 [42]), (b) PMAA (pKa=5,5 [43]), (c) PEAA (pKa=6,3 [34]), (d) PPAA (pKa=6,7 [34])
In soluzione basica questi polimeri diventano polielettroliti e le macromolecole si espandono per la repulsione elettrostatica: questo contributo, insieme alle interazioni idrofobiche, governa la precipitazione/solubilizzazione delle macromolecole, il rigonfiamento/contrazione degli idrogeli, l’idrofobicità/idrofilia delle superfici. Il PMAA (figura 4b) mostra una brusca transizione in confronto a quella più graduale del PAA (figura 4a). Questo perché il PMAA a causa delle maggiori interazioni di tipo idrofobico derivanti dai gruppi metilici, nella forma non ionizzata si presenta in una conformazione compatta (“hypercoiled”) [38] fino a che non si raggiunge la densità di carica critica oltre la quale diventano dominanti le interazioni repulsive elettrostatiche. Quindi introdurre uno spezzone idrofobo può favorire l’aggregazione della struttura non ionizzata in formazione più compatta e fornire una transizione più netta. Seguendo questo ragionamento, si intuisce facilmente come il PEAA (figura 4c) e il PPAA (figura 4d), che contengono segmenti alchilici più lunghi, presentino una struttura ancora più compatta a bassi pH [38, 44] e richiedano valori di pH più alti perché le forze elettrostatiche repulsive siano in grado di vincere le più forti interazioni attrattive di tipo dispersivo.
1.2.3 Modifica dell’intervallo di pH
Come si è detto, la natura dei gruppi acidi determina l’intervallo di pH entro il quale questi polimeri responsivi possono essere utilmente impiegati. Un polimero contenente funzionalità acide deboli come il PAA può essere utilizzato per rilevare variazioni di pH in un intervallo corrispondente, in prima approssimazione, con l’intervallo di pKa effettivo del polimero (intervallo di protonazione/deprotonazione). È opportuno sottolineare che, a differenza dei composti a basso peso molecolare per i quali il pKa ha un valore ben definito, nel caso dei polielettroliti la progressiva ionizzazione, con il conseguente aumento della densità di carica nel polielettrolita, determina un progressivo aumento del pKa effettivo a causa della repulsione elettrostatica tra i gruppi ionizzati. Il range di pH critico nel quale avviene la variazione conformazionale reversibile delle catene polimeriche, così come l’ampiezza del suddetto intervallo di pH, entro il quale ha prevalentemente luogo la ionizzazione, sono fattori importanti per le applicazioni ultime di questi materiali “smart” [45]. L’intervallo critico di pH può essere generalmente modulato tramite due strategie: selezionando la struttura dei gruppi funzionali in modo che la parte ionizzabile abbia un pKa prossimo all’intervallo di pH di interesse, oppure incorporando parti idrofobe nella struttura polimerica [34, 45]. Analogamente a quanto visto in precedenza per gli omologhi del PAA, incorporando parti idrofobiche è possibile aumentare l’intervallo di pH critico perché le crescenti interazioni attrattive di tipo dispersivo competono con quelle repulsive di tipo elettrostatico, “trattenendo” i gruppi ionizzabili dal dissociarsi. L’effetto della presenza di gruppi idrofobici in catena laterale di poliacidi è stato sistematicamente investigato da vari gruppi di ricerca, cambiando il tipo e la quantità dei gruppi inseriti. Philippova et al. [39] hanno studiato il PAA modificato idrofobicamente copolimerizzando AA con esteri alchil acrilici. Il range di pH critico si sposta verso valori maggiori aumentando la lunghezza della catena alchilica e la frazione di alchil acrilato. Maggiore l’idrofobicità del copolimero, maggiore lo shift e l’ampiezza dell’intervallo di pH in cui avviene la ionizzazione. Il pKa apparente, determinata con una titolazione potenziometrica, risulta essere solo leggermente affetta da queste variazioni.
Figura 5: titolazione potenziometrica di gel e copolimeri AA-ottil acrilato [39] Thomas et al. [46] hanno copolimerizzato il PEAA con il PMAA per ottenere polimeri da impiegare nel rilascio controllato di farmaci. I risultati della loro ricerca confermano che la maggiore idrofobicità del PEAA porta al raggiungimento di una conformazione in soluzione più compatta di quella del PMAA a causa della maggiori interazioni attrattive idrofobe che competono efficacemente con quelle di repulsione elettrostatica che a loro volta dipendono dal grado di ionizzazione ad un certo pH.
