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Capitolo primo: I saggi di filosofia del linguaggio 1. Lingua pura e Caduta

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Capitolo primo: I saggi di filosofia del linguaggio

1. Lingua pura e Caduta

L’interesse di Benjamin per le questioni inerenti il linguaggio è una costante che lo accompagnerà lungo il corso di tutta la sua produzione, dai saggi giovanili fino agli scritti postumi. Questa attenzione verso la lingua è testimoniata anche dalla passione per la grafologia, così come dall’interesse verso la poesia che Benjamin dimostra soprattutto nel periodo dell’Università.

Fatta eccezione per alcuni testi giovanili in cui la questione del linguaggio resta solo accennata1, il primo testo in cui Benjamin affronta direttamente

questo tema è il saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, nato come risposta a una lettera scritta dall’amico Gershom Scholem e contenente alcune riflessioni sul rapporto tra matematica e linguaggio. A causa delle sue scarse conoscenze in ambito matematico, Benjamin dichiara la propria difficoltà ad affrontare direttamente il tema proposto da Scholem, ma promette di inviargli alcune riflessioni che trattino dell’essenza della lingua considerata “in relazione immanente con l’ebraismo e con riferimento al primo capitolo della Genesi”2.

1Cfr. in particolare W. Benjamin, Metafisica di Gioventù (1912-13), in Opere

complete I, Einaudi, Torino, 2008, p.?

2

W. Benjamin, Gesammelte Briefe vol.1: 1910-1918, hrsg. Gödde C. und Lonitz H., Suhrkamp Vg., Frankfurt, 1995, p. 343 (Brief an Gerschom Scholem, München 11 November 1916)

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Nasce così questo inteso saggio, il cui carattere provvisorio farà sì che Benjamin torni più volte a riflettere sull’essenza della lingua, sia con un taglio simile a quello dello scritto del 1916, come ne Il compito del traduttore (1923), sia in saggi dal tono meno mistico e più materialista, senza che questo impedisca di trovare un'affinità – o almeno una complementarietà – con i testi precedenti: in Sulla facoltà mimetica e nell’inedito Dottrina della similitudine Benjamin indaga il ruolo giocato dal simbolo nello sviluppo del linguaggio, e in particolare nel passaggio dall’oralità alla scrittura.3

Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo4 è una riflessione quanto mai

distante da ogni corrente di filosofia del linguaggio, (o almeno da ogni sua “concezione borghese”) e può essere meglio definita come una particolare interpretazione del mito di Babele e del rapporto che intercorre tra l'uomo e il

3

Che vi sia una continuità nella produzione benjaminiana sul linguaggio è testimoniato anche da alcuni frammenti rinvenuti in una cartella intitolata Appunti per una prosecuzione del lavoro sulla lingua. In alcuni schemi presenti su uno dei fogli, Benjamin mette in relazione la matematica con la “lettura” del cielo e delle costellazioni, definendo i segni della matematica come “scritti” e quelli delle stelle come segni scritti: il rapporto tra scrittura, segno e costellazione sarà ripreso nel saggio Sulla facoltà mimetica e prima ancora in Dottrina della similitudine (si veda più avanti, nel paragrafo dedicato a questi saggi). Gli appunti toccano anche il tema del rapporto tra oralità e scrittura e quello tra segno e immagine, per accennare nell’ultima pagina anche al rapporto fra traduzione e romanzo, tema che tornerà nel saggio Il compito del traduttore e nel libro Il concetto di critica nel romanticismo tedesco.

4

W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus &ovus, a cura di Solmi R., Einaudi, Torino 1995²

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linguaggio prima della Caduta. Caduta della torre e la conseguente confusione tra le lingue, ma anche Caduta dal paradiso: in questo saggio i due miti della tradizione giudaica vengono messi in stretta correlazione, fino quasi a fondersi. Benjamin, come vedremo, interpreta il peccato originale come una violazione di natura linguistica, ovvero come rottura di quel rapporto immediato tra cose e uomo che era reso possibile dall’esistenza di una lingua pura, fatta di soli nomi. Questa lingua sarebbe andata perduta nel momento in cui l’uomo ha cercato di esprimere giudizi sulla conoscenza del Bene e del Male. A seguito della perdita di quest’unica lingua si è creata quella frammentazione di cui parla il mito Babele: la lingua pura si è dispersa nelle lingue umane, tutte imperfette eppur tutte contenenti frammenti dell’unica lingua originaria, tema su cui torneremo affrontando Il compito del traduttore.

Per entrare nello spirito del saggio del 1916, bisogna innanzitutto che chiarire cosa Benjamin intenda quando parla di linguaggio (Sprache)5. Come il titolo

stesso annuncia, la lingua non è propria solo dell’essere umano: ogni essere, ogni cosa ha un suo linguaggio specifico, diretta espressione di quanto vi è di comunicabile nell’essere spirituale di quella cosa. Non si tratta di una diretta equivalenza tra essere linguistico ed essere spirituale. l’essenza della cosa non riposa nel linguaggio, ma attraverso di esso si rende comunicabile

5

In tedesco il termine Sprache significa sia lingua sia linguaggio. Sebbene nella traduzione italiana di Solmi sia quasi sempre reso con “lingua”, è bene tener presente quest’ambivalenza semantica per comprendere più agevolmente ciò che Benjamin intende con “Sprache der Dinge”: l’espressione “linguaggio delle cose” risulta meno ostica al senso comune rispetto a “lingua delle cose”.

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all’uomo, l’essere in cui tutte le cose si comunicano e in cui la loro essenza è portata alla sua espressione più alta. Solo nell’uomo si giunge a una coincidenza completa di essere linguistico ed essere spirituale; infatti, l’essenza dell’uomo consiste nella facoltà di nominare le cose, sia nel senso di dare a esse espressione vocale, sia soprattutto come possibilità di attribuire un nome alle loro essenze linguistiche, esercitandovi il proprio dominio. Quest’ultimo elemento è ciò che maggiormente avvicina l’uomo a Dio. Come il Verbo divino ha un’azione creatrice, così l’imposizione del nome permette all’uomo di conoscere la natura e di dominarla, dominio che non va inteso in termini di hybris: a garantire la possibilità di un rapporto con la natura è Dio stesso, che imprime dei segni nelle cose affinché l’uomo possa dare loro il giusto nome, il nome che esse hanno nella pura lingua. Si tratta dunque innanzitutto di disporsi all’ascolto per interpretare i segni divini presenti nella natura, evento cui l’uomo è chiamato come a un dovere, un compito6,

perché nell’atto della nominazione ne va della sua essenza spirituale e di quella dell’intera opera della creazione:

La creazione di Dio si completa quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo.7

Il senso di questo passaggio risiede nel significato che Benjamin attribuisce all’atto della creazione, atto prettamente linguistico, che scaturisce direttamente dal Verbo divino. Quello che l’uomo vi aggiunge è il Nome, la

6

Cfr. Die Aufgabe der Übersetzer. Benjamin insisterà a più riprese sul carattere necessario della traduzione, sia dal linguaggio delle cose a quello dell’uomo prima della Caduta (Sulla lingua..), sia tra le lingue umane dopo Babele (Il compito del traduttore).

7

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possibilità di conoscere e comunicare quello che Dio ha creato, ponendo le basi per la rivelazione. In Dio e solo in Dio verbo e nome, creazione e conoscenza coincidono: perché alle cose sia possibile rivelare la propria essenza è necessario che ci sia la mediazione di una lingua meno perfetta, in cui la conoscibilità si traduca effettivamente in conoscenza.

