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1 Capitolo 1. Rigore e modello di disciplina

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Academic year: 2021

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Capitolo 1.

Rigore e modello di disciplina

SOMMARIO: 1. La tradizione. – 2. Il «maggior rigore». – 3. Segue. Dall’elusione dell’obbligo di astensione dal voto allo spostamento della valutazione del conflitto di interessi. – 4. Il carattere non necessariamente patologico del conflitto di interessi. – 5. Il modello di disciplina ed il valore della trasparenza – 5. 1. L’estensione qualitativa dell’obbligo di comunicazione. – 5. 2. L’obbligo di motivazione. – 5. 3. Il perdurante rilievo finalistico del conflitto di interessi. – 5. 4. Profili sanzionatori a fronte della violazione degli obblighi di comunicazione e motivazione. – 5. 4. 1. L’impugnabilità della delibera. – 5. 4. 2. La responsabilità ex art. 2391, 4° comma. – 5. 4. 3. La denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. – 5. 4. 4. La revoca per giusta causa e i poteri-doveri (informativi) del collegio sindacale.

1. Innovazione e continuità con la tradizione si confrontano nella

disposizione di cui all’art. 2391 c.c., così come riformulato dal d.lgs. 6/2003 (e poi integrato dal decreto correttivo n° 310 del 2004).

La constatazione, che, nella sua genericità, è certo condivisibile (ed ampiamente condivisa), lascia spazio ad un quadro ben più sfumato ed articolato sol che ci si spinga ad individuare – con sguardo disincantato ed equilibrato, capace per un verso di non arrestarsi alle nuove formule legislative e di sollevarne per contro il velo delle mere apparenze, ma parimenti alieno per altro verso dal “conservatorismo” cui troppo spesso sarebbe incline il giurista1 – dove si situi l’effettivo discrimen tra i due termini del binomio, dove, cioè, davvero inizi l’innovazione e possa per converso dirsi consumata la rottura con la tradizione.

1 Mutuo l’osservazione da G. MINERVINI, Gli interessi degli amministratori di s.p.a.,

in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, a cura di P. Abbadessa e G. B. Portale, 2, Torino, 2007, 582. Ma v. anche, ex multis, e con specifico riferimento alla dottrina di «oggi», P. FERRO LUZZI, Dal conflitto di interessi agli interessi degli amministratori – profili di sistema, in Riv. dir. comm., 2006, I, 661, nonché 673, nt. 5 (ove peraltro proprio a Minervini si imputa un atteggiamento di «aprioristico rifiuto del nuovo», nel momento in cui questi (op. cit., 584) qualifica come anodina la locuzione «interessi degli amministratori», che figura oggi nella rubrica dell’art. 2391 c.c.).

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Rimettendo al prosieguo il tentativo di dare risposta ad un simile interrogativo, occorre in via preliminare ricordare che la tradizione in parola, su cui si innesta la novella, risale fondamentalmente all’art 150 del codice di commercio del 1882. Questo, abbandonato l’approccio adottato dal previgente cod. comm. del 1865 nell’affacciarsi al tema dei «conflitti e [de]gli antagonismi di doveri e d’interessi»2 degli amministratori di società – un approccio fondato su una serie di incompatibilità a ricoprire il ruolo di amministratori (art. 138, 2° comma), e ritenuto insoddisfacente, in ultima analisi, per eccesso3 e per difetto4 – , ha dettato una disciplina in cui ben può ravvisarsi la diretta progenitrice dell’art. 2391 del c.c. del ’42. Del che è invero agevole avere contezza: come rilevato in dottrina5, la disposizione da ultimo citata, nella sua versione originaria, ora (1° comma) riproduce quasi alla lettera l’art. 150 (1° comma); ora (2° comma) ne accoglie una delle interpretazioni prospettate in dottrina (postulante la limitazione della responsabilità per perdite al solo amministratore portatore dell’interesse contrario), peraltro con una significativa modifica (l’espunzione dell’approvazione dei sindaci, richiesta dall’art. 150, 2° comma); ora (3° comma) dà veste normativa ad un «orientamento ormai dominante al tempo della codificazione sia in dottrina sia in giurisprudenza»6, sviluppatosi in relazione a quello che ha rappresentato uno dei maggiori nodi problematici lasciati aperti dalla disposizione del 1882 (il tema della validità degli atti posti in essere in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 150)7 .