Figura 6: titolazioni potenziometriche di ○ PEAA; □ poli(EAA-co-MAA) 65/35 mol %; ∆ poli(EAA-co-MAA) 49/51 mol % [46]
Palaniswamy et al. [47] hanno sintetizzato con la tecnica ATRP un copolimero a blocchi costituito da acido metacrilico (MAA) e metil metacrilato (MMA): P(MAA102-b-MMA10).
Il polimero in fase acquosa è stato esaminato tramite light scattering dinamico (DLS) e statico (SLS) e titolazione potenziomentrica; i risultati dimostrano che si auto-organizza in aggregati sferici con un nucleo di MMA e un guscio di MAA. Il guscio si rigonfia di acqua nel corso della neutralizzazione ed il copolimero a blocchi ha nel suo complesso un comportamento nettamente diverso dal corrispondente copolimero random, che invece va incontro ad un cambio conformazionale durante la neutralizzazione.
Figura 7: organizzazione micellare del P(MAA102-b-MMA10) [47]
Siegel et al. [48] applicano lo stesso principio ad un gel basico debole. Copolimerizzando n-alchil metacrilati con (dimetilamino)etil metacrilato (DMAEMA), si ha invece una riduzione dell’ampiezza dell’intervallo di pH critico e uno shift verso pH minori. Inoltre, maggiore l’idrofobicità dell’estere metacrilico aggiunto, sia in termini di quantità presente che tipo di segmento, minore lo swelling del gel.
Figura 8: swelling dei gel BMA/DMAEMA ○ 70/30 mol %; □ 77/23 mol %; ∆ 86/14 mol % [48]
1.3 “Surfmers” e lattici
1.3.1 Polimerizzazioni controllate
Negli ultimi 15 anni sono state scoperte e messe a punto diverse tecniche per la polimerizzazione radicalica controllata. Con tale definizione [49] si intende un processo grazie al quale un radicale primario, generato in base a meccanismi di tipo convenzionale o a partire da un iniziatore specifico, avvia uno stadio di propagazione radicalica che è soggetto ad un equilibrio di attivazione/disattivazione. Nella forma attiva il radicale propagante addiziona monomeri con accrescimento della catena polimerica secondo un meccanismo di poliaddizione di tipo convenzionale; nella forma inattiva il macroradicale propagante viene trasformato reversibilmente in una specie non radicalica (“dormiente”). La caratteristica fondamentale comune a tutti questi processi di polimerizzazione radicalica controllata è la maggior stabilità della specie inattiva rispetto al radicale propagante, per cui l'accrescimento della macromolecola avviene con una cinetica lenta e pressoché in assenza di reazioni collaterali di terminazione o trasferimento di catena [50, 51].
Come risultato, con tali tecniche si possono ottenere [52]:
a) polimeri di peso molecolare controllato e con stretta distribuzione di pesi molecolari
b) funzionalità ben definite e di diverso tipo nelle due terminazioni di catena, che consentono di ottenere successivamente copolimeri a blocchi o con architetture molecolari più sofisticate (a stella, ramificate, ecc.)
c) accrescimento di catene polimeriche da superfici solide
1.3.1.1 La metodologia RAFT
Queste tecniche sono in genere molto efficaci e notevolmente versatili, ma ognuna di esse presenta limiti specifici relativi alla tolleranza verso determinati monomeri o solventi. Una tipologia interessante di polimerizzazione controllata particolarmente versatile e tollerante anche verso monomeri acidi e solventi protici è la metodologia RAFT (Reversible Addition–Fragmentation Transfer polymerization). [53]
Nella sua formulazione originaria [54] la metodologia di polimerizzazione RAFT prevedeva l’impiego di un ditioestere come agente di addizione e trasferimento reversibile.
Il gruppo tiolo, in entrambe le forme tiolo e tiolato, è di per sé un buon gruppo nucleofilo, che può essere utilizzato come trasferitore di catena (Chain Transfer Agent, CTA) nei processi di polimerizzazione radicalica [55].
Tra i derivati del tiolo vi sono diversi gruppi funzionali, in particolare ditioesteri e tritiocarbonati [56, 57], che sono in grado, se attivati da opportuni gruppi R e Z verso l’addizione e la successiva frammentazione, di prendere parte anch’essi a processi di polimerizzazione radicalica controllata con un meccanismo detto di addizione-frammentazione-trasferimento reversibile.