Solo in Dio il nome, essendo intimamente identico al verbo creatore, è il puro medio della conoscenza. Vale a dire che Dio ha fatto le cose conoscibili nei loro nomi. Ma l’uomo le nomina a misura della conoscenza. [..] La traduzione della lingua delle cose in quella dell’uomo non è solo traduzione del muto nel sonoro, è la traduzione di ciò che non ha nome nel nome. È quindi la traduzione di una lingua imperfetta in una più perfetta, e non può fare a meno di aggiungere qualcosa, vale a dire la conoscenza.8

L’uomo aggiunge alla creazione la rivelazione, fa sì che quello che Dio ha creato possa manifestarsi, giungere alla comunicazione e al linguaggio. Ma perché questa conoscenza e questa comunicazione siano davvero espressione delle cose create, è necessario il tramite di Dio, garante della purezza della lingua, una lingua fatta di soli nomi. Quando l’uomo cerca di imitare Dio profferendo non più solo nomi ma giudizi, credendo di giungere così alla conoscenza del Bene e del Male, ecco che si rompe quel legame diretto tra cose e uomo: le cose diventano mute e i nomi vuote parole, la conoscenza delle cose non è più immediata e la natura si fa triste, incapace di comunicare la sua essenza. Il peccato originale è, lo accennavamo all’inizio del paragrafo, un peccato linguistico, come linguistico è l’atto della creazione. Dal momento

8

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in cui la lingua diventa un semplice mezzo, il passo verso la confusione delle lingue è breve: se si perde il legame divino con le cose, manca un legame diretto tra significante e significato. Viene meno quella traduzione perfetta della lingua delle cose nella lingua dell’uomo e inizia a delinearsi una forma nuova e meno pura di traduzione, quella che si limita a trasferire9 le parole

da un idioma all’altro, compito infinito perché costantemente imperfetto, come le lingue con cui ha a che fare.

In questo contesto in cui sia i nomi sia l’attività di traduzione hanno perso il loro significato e la loro forza originaria rimane comunque la possibilità di giungere a una conoscenza della natura come creata e dunque a una rivelazione della parola divina. Si tratta però di una forza depotenziata, di una “debole forza messianica” che il nome custodisce in sé. Come scrive Fabrizio Desideri:

Il nome, confine critico tra linguaggio della comunicazione umana e Rivelazione, è per un verso, il medio del darsi nella lingua dell’essenza delle cose, ma, per l’altro, il sigillo della differenza inconsumabile tra una lingua che conosce e una lingua che crea: nel nome si sente ancora l’eco di quel residuo spirituale che esso stesso, pur nella sua immediatezza, non ha potuto e non può nominare10.

9

O meglio, traghettare, come mostra il verbo tedesco übersetzen, che nella sua forma separabile (über-setzen) vuol dire “traghettare” e nella forma inseparabile assume appunto il significato di “tradurre”, trasportare le parole da una sponda all’altra.

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Spetterà alla traduzione il compito di far risuonare questa l’eco della lingua pura, compito impossibile eppure necessario, come Benjamin scriverà ne Il compito del traduttore.

Accanto alla traduzione propria dell’età edenica e di quella intesa nel senso corrente del termine, Benjamin nella conclusione del saggio Sulla lingua, propone una terza forma di traduzione, che si configura come via di recupero del rapporto tra l’uomo e le cose attraverso un linguaggio fondato sui segni: l’arte. Ciò vale chiaramente per la poesia, che si fonda direttamente sulla lingua nominale, o per il canto, che ha un’immediata affinità con la lingua degli uccelli. Ma anche la pittura e la scultura si fondano su una lingua delle cose e ne comunicano l’essenza attraverso un linguaggio non verbale e tuttavia comprensibile all’uomo, appunto perché basato sul segno. L’arte tutta ci parla dello stretto rapporto intercorrente tra lingua e segno, un legame di cui la relazione tra oralità e scrittura non rappresenta che l’aspetto più evidente.11 Tutta la lingua, tutti i linguaggi hanno in sé un lato simbolico

che resta inespresso, incomunicabile. Questo perché nelle lingue giudicanti,

11

Con le parole di Benjamin: La lingua dell’arte si lascia intendere solo in stretto rapporto con la teoria dei segni. Senza la quale ogni filosofia del linguaggio rimane del tutto frammentaria, poiché il rapporto tra lingua e segno (di cui quello fra la lingua umana e la scrittura costituisce solo un esempio particolarissimo) è originario e fondamentale. [Sulla lingua..., op. cit,. p. 69.] Su questo “esempio particolarissimo” Benjamin tornerà in altre occasioni, e soprattutto nel saggio Sulla facoltà mimetica. Il rapporto tra oralità e scrittura diverrà, come vedremo, il punto di partenza di molte riflessioni, come quella su narrazione e romanzo o quella su giustizia e diritto.

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che seguono la Caduta, si è perso il legame diretto tra nome e cosa: ogni parola lascia qualcosa di inespresso, un “residuo del verbo creatore di Dio” che attraversa la lingua muta della natura e “si è conservato nell’uomo come nome conoscente”, ma che non trova mai completa espressione.12

Solo in Dio questo iato tra parola e cosa si colma. La lingua divina possiede una chiarezza e una trasparenza assoluta, è una lingua completamente a-simbolica, perché in essa non c’è distanza tra comunicabile e incomunicabile, tra verbo e nome, tra creazione e conoscenza. Una lingua che non conosce differimento, in cui la cosa invocata si fa immediatamente presente. Quella di Dio è una lingua che non esiste nel tempo, che non può comunicare né conoscere, perciò è una lingua che non può esistere nel mondo ma solo manifestarsi in modo indiretto attraverso segni, di cui la creazione rappresenta il momento massimo13.

12

Questo residuo ineliminabile è proprio ciò che impedisce una traduzione piena tra idiomi umani ed è ciò che nel saggio del 1923 verrà definito l’“inteso”.

13

Il mondo inteso come presenza di Dio (shekinah), la creazione vista come atto linguistico, l’importanza attribuita al nome e alla sua vocalizzazione, il simbolismo linguistico presente nella natura, il legame tra lingua orale e rivelazione, i continui riferimenti alla magia insita nel linguaggio: sono solo alcuni degli elementi che accomunano questo saggio con la tradizione cabalistica, per altro in quegli anni riscoperta dall’amico Scholem, che è arrivato a definire Benjamin come “un puro mistico del linguaggio” (G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Adelphi, Milano, 1998). Sebbene il testo non sia esente da influssi mistici, non per questo può essere ricondotto interamente alla tradizione cabalistica: Benjamin insiste più volte sulla differenza tra essere linguistico ed essere spirituale, così come sull’impossibilità da parte dell’uomo di eguagliare la forza creatrice del verbo divino (su quest’aspetto: A. Fabris, Esperienza e paradosso, Franco Angeli,

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A differenza di quella divina, le lingue umane presuppongono sempre un momento di differimento e proprio per questo non posso esplicarsi che nel tempo. Se nella lingua pura nominale la relazione tra parola e cosa era immediata, con la Caduta la conoscenza diventa frutto di una ricerca, che, come tale, necessita di differenti passaggi temporali. La stessa forma secondo cui le lingue si strutturano, il giudizio, prevede un dispiegamento nel tempo, perché per essere formulato deve attraversare una fase di riflessione e astrazione, conseguenza anch’essa del peccato originale. La stessa differenziazione ha senso solo dove può esservi differenza, distanza, separazione e dunque una dimensione temporale.

Possiamo dunque concludere che, attraverso il peccato originale, l’uomo crea il tempo e lo crea, ancora una volta, come evento linguistico, che trova la sua origine ed esplicazione primaria nel linguaggio. È da un atto umano che si origina la storia ed è per questo che Benjamin, ne Il compito del traduttore sovverte il tradizionale rapporto tra natura e storia, ponendo quest’ultima in una dimensione che è precedente, come precedente è la sopravvivenza (delle opere) alla vita (delle opere stesse). Se la storia nasce da un evento linguistico, al linguaggio sarà affidato il compito di comprendere la struttura del tempo storico e di interpretarne l’andamento futuro. Su come Benjamin

Milano, 1994, cfr. cap. 7 “Dialettica del linguaggio in Walter Benjamin). Anche il ruolo attributo al segno e all’arte nell’ultima parte del saggio rappresenta una proposta di soluzione ben lontana dalla tradizione mistica, che anzi si avvicina agli ambiti della prassi e della vita sociale.