2 Così la Relazione ministeriale al re sul codice di commercio. V. L. ENRIQUES, Il

conflitto d’interessi degli amministratori di società per azioni, Milano, 2000, 91 s., testo e nt. 7.

3 V. l’opinione della Commissione del 1869, di cui si dà conto ivi, 92.

4 V. i rilievi del Ministro Finali, riportati ivi, 93. Sull’«inevitabile» inadeguatezza

«per difetto e per eccesso» delle regole di incompatibilità cui si affidi, in generale, una disciplina sul conflitto di interessi, v. ivi, 30.

5 Ivi, 118 s. 6 Ivi, 119.

7 A tal proposito, vorrei ricordare come la questione nascesse fondamentalmente dal

silenzio del legislatore del 1882, che nulla disponeva al riguardo. Sicché impreciso mi pare il rilievo – che si legge in G. GUIZZI, Commento sub art. 2391, in Società di

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2. Il passo successivo si deve alla riforma del 2003 (– 2004).

Stando alla Relazione al d.lgs. 6/2003 sarebbe un passo connotato, anzitutto, da un «maggior rigore»8. Inutile dire che la relativa valutazione si prospetta come ancor più ardua di un giudizio sull’effettiva portata innovativa della nuova disciplina.

Circoscrivendo l’indagine ai soli profili civilistici del conflitto di interessi degli amministratori9 10, deve anzitutto prendersi atto di

capitali. Commentario a cura di G. Niccolini-A. Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, 659 – di come il legislatore del 2003 nel sancire l’impugnabilità della delibera consiliare e nell’ancorarla al requisito del danno potenziale si sia collocato «lungo la stessa linea che era stata tracciata dal c. comm del 1882 e poi ripresa nel codice civile» (corsivo mio). Cfr. L.ENRIQUES (nt. 2), 193 («è pacifico che il terzo comma dell’art. 2391 [v.t.] è stato giustapposto ai primi due (riconducibili direttamente al codice di commercio), soltanto in una fase avanzata dei lavori per la redazione del codice») e 331, nt. 1 (ove si ricorda come altri – G.FRÈ (e G. SBISÀ), Della società per azioni6, I, nel Commentario del codice civile diretto da A. Scialoja e C. Branca,

Bologna-Roma, 1997, sub art. 2391, 831 – abbia definito l’art. 23913 alla stregua di

«un’ardita innovazione» del legislatore del 1942).

8 Relazione al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n°6, § 6. III. 3.

9 Quanto agli aspetti penalistici, basti qui ricordare come il passaggio – sancito dal

d.lgs. 61/2002 – dal previgente art. 2631 c.c. (“Conflitto di interessi”) all’attuale art. 2634 c.c. (“Infedeltà patrimoniale”) sia generalmente valutato in termini diametralmente opposti al «maggior rigore» evocato dalla Relazione al (successivo) d.lgs. 6/2003: in tal senso indurrebbe, fondamentalmente, la circostanza che l’integrazione del fatto tipico di reato – o comunque l’applicazione della relativa sanzione – , lungi dall’essere ricondotta (come invece disponeva la previgente disciplina) alla sola partecipazione dell’amministratore portatore dell’interesse in conflitto alla deliberazione, è per contro oggi ancorata ad una serie di ulteriori condizioni, che ne circoscrivono drasticamente la portata. Di disposizione «totalmente inservibile», «sostanzialmente inesistente», che di fatto si risolve in una – forse voluta – «depenalizzazione fredda» del conflitto di interessi parla G. MINERVINI (nt. 1), 586 s. In termini sostanzialmente identici si esprime anche A. BLANDINI, Conflitto di interessi ed interessi degli amministratori di società per azioni: prime riflessioni, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, III, 1, 1962 ss., per cui la novella del 2002 «si traduce nello scrivere la parola fine alla disciplina penalistica del conflitto di interessi dell’amministratore che, forse, sarebbe stato più coraggioso, e certamente più onesto, tout court eliminare». Cfr., pur in termini meno drastici, anche M. VENTORUZZO, Commento sub art. 2391, in Amministratori (artt 2380-2396), a cura di F.GHEZZI, in Commentario alla riforma delle società diretto da P. G. Marchetti – L. A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari, Milano, 2005, 425 s., testo e nt. 4.