Figura 9: rappresentazione schematica dell’agente RAFT (A) e del prodotto di reazione (B) Il meccanismo completo [58, 59], proposto da Wang e Zhu [60] sulla base delle evidenze sperimentali portate da Rizzardo e collaboratori [61, 57] che per primi hanno introdotto il metodo di polimerizzazione RAFT, prevede che un iniziatore radicalico In2 di tipo
convenzionale attivi il monomero M
dove In• è il radicale libero derivato dalla frammentazione dell'iniziatore. Il successivo stadio di propagazione:
caratterizzato dalla costante cinetica kp, è in competizione con il trasferimento di catena sul
Il primo processo, con costante kadd, comporta l'addizione del macroradicale propagante al
gruppo tiocarbonilico a formare una catena polimerica dormiente come indicato nello schema. Il secondo è il processo di scissione omolitica del legame C–S (frammentazione) con costante kβ, che porta alla rigenerazione di un ditioestere con liberazione di un
macroradicale propagante ossia in grado di addizionare monomero (reinizio) [62].
Il macroradicale propagante Pn•, analogamente al radicale primario, può reagire con il
ditioestere polimerico:
rigenerando un macroradicale dormiente. La sequenza di addizione e frammentazione, entrambe reversibili, in cui il gruppo ditioestere è il trasferitore tra le catene dormienti ed attive, mantiene vivente il carattere della polimerizzazione [62].
La concentrazione delle varie specie coinvolte nella reazione influenza la velocità di reazione, il peso molecolare del prodotto e la polidispersità. Una maggiore concentrazione di trasferitore di catena diminuisce la velocità di reazione, origina un prodotto di minor peso molecolare ma diminuisce la polidispersità. Aumentando invece la concentrazione dell'iniziatore si ha una significativa perdita del controllo della reazione, con l'aumento di polidispersità e un maggior peso molecolare [60].
L’agente RAFT che meglio reagisce con le specie acriliche [63, 64] è il 2-(Dodecylthiocarbonothioylthio)-2-methylpropionic acid.
Figura 10: CTA RAFT utilizzato nel nostro studio
La tecnica RAFT può essere impiegata anche per polimerizzazioni in fase acquosa sia di monomeri idrosolubili che di monomeri idrofobi [53]. In quest’ultimo caso tuttavia la natura compartimentata delle emulsioni acquose e dei lattici polimerici comporta problemi aggiuntivi che limitano le condizioni operative efficaci per una polimerizzazione controllata come verrà discusso nel paragrafo 1.3.2.3.
1.3.2 Polimerizzazioni in emulsione
La polimerizzazione in emulsione, molto utilizzata per la sintesi di lattici, viene effettuata in acqua, utilizzando generalmente un iniziatore idrosolubile e un emulsionante che ha la funzione di stabilizzare il sistema [65, 66]. Il polimero ottenuto sotto forma di dispersione colloidale ha un’alta concentrazione di particelle (Np, dell'ordine di 1015-1017 per
centimetro cubo [67]) di diametro sub-micrometrico (dell'ordine generalmente di 100-300 nm). In condizioni opportune, i processi di polimerizzazione in emulsione possono consentire la preparazione di particelle polimeriche di dimensioni e composizione controllata, anche di tipo nanostrutturato (ad esempio particelle cosiddette core-shell, ossia con un guscio esterno di composizione chimica diversa da quella del nucleo) e con caratteristiche filmogene.
1.3.2.1 Meccanismo della polimerizzazione in emulsione [67, 68]
Secondo la teoria di Hansen, Ugelstad, Fitch, e Tsai [69-72] la polimerizzazione in emulsione avviene con un meccanismo schematizzabile in tre stadi. Inizialmente, il monomero, immiscibile in acqua, è situato in micelle stabilizzate dal tensioattivo (O/W), ma una piccola parte delle molecole si solubilizza in acqua. L'iniziatore idrosolubile genera radicali che reagiscono con le molecole disciolte in acqua dando il via alla fase di propagazione con formazione di oligomeri (z-ameri) che, incompatibili con la fase acquosa, si segregano e vengono stabilizzati dal tensioattivo come solidi colloidali oppure sono catturati dalle micelle. Questo primo stadio porta ad un 10-15% di conversione del
monomero, con un aumento progressivo della velocità di reazione dovuto al continuo nuclearsi di nuove particelle che si comportano come nanoreattori individuali.