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intende questo compito e su quale ruolo vi giochino il segno e i suoi linguaggi (la scrittura, l’arte) vi torneremo più avanti.

2. Il compito del traduttore

Cinque anni dopo la composizione del saggio Sulla lingua, Benjamin torna a riflettere sul tema del linguaggio. Il compito del traduttore, composto nel 1921 e pubblicato nel 1923 come prefazione alla traduzione dei Tableaux parisiens14

di Baudelaire, riprende alcuni dei motivi sviluppati nel testo del 1916 analizzandoli in un contesto più vicino al senso comune, pur non rinunciando a frequenti riferimenti a una dimensione sacrale, rappresentata anche qui dalla lingua pura.

Riprendendo la critica alla “concezione borghese” della lingua e rifacendosi a quanto detto in conclusione del saggio precedente sull’arte come forma di linguaggio vicina alle cose, Benjamin introduce il saggio attraverso una riflessione sulla gratuità dell’opera d’arte, la quale non è creata in funzione di un fruitore ideale, e non si pone come obiettivo quello di attirare l’attenzione su di sé:

14

C. Baudelaire, Tableaux parisiens, Deutsche Übertragung mit einem Vorwort über die Aufgabe des Übersetzer von Walter Benjamin, Weißbach Vg., Heidelberg, 1923.

(11)

Nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori.15

Allo stesso modo, la traduzione non è rivolta a quei lettori che non conoscono la lingua originale in cui l’opera è stata redatta: Benjamin continua qui la polemica contro quelle filosofie del linguaggio che riducono la lingua a semplice mezzo per la comunicazione. Come il compito originario della lingua è portare a espressione l’essere linguistico delle cose, così la traduzione si prefigge lo scopo di contribuire alla vita delle opere. Così facendo, essa porta alla luce l’affinità esistente tra tutte le lingue umane facendo emergere dalla loro comparazione i riflessi della pura lingua.

Ma cosa s’intende con l'espressione “vita delle opere”? Secondo Benjamin, l’opera non esige una traduzione semplicemente perché la lingua in cui è scritta non è comprensibile a tutti: questa sarebbe un’esigenza rivolta semplicemente alla comunicazione. Al contrario, l’opera esige di essere tradotta per se stessa, perché attraverso la traduzione è possibile dischiudere nuove configurazioni di significato celate nella lingua che arricchiscono l’originale facendo emergere un senso che era estraneo all’epoca e al contesto

15

W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, op. cit., p. 39. Come Benjamin scriverà nel 1936 nel noto saggio L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, quest’aspetto di gratuità viene perdendosi nell’epoca contemporan

ea, a causa della cosiddetta “perdita dell’aura” delle opere d’arte, dovuta alla possibilità di una riproduzione seriale delle stesse (si pensi alla fotografia o al cinema) e al loro farsi opere di massa e per la massa. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einuadi, Torino, 1991

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in cui era stato redatto. Questo non significa cadere in una di quelle prospettive interpretanti professate da molte scuole accademiche (psicoanalitica, semiotica ma anche materialista) e come tali ben lontane dalla riflessione benjaminiana.

La traduzione non deve costringere l’opera in un’interpretazione predeterminata bensì deve far emergere quanto è già contenuto in nuce nella lingua dell’originale e che proprio in virtù della traducibilità insita in essa chiede di essere svelato. In questo senso, la traduzione rivela una stretta affinità con la critica romantica, all’analisi della quale Benjamin dedicherà la sua tesi di dottorato16. Come la traduzione, anche la critica contribuisce alla

vita dell’opera, perché ne approfondisce e arricchisce continuamente il significato. Non a caso i romantici, i primi a elaborare una compiuta teoria della critica, sono stati anche dei grandi traduttori:

Essi [i romantici] hanno capito prima di altri che le opere hanno una vita, e di questa la traduzione è una suprema conferma. È vero che essi non hanno riconosciuto questo valore della traduzione e hanno rivolto tutta la loro attenzione alla critica, che rappresenta anch’essa un momento, benché minore della sopravvivenza delle opere.

16

Cfr. W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Opere complete I, op. cit. Per un approfondimento sul legame tra traduzione e critica si veda il secondo capitolo.

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Ma anche se la loro teoria non è quasi rivolta alla traduzione, la loro stessa grande opera di traduttori implicava il sentimento e la dignità di questa forma.17

La traduzione è una forma essenziale al linguaggio e alle opere e si configura come un compito necessario, cui l’opera stessa chiama e che ciò nonostante si rivela sempre impossibile da realizzare. Questo non solo perché esiste una dicotomia tra fedeltà e libertà, tra precisione lessicale e trasmissione del senso: tutto ciò ha ancora a che fare con la teoria della comunicazione. Il problema essenziale di ogni buona traduzione è far emergere ciò che nella lingua resta inespresso. Questo non-comunicabile (Benjamin lo chiama qui l’inteso) che resta celato dietro ogni parola è ciò che, identico in tutte le lingue, rappresenta la condizione di possibilità di ogni traduzione.

In Brot e pain l’inteso è senza dubbio identico ma il modo di intenderlo non lo è. Dipende, cioè, dal modo di intendere che le due parole significano qualcosa di diverso per il francese e per il tedesco, che non sono intercambiabili per l’uno e per l’altro, e che anzi, in ultima istanza, tendono a escludersi; mentre dipende dall’inteso che esse, prese assolutamente, significano una sola e medesima cosa.18

L’inteso è la base dell’affinità di tutte le lingue, che non viene alla luce in nessuna di esse prese singolarmente, ma emerge dal raffronto tra di esse, complementare e al contempo escludente (Brot e pain non sono intercambiabili per un tedesco o un francese). L’inteso dunque, pur essendo

17

Il compito del traduttore, p. 46. L’interesse che il Romanticismo ha suscitato in Benjamin già nei suoi primi di ricerca è dimostrato dai due saggi sul Trauerspiel composti tra il 1916 (Trauerspiel e tragedia) e il 1917 (Il significato del linguaggio nel Trauerspiel).

18

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ciò che garantisce la traducibilità, è ciò che al soldo della traduzione resta non tradotto. Esso traspare solamente dall’insieme delle singole traduzioni rivelandosi come lingua pura, fondamento dell’affinità tra le lingue storiche. Il traduttore è colui che scova nelle lingue la “debole forza messianica”, lasciando intravedere la possibilità di una riconciliazione in nell'unica lingua che può unificarle e superarle tutte. Il suo compito è quello mostrare come tutte le lingue storiche siano in realtà, “frammenti di una lingua più grande”, “come i cocci frammenti di uno stesso vaso”. La traduzione ricopre dunque un ruolo vicino a quello che nel saggio del 1916 era affidato dell’arte e in particolar modo alla poesia, forma artistica che più di tutte allude a quella lingua originaria fatta di soli nomi. Ma il ruolo di cui è investito il traduttore si rivela più definitivo di ricoperto dal poeta, difatti:

Non solo la sua [del traduttore] intenzione è rivolta a qualcosa d’altro da quella dell’opera poetica, e cioè a una lingua nel suo complesso a partire da una singola opera d’arte in una lingua straniera, ma è essa stessa diversa: quella del poeta è ingenua, primaria, intuitiva, quella del traduttore derivata, ultima, ideale. Poiché il grande motivo dell’integrazione delle molte lingue nella sola lingua vera è ciò che ispira il suo lavoro.19