Il secondo stadio vede l'accrescimento delle particelle di polimero, il cui numero rimane costante. In questa fase la tensione superficiale dell'acqua aumenta bruscamente a causa della migrazione delle molecole di tensioattivo dalla fase acquosa verso la superficie delle particelle, la cui area aumenta progressivamente [67]. Il processo continua finché il monomero emulsionato arriva quasi ad esaurirsi. In questo stadio si raggiunge il 30-40% di conversione, la dimensione delle particelle aumenta progressivamente, mentre la velocità di reazione rimane costante.
Il terzo stadio avviene nelle particelle, con la polimerizzazione del monomero residuo in esse assorbito e continua fino a conversione pressochè completa del monomero. In questo stadio, a differenza dei due precedenti, si ha generalmente diminuzione del volume della particella dovuto alla conversione del monomero in essa assorbito e conseguente aumento della densità, accompagnato da una drastica diminuzione della velocità di reazione.
Questo meccanismo a tre stadi con autonucleazione, conduce a una distribuzione volumetrica delle particelle piuttosto ampia, nell'ordine delle centinaia di nanometri.
1.3.2.2 Polimerizzazione seminata
Tra i problemi tipici dei processi industriali di polimerizzazione in emulsione, vi è la scarsa riproducibilità dei materiali causata dallo scarso controllo nella fase di nucleazione (e quindi dal diverso numero di particelle che si può ottenere) [73]. Questo problema può essere risolto mediante polimerizzazione in emulsione seminata, alimentando in semi-continuo il monomero in un reattore contenente un lattice preventivamente sintetizzato (lattice seme) e sotto uno stretto controllo delle quantità di emulsionante e di iniziatore, così che le particelle di seme si accrescano senza generazione di nuove particelle. In questo modo è superato il problema della difficoltà di riprodurre il primo stadio, cioè la nucleazione delle particelle, ed è possibile controllare la dimensione finale di queste ultime. La polimerizzazione seminata se condotta in più stadi con variazione della composizione di alimentazione permette inoltre di ottenere lattici di tipo core-shell. Più co-monomeri possono essere aggiunti in un processo semi-continuo, mantenendo la composizione di alimentazione costante oppure variandola in modo da ottenere un gradiente di composizione radiale nella struttura finale core-shell delle particelle.
Figura 11: esempi di gradiente in composizione e variazione di comonomeri [74]
1.3.2.3 Tensioattivi reattivi oligomerici (“surfmers”)
In un lattice, la qualità e la quantità di tensioattivo sono di grande importanza per la stabilità colloidale, la dimensione delle particelle, il numero delle particelle e molte altre variabili [75]. Nonostante la loro funzione essenziale, i tensioattivi possono interferire con il processo di formazione del film. Infatti, come l’acqua evapora e le particelle si avvicinano, i tensioattivi influenzano negativamente il processo di coalescenza; possono alterare significativamente le performance finali e le proprietà del film, specialmente quelle interfacciali come bagnabilità e adesione. Con l’invecchiamento, infine, il tensioattivo tende a migrare in superficie rendendo il film opaco e appiccicoso, oppure può essere dilavato lasciando cavità e rugosità superficiali [76].
Figura 12: immagine 3D AFM di un lattice acrilico ottenuto per casting a temperatura ambiente e riscaldato a 120 °C per 170 ore [76]
Come già accennato, la tecnica RAFT permette una varietà senza precedenti di sintesi di copolimeri anfifilici con precise architetture e funzionalità appropriate [52]. Copolimeri a blocchi anfifilici sono adatti a sostituire i tensioattivi ordinari.
Figura 13: architetture possibili con le polimerizzazioni radicaliche controllate [77] Copolimeri a blocchi pH-sensibili sono stati ottenuti per copolimerizzazione diretta di acido acrilico senza passare per un suo precursore idrolizzabile come il tert-butil acrilato [77, 78]. Questi sono stati usati come tensioattivi reattivi nella sintesi di lattici [79-81], con funzione sia di stabilizzante che di reagente. In particolare Wei et al. [82] hanno impiegato un diblocco AA-b-Sty contenente da 20 a 60 molecole di AA per polimerizzare in emulsione il butil acrilato senza l’aiuto di tensioattivi.
Più in generale la polimerizzazione in emulsione RAFT di vari monomeri vinilici è stata studiata da Ferguson et al. [83] che hanno analizzato nel dettaglio l'influenza di diverse variabili, quali ad esempio la lunghezza relativa dei due blocchi componenti il tensioattivo polimerico reattivo, nel conferire stabilità colloidale al lattice finale anche in assenza di tensioattivi. La lunghezza del blocco di PAA costituente il copolimero anfifilico impiegato come stabilizzante colloidale è un parametro critico per l'efficacia del metodo. Infatti se il blocco di PAA è troppo corto, il sistema non risulta colloidalmente stabile, se invece è troppo lungo non permette il controllo sul peso molecolare del polimero [83]. Anche il grado di neutralizzazione del blocco di poli(acido acrilico) è un altro fattore critico. Wang et al. [84] studiando la sintesi di un lattice di polistirene in presenza di un mediatore RAFT costituito da un copolimero a blocchi AA-Sty hanno osservato che passando da pH 3,9 a pH 4,2 aumenta la quantità di coagulo, mentre a un pH di 5,3 (e superiori) il coagulo sparisce ma si perde completamente il controllo sul peso molecolare a causa dell'eccessiva solubilità in fase acquosa dei macroradicali propaganti.
1.4 Scopo della tesi
Lo scopo del presente lavoro di tesi è la messa a punto di membrane nanocomposite sensibili al pH, da utilizzare come film sottili modificatori di elettrodi allo stato solido. In figura 14 è schematizzata l’idea del funzionamento di tale dispositivo. Il nanocomposito, per essere sensibile al pH, dovrà contenere al suo interno un polimero in grado di rispondere in modo semplice e possibilmente lineare con un rigonfiamento o una contrazione per effetto dell’assorbimento o l’espulsione della soluzione acquosa al variare del pH. Tale effetto, derivante dalla variazione del bilancio idrofilo/idrofobo nel film, è dovuto non al rigonfiamento generalizzato del film ma piuttosto ai fenomeni che avvengono nelle zone interparticellari. Nel caso in cui in queste stesse zone siano confinati anche nanotubi di carbonio o altre nanoparticelle elettroconduttive, tale effetto può essere sfruttato per i nostri scopi, in quanto è prevedibile che esso induca una modifica del cammino percolativo dei nanotubi, provocando una variazione di resistenza elettrica che potrà essere registrata ad esempio da un sensore resistivo.
Figura 14: schematizzazione del funzionamento del sensore
La membrana nanocomposita dovrebbe cioè costituire il componente attivo di un sensore allo stato solido consistente in una coppia di elettrodi metallici depositati su un supporto inerte rivestito dalla membrana stessa. L’architettura del dispositivo dovrebbe essere tale da consentire la rilevazione di variazioni di resistenza elettrica in funzione del pH di soluzioni acquose messe a contatto con il sensore. Questo lavoro si inserisce nell’ambito del progetto europeo SWAN-iCare, che prevede l’utilizzo finale di questi dispositivi in ambito medico nel monitoraggio remoto di parametri fisiologici, quali appunto il pH, in
La matrice polimerica che verrà utilizzata in questo lavoro di tesi, ottenuta da un lattice composto da butil acrilato e metil metacrilato (lattice BM), è composta da particelle con un core a Tg più alta e uno shell a Tg più bassa, per le motivazioni elencate nella parte
introduttiva.
I polimeri pH-sensibili scelti, oltre al poli(acido acrilico), sono copolimeri dell’acido acrilico con 2-etilesil acrilato. Con tale scelta si riteneva di poter spostare ed allargare il range di risposta al pH che, nel caso del PAA, non è adeguato per i nostri scopi.
Come elementi elettroattivi è previsto l’impiego di nanotubi di carbonio a parete multipla (MWNT) funzionalizzati con gruppi carbossilici per favorirne la dispersione in acqua. Sono previsti due tipi di miscela fisica colloidale come precursore del film nanocomposito da depositare sull’elettrodo: ternaria e binaria.
La miscela ternaria è quella ottenibile in modo più semplice e veloce perché comporta la sintesi indipendente dei tre componenti che verranno poi combinati per semplice miscelazione fisica.
Le miscele binarie prevedono una sintesi piuttosto articolata di un lattice core-shell con guscio di polimero sensibile. Tale sintesi comporta una prima fase di preparazione di un copolimero anfifilico tramite polimerizzazione RAFT seguita dalla sintesi del lattice in emulsione “soapless” (senza tensioattivo) utilizzando il copolimero suddetto come tensioattivo reattivo che andrà a costituire lo shell pH-sensibile. Solo nella fase finale i nanotubi verranno uniti al lattice core-shell per miscelazione fisica.
Entrambe le tipologie di miscela saranno poi depositate su un elettrodo, in modo da formare un film sottile nanocomposito semiconduttivo.
Tutti i vari componenti delle dispersioni saranno caratterizzati con misure ed analisi specifiche ed i sensori saranno analizzati per determinare la variazione di conducibilità in soluzioni tampone.