L’opera del poeta è ingenua e primaria perché compie il suo lavoro nella lingua, tentando di recuperare una purezza originaria e di farla rivivere nella storia. Il traduttore invece attraversa le lingue, si sofferma sugli spazi di significato ancora aperti, sulle fessure attraverso le quali traspare l’inteso, per

19

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far intravedere un’unità che non è possibile ricomporre qui, nel corso della nostra storia. Per questo la sua intenzione è qualificata nel passo precedente come ideale. Ma non si deve pensare a un’idea regolativa in senso kantiano, qui non si è in presenza di un’unità concettuale irraggiungibile cui sempre tendere. La pura lingua è innanzitutto qualcosa di esistente, che agisce effettivamente nella storia per mezzo dell’inteso garantendo la traducibilità tra le lingue umane e dando segni di sé in quelle lingue non verbali che lasciano intravedere un legame con la lingua delle cose. Essa ha dunque un suo aspetto concreto e tangibile, spesso forse sottovalutato dalla critica, che tende a esaltare eccessivamente gli aspetti mistici, romantici e finanche platonici presenti nella teoria linguistica di Benjamin, la quale tuttavia mostra una certa attenzione alla manifestazione storica dei fenomeni anche ben prima di aderire al marxismo.20

L’aspetto ideale della lingua pura è da ricercarsi proprio nella relazione che essa intrattiene con la storia. Se nel saggio del 1916 la lingue delle cose sembra appartenere a un passato mitico che rivela ancora tracce di sé nei linguaggi che le sono sopravvissuti, qui sembra piuttosto situarsi nel futuro, come promessa di una riconciliazione che avverrà nel momento in cui i frammenti sparsi nelle lingue umane saranno ricomposti in un'unità. Il

20

Nel confutare le teorie linguistiche dominanti, basate sulla funzione comunicativa del linguaggio, Benjamin non manca di interrogarsi sui meccanismi reali che permettono al linguaggio di svolgere la sua funzione di medium. Sia detto questo sia per quanto riguarda la pratica della traduzione, sia a proposito della riflessione sull’arte come forma linguistica non verbale che tuttavia riesce a caricarsi di un senso, a mediare un contenuto essenziale.

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compito del traduttore sarebbe allora quello di preparare il terreno per questa ricomposizione, per questa venuta della lingua pura.

Redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione –questo è il compito del traduttore.21

Una redenzione che, però non è destinata a compiersi nella storia e non è frutto di un processo cui il traduttore prende parte, dal momento che:

Ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue. Altra soluzione che temporale e provvisoria, una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità rimane vietata agli uomini o non è, comunque, direttamente perseguibile.22

La pura lingua agisce dunque nella storia, come condizione per la traducibilità tra tutte le lingue, ma non si trova inserita nella dimensione temporale, né propriamente come passato, poiché quello pre-babelico è un passato puramente mitico, né come futuro, in quanto non tende a una concreta realizzazione e tanto meno agisce come telos cui la storia tende. La lingua pura si qualifica piuttosto come meta-storica, intrattenendo un legame diretto con il tempo (non è a-storica come possono esserlo le idee platoniche) ma configurandosi secondo categorie temporali che sono altre rispetto a quelle della storia: è originaria e messianica.

L’importanza e il significato che questi due termini ricoprono nell’economia della produzione benjaminiana sono troppo problematici perché se ne possa discutere qui in modo esauriente, in ogni caso proveremo ad accennare

21

Ivi, p. 50

22

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brevemente a cosa Benjamin intenda parlando di “messianismo” e di “origine”.

3. Messianismo e origine in rapporto alla lingua pura

Per quanto riguarda il termine messianismo, esso fa una comparsa relativamente tarda all’interno del pensiero filosofico europeo e appare per la prima volta come titolo in un’opera del 1831 del filosofo polacco Józef Hoene Wronski23. Il significato del termine è legato alle profezie veterotestamentarie

di un liberatore di Israele inviato dal Signore come instauratore di un definitivo “regno di Dio”, identificato dai cristiani nella figura di Gesù di Nazareth. All’interno del contesto filosofico il termine viene inizialmente ad assumere un significato che rimanda sia all’avvento definitivo della verità sulla terra (secondo una connotazione più vicina al pensiero cristiano), sia al risorgere di una nazione che redimerà se stessa e attraverso di sé tutti gli altri popoli, secondo una concezione più spiccatamente ebraica.

Nel Novecento, coloro che hanno utilizzato questa categoria hanno spesso accentuato il carattere di discontinuità e di distruzione insite nel termine. L’avvento messianico rimanda a un’idea di cesura, di taglio netto con il passato che addirittura può sancire, in alcuni pensatori, la fine dell’accadere

23

J. H. Wronski, Union finale de la philosophie et de la religion, constituant la philosophie absolue, tome I, Prodrome du Messianisme. Per uno studio del termine “messianismo” si veda G. Cunico “Alle origini del messianismo filosofico”, in Annali di storia dell’esegesi, 10, 1, 1983, pp. 95-126.

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temporale. Una fine della storia, dunque, ma ben lontana dagli elementi di compiutezza teorizzati da Hegel e ripresi dal materialismo dialettico.

È in questa accezione novecentesca che Benjamin parla di messianismo, inizialemente solo con brevi accenni, come nel saggio Trauerspiel e tragedia e nel Frammento teologico - politico24, dove sottolinea la differenza tra la fine del

tempo storico e un suo presunto compimento:

Il regno di Dio non è il telos della dynamis storica; non può essere posto come meta. Dal punto di vista della storia esso non è la meta ma la fine. Perciò l’ordine profano non può essere costruito in base all’idea del regno di Dio.25

È nelle Tesi sul concetto della storia che Benjamin riprende e affronta direttamente il tema messianismo, ponendolo in relazione con la teoria marxista dell’avvento di una società senza classi. Di questo rapporto, sicuramente non privo di complessità, avremo modo di vedere in seguito; ciò che ora occorre rilevare è il carattere improvviso con cui questa fine messianica irrompe nella storia. La fine non arriverà come compimento di un percorso ma come interruzione, e perciò essa potrebbe succedere in qualsiasi momento. Questa concezione della fine era già stata sviluppata da certe correnti del pensiero ebraico, ma

non per questo il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia.26

24W. Benjamin, Frammento teologico - politico, in Opere complete I, op. cit., pp.

512-513

25

Ivi, p. 513

26

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Si comprende allora come il compito del traduttore sia quello di far intravedere le schegge di questo a-venire, il tempo messianico in cui si ricomporranno i frammenti dispersi nelle singole lingue umane. Come scrive Cristina Guarnieri nella sua tesi magistrale, poi pubblicata col titolo Il linguaggio allo specchio:

La lingua pura appartiene totalmente solo a questo tempo della redenzione. Nel tempo storico può essere solo prefigurata in modo allusivo: questo chiamare a è l’infinito compito dato in consegna al traduttore.27

Investito da un compito insolubile, alle prese con un futuro indeterminato, il traduttore rischia di perdersi negli abissi del linguaggio, di produrre una versione che si sostituisca all’originale e che al contempo non sia ulteriormente traducibile, riducendosi così al silenzio28. Di fronte a questo

rischio, un appiglio è fornito dai testi sacri di cui è sempre possibile una traduzione, dal momento che in essi è presente la vera lingua, la cui traducibilità riposa nella letterarietà e non nel senso.

Affrancato dalla tensione tra fedeltà e libertà, il traduttore riscoprirà la forza insita nelle parole e, traducendole, produrrà un testo che non compra l’originale né possa sostituirsi a esso.

27

C. Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco, ed. Mimesis, Milano, 2009, p. 97

28

Il riferimento di Benjamin va qui alle traduzioni dal greco di Hölderlin, in particolare delle due tragedie di Sofocle, dove l’armonia tra le lingue è tale che le traduzioni diventano più perfette dei testi, sostituendosi a esse e rendendo l’opera non ulteriormente traducibile.

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La versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione29.

Una volta chiarita la struttura temporale insita nel concetto di messianismo, appare chiara a Benjamin la necessità di una ridefinizione del concetto di origine, dal momento che questa non può più rivestire il ruolo di principio fondante che giustifica e dà un senso alla storia teologicamente orientata. In un tempo disomogeneo, disseminato di momenti significativi che condensano intorno a sé passato e futuro, l’Ursprung rimanda l’origine come salto originario (Ur-Sprung)30 che si colloca al di fuori della successione

cronologica e che tuttavia è pienamente inserita nel divenire. Anzi, l'origine si crea proprio nel divenire, irrompendo improvvisamente nel tempo della fine come un “balzo di tigre nel passato”31.

Nella premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco, Benjamin dà una descrizione chiara di ciò che intende con il termine origine, che vale la pena di riportare qui per intero:

L’origine, pur essendo una categoria pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi [Entstehung]. Per “origine”, non si intende il divenire di ciò che scaturisce bensì al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare. L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice, e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita. Nella nuda e palese compagine del fattuale, l’originario non si dà

29

Il compito del traduttore, op. cit., p.52.

30

Per questa immagine cfr. J. M. Gagnebin, Historie et narration chez Walter Benjamin, L’Harmattan, Paris, 1994, p. 20.

31

(21)

mai a conoscere, e il suo ritmo si dischiude soltanto a una duplice visione. Essa vuol essere intesa come restaurazione, come ripristino da un lato, e dall’altro, e proprio per questo, come qualcosa di imperfetto e di inconcluso. In ogni fenomeno originario si determina la forma sotto la quale un’idea continua a confrontarsi col mondo storico, finché essa non sta lì, compiuta, nella totalità della sua storia. L’origine dunque non emerge dai dati di fatto, bensì riguarda la loro preistoria e la storia successiva.32

Alla luce di questo passo può essere risolta la contraddizione che vede la lingua nominale sia come passato mitico, sia come stato di cose non ancora esistente. Intesa come fenomeno originario, la lingua pura raccoglie in sé quella tensione tra il già stato che sopravvive nella dimensione mitica e l’a-venire che è annunciato dall’opera del traduttore, attraverso cui la purificazione della lingua giungerà al suo compimento. Ma, come già accennato nell’analisi del saggio Sulla lingua, un linguaggio che non si sviluppa nel tempo e che non prevede la temporalità nella sua costituzione è un linguaggio impossibile, che non può mai essere stato. La lingua pura, dunque, non si colloca né nel passato né nel futuro, ma in quel momento originario e finale in cui passato e futuro s’incontrano e si fondono in un corto-circuito temporale che è al contempo adempimento di una promessa e riproposizione di un evento mitico.

Credere nella possibilità di una lingua pura è credere a una temporalità che rompe con il continuum della storia, è nutrire una “speranza nel passato”,

32

(22)

secondo la celebre espressione di Peter Szondi33. Le incursioni nel misticismo

linguistico e le brevi prose in cui Benjamin rievoca l’infanzia34 – di cui

avremo modo di parlare più avanti in questo capitolo – hanno in comune l’indagine di un passato che, avvolto nelle nebbie del mito o reso sfuocato dal susseguirsi degli anni, si rivela nel suo carattere d’incompletezza, di apertura a un futuro da cui attende di essere interpretato. E allo stesso tempo questo passato perduto è l’unica dimensione in grado di dare un senso al futuro, a far sì che la speranza non ceda il posto alla disperazione.

Il cammino verso l’origine è certamente un cammino a ritroso, a ritroso però verso qualcosa di futuro che, benché nel frattempo sia trascorso e sia stato pervertito nella sua idea, della promessa conserva pur sempre di più di quanto non faccia l’immagine odierna del futuro.35

4. Des tours de Babel. La lingua pura come promessa

Tra i diversi autori che hanno commentato le teorie linguistiche di Benjamin, colui che meglio ha saputo penetrare nello spirito di questi saggi è indubbiamente Jacques Derrida. Ebreo di nascita, marxista eterodosso, studioso del linguaggio lontano da ogni accademismo, sempre al crocevia tra

33

P. Szondi, Speranza nel passato. Su Walter Benjamin, in Aut aut 189-190, maggio-agosto 1982, pp. 10-24

34

Cfr. W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al Millenovecento, in Opere complete V, Scritti 1932-33, Einaudi, Torino 2003

35

(23)

letteratura e filosofia, Derrida si confronta a più riprese con Benjamin, che pur non figurando tra i suoi maestri dichiarati affiora come uno “spettro” nella produzione del filosofo francese.

In Des tours de Babel Derrida propone un parallelismo tra la lingua pura e la traccia, termine chiave per il filosofo francese, che utilizza per riferirsi a un “passato che non è mai stato presente”36 ne mai lo sarà, il cui avvenire non può

darsi come (ri)produzione nella forma della presenza. Allo stesso modo la lingua nominale rappresenta la traccia di un evento appartenente all’ordine del mito, che non può essersi dato nella storia come presenza piena. Ciò che esiste ed è realmente presente è l’insieme delle lingue storiche, spazio costituito attraverso l’emergere di quell’affinità tra le lingue che le traduzioni mettono in luce.

La traduzione rende presente in un modo solamente “anticipatorio”, annunciatore, quasi - profetico, un’affinità che non è mai presente in tale presentazione.37

La traduzione di un testo da una lingua a un'altra non si configura come rappresentazione o riproduzione: il rapporto tra originale e versione non è quello intercorrente tra la copia e il modello, perché, afferma Derida riprendendo direttamente le parole di Benjamin, è l’originale a esigere una traduzione per sopravvivere e trasformarsi.

36

J. Derrida, La differance, in Margini –della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, p. 59. Come Derrida non manca di esplicitare, questa definizione di traccia è di Emmanuel Levinas. Cfr. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris, 1974³, p. 201

37

J. Derrida, Des tours de Babel, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano, 1995, p. 395

(24)

La traduzione sarà in verità un momento della sua propria crescita, vi si completerà nell’ingrandirsi. Ora, bisogna che la crescita – ed è in questo che la logica “seminale” ha dovuto imporsi a Benjamin – non dia luogo a una qualsiasi forma in una qualsiasi direzione. La crescita deve compiere, riempire, completare (Ergänzung è la parola più frequente). E se l’originale domanda un complemento, è perché all’origine non era là senza colpa, pieno, completo, totale, identico a sé.38

La lingua pura come “ragione seminale” che contiene in sé a priori tutte le lingue del mondo, che non si dà nel tempo ma che nemmeno è mai esistita al di fuori di esso perché, scrive Derrida, la creazione non è avvenuta una volta per tutte bensì continua ad avere luogo, a scaturire da un’origine che a sua volta è incompleta, costantemente sfiorata come la circonferenza dalla tangente.

E così come il contatto nel punto di tangenza assegna alla retta la legge della sua traiettoria, così anche il completamento della lingua pura deve avvenire secondo una precisa direzione. A fare da segnavia in questo caso è il nome, e in particolare il nome proprio, elemento massimamente intraducibile39, che si

colloca nella lingua ma non vi appartiene, che non aderisce al sistema linguistico e proprio per questo permette di mantenere una distanza tra la lingua originale e quella in cui avviene la traduzione, impedendo che quest’ultima copra violentemente la prima:

38

Ivi, p. 397

39

La stessa parola “Babele” è in realtà un nome proprio. Come già fa notare Voltaire nel suo Dizionario filosofico, viene solitamente tradotta con “confusione”. Essa in realtà significa “Città di Dio”, dall’unione di Ba – parola che nelle lingue semitiche significa “padre – e Bel, “Dio”.

(25)

Benjamin propone una curiosa “immagine”: la proposizione (Satz) sarebbe “il muro davanti alla lingua dell’origine”, mentre la parola, la parola per parola, la letteralità (Wörtlichkeit) ne sarebbe l’arcata. Mentre il muro porta nascondendo (è davanti all’originale), l’arcata sostiene lasciando passare il giorno e dando a vedere l’originale (non siamo lontani dai “passaggi parigini”). Questo privilegio della parola supporta, evidentemente, quello del nome, e, insieme a questo, la proprietà del nome proprio, posta e possibilità del contratto di traduzione.40

Il passaggio cui Derrida fa riferimento non è solo quello dalle lingue storiche alla lingua nominale, ma è anche e soprattutto passaggio temporale, corto-circuito in cui la lingua pura, allo stesso tempo origine e promessa, si rende presente come l’evento “raro e considerevole” della traduzione, indicando la direzione verso un regno insieme “promesso e proibito in cui tutte le lingue si riconcilieranno e si compiranno”.

Questo reame non è mai raggiunto, toccato o traversato dalla traduzione. C’è dell’intoccabile, e in questo senso la riconciliazione è soltanto promessa. [..] In quanto promessa, la traduzione è già evento, e la firma decisiva di un contratto.41

La traduzione è sia l’evento da cui trae origine la lingua pura, sia la traccia in cui questa stessa lingua riaffiora. Allo stesso modo, possiamo dire che nella narrazione di un evento non solo emerge la traccia dell’evento stesso, ma esso viene (ri)creato attraverso la parola, che permette di dare un senso

40

Des tours de Babel, op. cit., p. 397

41

Ivi, p. 401. In tutto il saggio sono presenti accenni a un paragone tra la traduzione e il contratto. L’analisi del rapporto tra linguaggio e diritto in Benjamin sarà oggetto di un altro saggio di Derrida, A forza di legge, che avremo modo di analizzare nel capitolo successivo.

(26)

unitario a ciò che, senza la narrazione, sarebbe un mero susseguirsi di azioni distinte. La narrazione si fa dunque essa stessa evento, si sostituisce all’evento originario. Alla creazione si sostituisce la rivelazione, che

È il testo assoluto perché con il suo evento non comunica nulla, non dice nulla che faccia senso fuori da questo evento stesso.42

Nel connotare la rivelazione come “testo” Derrida ha già trasposto questo evento sul piano del linguaggio, e in particolare nella sfera della scrittura, concetto che nell’opera derridiana andrà incontro a un ampliamento di senso e a una risemantizzazione i cui abbozzi possono essere rintracciati già in alcuni saggi maturi di Benjamin.

5. Sulla facoltà mimetica

Il rapporto tra oralità e scrittura, che nei primi saggi sul linguaggio resta solo accennato, assumerà nella produzione successiva di Benjamin un ruolo rilevante. D’altra parte, già nei primi saggi si può notare questa tensione: se la lingua nominale è una lingua sonora, che si esprime attraverso la voce, le lingue umane intrattengono sempre un rapporto più o meno diretto con il segno e con la scrittura, ad esempio per quanto riguarda il loro rapporto con le opere d’arte e con la forma della traduzione. Va precisato fin da subito che il termine “scrittura”, proprio come quello di linguaggio, nell’opera di Benjamin assume una connotazione più ampia di quella corrente,

42

(27)

anticipando in questo senso alcune riflessioni sviluppate poi da Derrida. Preziose indicazioni in tal senso ci sono fornite dal saggio Sulla facoltà mimetica.

Nel 1933, diciassette anni dopo la composizione di Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, Benjamin riprende in mano quel saggio per confrontarlo con alcuni appunti sullo stesso tema che sta scrivendo durante il soggiorno a Ibiza, come testimonia il fitto scambio epistolare tra Benjamin e Scholem in quel periodo.43 Da questa comparazione nasce Sulla facoltà

mimetica un testo che, come quello del 1916, appartiene al versante “esoterico” della produzione benjaminiana: testi che non sono pensati per la pubblicazione ma che vengono fatti circolare presso amici, colleghi e in generale coloro i quali Benjamin ritenevca importante tenere aggiornati sugli sviluppi delle proprie ricerche.

In questo saggio la distanza temporale e l’avvicinamento a una prospettiva materialista si fanno sentire: ogni riferimento di natura religiosa è scomparso. Nondimeno resta ben visibile il richiamo a una dimensione mitica e ancestrale, che si manifesta all’uomo contemporaneo attraverso il linguaggio e che in passato era resa conoscibile dalla facoltà mimetica, ovvero la capacità di scorgere i segni della natura e di imitarli o direttamente con il proprio corpo prima attraverso la produzione di segni – grafici e non – poi. Presente nell’uomo sin da tempi remotissimi, la facoltà mimetica nei secoli è andata

43

Cfr. W. Benjamin e G. Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987.

(28)

indebolendosi e oggi se ne possono vedere solo alcune le tracce nei giochi infantili, ad esempio quando il bambino gioca a imitare altri uomini, ma anche oggetti inanimati come “il mulino a vento o il treno”.

Le danze degli antichi o l’indagine del proprio destino attraverso l’astrologia rappresentano esempi di applicazione di questa facoltà mimetica, che spingeva l’uomo a riprodurre nel microcosmo le somiglianze immateriali presenti nel macrocosmo. In età contemporanea è possibile risalire a questa produzione di somiglianze immateriali attraverso l’analisi del linguaggio, anch’esso derivato dalla facoltà mimetica. L’esempio più diretto ci viene fornito dalle parole definite comunemente “onomatopeiche”, ma questo ci aiuta a cogliere solo l’aspetto più sensibile della questione, se è vero che: Ogni parola, e tutta la lingua, è onomatopeica.44

Benjamin si rende conto delle difficoltà di comprensione che questo concetto di “somiglianza immateriale” presenta e tentando di chiarirne sul suo significato fornisce un esempio molto vicino a quel non-comunicabile che ne Il compito del traduttore era stato definito l’inteso:

44

W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus &ovus, op. cit., p. 73. In occasione di un articolo commissionato dall’Institut für Sozialforschung (Probleme der Prachsoziologie, in Zeitschrift für Sozialforschung, IV, 1935, n.2, pp. 248-68. trad. it. Problemi di sociologia del linguaggio in Opere complete VI, op. cit, pp. 197-222). Benjamin avrà occasione di confrontare la sua posizione con le più recenti ipotesi sull’origine del linguaggio. Sebbene il testo sia consista in una semplice rassegna di posizioni, Benjamin non nasconde la sua simpatia per chi, come Lévy-Bruhl, sostiene la tesi di un’origine onomatopeica della lingua o chi addirittura, come Paget, propone una teoria mimetica in senso più ampio, molto vicina a quella presente nel saggio Sulla facoltà mimetica.

(29)

Ordinando parole di diverse lingue che significano la stessa cosa, intorno a quel significato come al loro centro, bisognerebbe indagare come esse tutte –che possono spesso non avere tra loro alcuna somiglianza –sono simili a quel significato nel loro centro.45

Sembra dunque che, a partire dalla somiglianza immateriale che emerge dall’inteso, sia possibile cogliere come l'affinità presente in tutte le lingue e dovuta al fatto che esse si sono originate tutte attraverso la facoltà mimetica, in questo caso declinata come capacità di cogliere e imitare nel linguaggio i segni presenti nelle cose. Siamo dunque nuovamente in presenza di una traduzione dell’essenza linguistica delle cose nella lingua umana, ovvero a un’espressione sonora di ciò che le cose comunicano all’uomo attraverso segni (le somiglianze).

Oltre a uno spostamento da una dimensione divina trascendente a una più umana e terrena, Benjamin compie un passo ulteriore rispetto ai saggi giovanili, affermando che questa somiglianza non è presente solo nella lingua orale, ma anche nella lingua scritta. Si approfondisce quel legame tra lingua e segno che già nel saggio Sulla lingua era stato definito “originario e fondamentale”.

L’indagine non può limitarsi alla parola detta. Essa ha invece altrettanto a che fare con la lingua scritta. Dove è sintomatico che questa –in molti casi, forse, in modo più pregnante che quella parlata –chiarisce, col rapporto della sua lingua scritta all’oggetto significato, la natura della somiglianza immateriale. In breve, è la

45

(30)

somiglianza immateriale che fonda le tensioni non solo tra il detto e l’inteso, ma anche fra lo scritto e l’inteso, e altresì fra il detto e lo scritto.46

Anche la scrittura, dunque, nasce da un’analisi dei segni presenti nella natura – da una loro lettura. Si tratta di “leggere ciò che non è mai stato scritto”: le stelle, le viscere degli animali.

Nella versione preparatoria del saggio, conservata con il titolo di Dottrina della similitudine, Benjamin indica questa originaria forma di lettura con il verbo herauslesen, letteralmente “estrarre leggendo, intuire attraverso la lettura”. La lettura non è la mera capacità di cogliere il significato di un segno, ma un duplice processo in cui l’interpretazione del segno forma un tutt’uno con l’individuazione dello stesso:

l’astrologo legge [lesen] la posizione astrale leggendovi [herauslesen] al tempo stesso il futuro o il destino.47

Solo più tardi da questa lettura si passò a un’imitazione grafica dei segni, attraverso la composizione di simboli dotati di una valenza magica, come i geroglifici e le rune. Dalle prime forme di scrittura si passò ad altre via via più astratte, fino ad arrivare alla scrittura alfabetica, dove non si conserva quasi più traccia delle corrispondenze48 immateriali, se non sotto forma di

intuizioni improvvise che in un baleno si presentano all’uomo e subito guizzano via: le costellazioni astrali appaiono solo per un secondo

46

Ivi.

47

W. Benjamin, Dottrina della similitudine, in Opere complete V. Scritti 1932-33, Einaudi, Torino, 2003, p. 442

48

(31)

all’osservatore, così come i frammenti della lingua pura si lasciano solo intravedere nell’opera del traduttore.

6. Dalle costellazioni ai Denkbilder

La rapidità con cui l’uomo sapeva cogliere le similitudini non sensibili e adattarsi a esse è mostrata, sostiene Benjamin, dall’importanza che l’astrologia attribuisce alla posizione dei corpi celesti al momento della nascita, quando le forze vitali presenti nel neonato si disponevano immediatamente a imitazione della mappa del cielo. Se questa capacità è andata scemando, ciò non significa, lo abbiamo visto, che non se ne conservi delle tracce nei bambini, per i quali alcuni oggetti dell’esperienza quotidiana si caricano di un significato nascosto, capace talvolta di riemergere all'improvviso nei ricordi dell’età adulta.

Di questo passaggio dalla capacità mimetica in senso stretto alla produzione di immagini nel ricordo dà testimonianza il frammento A proposito della “lampada”49, contenuto in cui alcuni appunti al saggio Dottrina della

similitudine:

Quanto, migliaia di anni fa, la posizione astrale influisse sull’esistenza di un uomo al momento della nascita, si intesseva sulla base della similitudine, in virtù della quale

49

Il riferimento è a quella lampada di cui nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, voleva cogliere l’essenza linguistica. La stessa lampada si ritrova in Infanzia berlinese intorno al Millenovecento, a ulteriore conferma del fil rouge che attraversa l’intera produzione benjaminiana.

(32)

gli spiriti e le forze vitali si formavano secondo un disegno che era già tracciato per loro nel cosmo. Forse, è probabile che le capacità creative possedute dalle nuove generazioni non siano più di sì ampio respiro. E sbaglio, se dico che esse in me hanno assunto la forma delle sedie, delle trombe delle scale, degli armadi, delle tendine, addirittura di una lampada, proprio così come essi si presentavano al tempo della mia infanzia?50

Il passaggio risulta sicuramente oscuro, più vicino alle scienze occulte che a un saggio di filosofia, eppure riveste un ruolo importante nell’economia dell’opera benjaminiana, perché rende conto del passaggio “esoterico” che porta dalle riflessioni sul linguaggio alla messa in prosa di tutte quelle “similitudini non sensibili” colte da Benjamin aggirandosi per le vie di Berlino, visitando città straniere o ripensando all’infanzia. Strada a senso unico(1928), Immagini di città (1925-30), Mangiare (1930) Infanzia berlinese intorno al Millenovecento (1932): dalla stesura de Il compito del traduttore fino alla composizione del saggio Sulla facoltà mimetica Benjamin non ha mai smesso di dedicarsi al problema del linguaggio, ma ha scelto di affiancare alle riflessioni di carattere accademico, forme di espressione meno convenzionali, definite dall’autore stesso “Denkbilder”. Le raccolte di Denkbild, pubblicate da Benjamin stesso o edite dopo la sua morte, sono state spesso sottovalutate dalla critica filosofica, che non sempre ha saputo scorgere dietro la forma del racconto, un contributo alla filosofia del linguaggio. In realtà la produzione di questi racconti brevi non deve essere

50

W. Benjamin, Appendici a Dottrina della similitudine, in Opere complete V, op. cit., pp. 447-448

(33)

intesa come semplicemente collaterale alla produzione saggistica, ma tale da influenzare direttamente le ricerche sulla filosofia del linguaggio. Ciò è testimoniato anche da quanto Benjamin afferma in una lettera a Scholem in cui scrive che la teoria circa l’origine mimetica del linguaggio è stata fissata nel corso di studi relativi al primo testo dell’Infanzia berlinese51.

Il Denkbild, letteralmente “immagine di pensiero”, è un breve testo in cui il racconto di un’esperienza soggettiva si carica di una valenza critica oggettiva che viene resa non attraverso un momento esplicitamente riflessivo ma suggerita da un’associazione di elementi quotidiani e sprazzi onirici. Questa unione permette la formazione di un’immagine carica di significato che pian piano prende corpo nella mente del lettore.

Pensati inizialmente come aforismi, i Denkbilder finiscono con l’assumere una fisionomia più complessa, sia per il loro carattere fortemente autobiografico e spesso intimistico – in particolare per quanto riguarda la raccolta Infanzia berlinese intorno al Millenovecento –, sia per l’importanza che viene riservata all’elemento figurativo, che avvicina queste creazioni alla forma dell’allegoria. D’altra parte, la prima raccolta di Denkbilder – pubblicata con il titolo Strada a senso unico – è stata redatta da Benjamin tra il 1924 e il 1926, periodo in cui stava lavorando alla stesura della tesi per la libera docenza (poi non ottenuta), in cui l’analisi dell’allegoria barocca gioca un ruolo

(34)

fondamentale52. Non è possibile addentrarsi qui in un’analisi approfondita

de Il dramma barocco tedesco, uno dei pochissimi lavori di Benjamin che si estenda oltre la forma del saggio breve e la cui complessità ha sicuramente giocato un forte ruolo nella decisione di non attribuire all’aspirante professore l’abilitazione alla libera docenza, chiudendo per sempre a Benjamin le porte del mondo accademico.53 Nondimeno, è importante

chiarire brevemente cosa Benjamin intenda con il termine allegoria, dal momento che questo concetto non solo aiuta a comprendere meglio la forma del Denkbild ma, come vedremo, permette di addentrarsi ulteriormente nel ruolo giocato dalle figure retoriche (in cui possiamo inserire il Denkbild) nel rapporto tra oralità e scrittura.

L’allegoria è una forma espressiva che permette di esprimere un concetto attraverso l’uso di un’immagine. A differenza della metafora, rimanda a un contesto di significato più ampio, cui non si giunge intuitivamente, ma solo

52

Sul ruolo giocato dall’allegoria barocca nella produzione dei Denkbilder cfr. K. Kirst, Walter Benjamin’s. "Denkbild": Emblematic Historiography of the Recent Past, in Monatshefte, Vol. 86, No. 4 (1994), pp. 514-524. Recentemente il germanista Rainer Nägele ha sostenuto addirittura che il termine Denkbild non sia entrato nella lingua tedesca con Stefan George, da cui Benjamin lo avrebbe preso, ma fosse in uso già dai tempi di Herder come traduzione di “emblema”, la combinazione di immagine e testo tipica del Rinascimento e del periodo Barocco. R. Nägele, Body politics: Dialectical Materialism between Brecht and the Frankfurt School, in D. Ferris (edited by), The Cambridge Companion to Walter Benjamin, Cambridge University Press, 2004, pp. 152-176, cfr. in particolare p. 158.

53

Per una ricostruzione della vicenda I. Wohlfarth, Riabilitazione di Benjamin? Per un’autocritica. In L. Belloi, L. Lotti (a cura di), Walter Benjamin. Tempo, storia, linguaggio, Editori Riuniti, Roma1983, pp. 239-243.

(35)

in seguito a una riflessione. Quello che fa dell’allegoria la forma espressiva tipica del Barocco è, secondo Benjamin, il suo costante alludere a una dimensione superiore, la quale rimane solo intravista senza dischiudersi completamente. In questo l’allegoria si contrappone al simbolo, la cui forza espressiva dischiude l’immagine di una totalità organica, più adatta a una visione del mondo propria del Romanticismo.

Tutta la seconda parte del libro sull’origine del dramma barocco tedesco s’incentra sulla contrapposizione tra il simbolo Romantico e l’allegoria barocca: se il primo dischiude una dimensione ulteriore presentandola attraverso l’immagine di una totalità organica, la seconda può solamente alludere a una realtà più ampia, senza riuscire a mostrarla nella sua interezza, a “ricomporre l’infranto”.

La forza figurativa dell’allegoria sta in questo suo presentarsi come blocco di senso cristallizzato in un’immagine, caratteristica che la accomuna ai geroglifici e alle rune, forme grafiche che, come abbiamo visto, conservano una forza espressiva ben superiore a quella della scrittura alfabetica.

Se la scrittura vuole assicurarsi il proprio carattere sacrale – e allora non potrà sottrarsi al conflitto tra valore sacrale e comprensibilità profana – essa tenderà agli agglomerati, ossia al geroglifico. È quanto accade nel Barocco. Da un punto di vista esterno e stilistico – nella drasticità della frase come nella metafora sovraccarica – lo scritto tende all’immagine.54

54

(36)

Così come l’allegoria nel dramma barocco, l’uso del Denkbild rappresenta un tentativo di comporre gli atomi della scrittura alfabetica in un’immagine carica di tensione, che rompa la superficie piatta dalla quotidianità per far emergere elementi sacrali e onirici. Questi si fondono insieme lasciando intravedere quelle somiglianze non sensibili che si annidano nei ricordi d’infanzia, nelle suggestioni lasciate da città sconosciute o dalla folla che modifica la fisionomia dei luoghi natii.

Ma come nel Barocco non è possibile ripristinare un ordine, una totalità armonica, così nel tempo del Denkbild l’immagine è destinata a rimanere frammento: il segno grafico ha perso – se mai l’ha avuta, al di fuori di un tempo mitico – la sua capacità di mimesis, così come la lingua pura si lascia intravedere in modo opaco e sfuggente. Ciò nondimeno resta la necessità di testimoniare l'origine di questa frammentarietà, di dare a essa un senso: la via che passa attraverso il linguaggio rappresenta, lo stiamo vedendo, una delle direzioni possibili.

7. Oralità e scrittura

L’interesse per il linguaggio dei segni, il legame tra la scrittura e la “lettura delle costellazioni”, la ricerca di forme d’approccio non convenzionali alla filosofia del linguaggio rappresentano, lo abbiamo visto, delle costanti nel pensiero di Benjamin.

(37)

Per riallacciarci in chiusura di capitolo con i primi saggi trattati vorremmo sottolineare ulteriormente la continuità presente negli scritti sul linguaggio. Di come le riflessioni elaborate nel 1933 fossero già presenti in nuce nei primi lavori del filosofo ci danno testimonianza alcuni appunti redatti da Benjamin nel 1916, in occasione della stesura del saggio Sulla lingua. Qui il tramite tra lettura delle stelle e scrittura è rappresentato dalla matematica, a conferma dell’iniziale intenzione, dichiarata anche nella lettera di risposta a Scholem, di trattare direttamente il rapporto tra matematica e linguaggio.

In uno schema contenuto in questi appunti si legge:

I segni della matematica si ritrovano per così dire anche in cielo: ma lì sono segni letti, e segni scritti nella matematica // Il cielo è nelle stelle il luogo dei segni letti e della musica (udita).

Dottrina dei segni

Costellazione segno letto Matematica segno scritto Scrittura55

Nonostante l’analisi del rapporto tra matematica e linguaggio sia poi stato definitivamente abbandonato da Benjamin, questi appunti testimoniano della continuità presente nella riflessione che abbiamo definito “esoterica”. Il legame tra oralità e scrittura rappresenta una costante nella ricerca

55

W. Benjamin, Appendice a Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Opere I (Scritti 1906-1922), op. cit., p. 299

(38)

benjaminiana intrecciandosi con un altro tema sotterraneo a tutta la sua produzione, quello del rapporto tra mito e Rivelazione.

“Leggere ciò che non è stato scritto” significa interpretare il mondo attraverso la magia presente in esso, proprio come nel saggio Sulla lingua il nome era l’elemento che permetteva di conoscere il Creato e accedere alla Rivelazione.

Di questo legame dà testimonianza anche Scholem, che nel suo Storia di un'amicizia – libro che è insieme la più approfondita biografia su Walter Benjamin e una bellissima testimonianza del profondo affetto che lega i due studiosi – riferisce che, secondo Benjamin,

il sorgere delle costellazioni come configurazioni sulla superficie del cielo era l’inizio della lettura, della scrittura, e coincideva con la formazione dell’era mitica. Le costellazioni devono essere state per il mondo mitico ciò che più tardi fu la rivelazione della Sacra Scrittura.56

In questa costante tensione che attraversa l’opera di Benjamin, sembra che la scrittura sia maggiormente connessa col mondo mitico - simbolico, mentre spetta alla lingua orale il privilegio di rapportarsi direttamente alla Rivelazione.57

Come vedremo, il rapporto tra oralità e scrittura si troverà nelle riflessioni sul rapporto intercorrente tra diritto e giustizia, nonché in quelle dedicate

56

G. Scholem. Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano, 1992, p.102

57

Questa preminenza attribuita alla lingua orale, d’altra parte, collimerebbe con le credenze cabalistiche professate Gershom Scholem, secondo cui la Torah orale avrebbe un’importanza preminente rispetto alla Torah scritta, tema su cui torneremo più avanti.

(39)

alla relazione tra narrazione e tradizione che Benjamin riprende dalle correnti ebraiche liberali vicine alla mistica. Questi elementi mutuati dal retroterra religioso s’intrecciano con l’interesse per il marxismo, sviluppato negli anni ’20, e con l’attività di critico letterario, che rappresenterà per Benjamin la principale forma di sussistenza, una volta sfumata la speranza di intraprendere la carriera accademica. In questi saggi di critica letteraria il rapporto tra oralità e scrittura si declinerà nel confronto tra la forma del romanzo e quella del racconto, da cui emerge chiaramente la predilezione del filosofo per quegli autori che nei loro testi hanno saputo avvicinarsi maggiormente allo stile proprio della narrazione orale.

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