D’altro canto, dal circoscritto angolo visuale qui adottato (quello, cioè, di una valutazione comparativa in termini di “rigore” della disciplina (penale) del confitto di interessi degli amministratori), un elemento capace, se non di incrinare il giudizio relativamente lineare cui si è pervenuti alla luce delle anzidette considerazioni, quanto meno di sollecitarne una più ponderata rimeditazione sembra potersi ravvisare nella fattispecie criminosa di cui all’art. 2629-bis c.c., introdotta dalla legge 262/2005

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come, ad un’analisi anche prima facie della disposizione (nella sua nuova formulazione), sembrino emergere indicazioni che nell’ottica ora considerata ben possono dirsi contrastanti, suscettibili comunque di guidare l’interprete in direzioni diametralmente opposte. Il riferimento è, per un verso, alla mancata riproduzione dell’obbligo di astensione dell’amministratore in conflitto dalla partecipazione alla deliberazione; circostanza che, ove ammessa – ove intesa, cioè (secondo quella che può certo dirsi l’opinione prevalente, ma non pacifica11), come implicante effettivamente l’inesistenza di un simile obbligo – , induce ad una valutazione della nuova disciplina alla stregua di un minor rigore. Per altro verso, all’intervenuto ampliamento della fattispecie (di

(c.d. legge per la tutela del risparmio), e peraltro destinata ad operare nelle sole società quotate o con titoli diffusi tra il pubblico in misura rilevante.

10 In favore di una connotazione della nuova disciplina in termini di maggior rigore si

esprimono i primissimi commentatori: lo rileva D.MAFFEIS, Il “particolare rigore” della disciplina del conflitto di interessi nelle deliberazioni del consiglio di amministrazione di società di capitali, in Riv. dir. comm., 2004, I, 1054 (il quale richiama al riguardo (ivi, nt. 4) G. F. CAMPOBASSO, La riforma delle società di capitali e cooperative, Torino, 2003, 117; G.CASELLI, I sistemi di amministrazione nella riforma delle s.p.a., in Contr. impr., 2003, 155 ss.). Per parte sua, l’A. [che pure in uno scritto precedente aveva sostanzialmente disconosciuto la pretesa maggiore severità della nuova disciplina – v. ID., Il nuovo conflitto di interessi degli amministratori di società per azioni e di società a responsabilità limitata: (alcune) prime osservazioni, in Riv. dir. priv., 2003, 3, 531 – ; sulla discrasia tra i due scritti (pur con specifico riguardo al profilo del danno potenziale) v. G.MINERVINI (nt. 1), 593 ss.] non solo ammette il «particolare rigore» del nuovo art. 2391 c.c., ma arriva ad attribuire ad esso «un significato pregnante, che tocc[a] la questione di fondo del modello di disciplina del conflitto di interessi» [ivi, 1055 (corsivo nel testo); sul punto si tornerà infra, in questo capitolo]. Cfr. altresì A.BLANDINI (nt. 9), 1953, ad avviso del quale la disciplina del conflitto di interessi, «per certi versi», è stata aggravata dalla riforma, «come dimostrato, stile cartina di tornasole, dalle reazioni fortemente negative al nuovo disposto dell’art. 2391 c.c. provenienti dal mondo imprenditoriale». L’A. ricorda, poi (ivi, 1951 s., nt. 1), che nel senso di una maggior rigidità si pronunciano altresì L.ENRIQUES, Gruppi di società e gruppi di interesse, in P.BENAZZO-S.PATRIARCA-G. PRESTI (a cura di), Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, Milano, 2003, 248; D.U.SANTOSUOSSO, La riforma del diritto societario, Milano, 2003, 142 s. Contra, però (lo rileva sempre A. BLANDINI (nt. 9), 1951 s., nt. 1), V. MELI, La riforma dell’art. 2391 c.c.: un passaggio incompleto dal conflitto alla trasparenza degli interessi, in AA.VV., La riforma del diritto societario, Roma, 2003, 293.

11 A dispetto di quanto ritenuto da D.MAFFEIS, Il “particolare rigore”, cit., 1064.

Nel senso della perdurante vigenza di un simile obbligo, infatti, si esprimono D. CANDELLERO, Commento sub artt. 2390 e 2391, in Commentario Cottino, 2004, 756 s.; G.GUIZZI (nt. 7), 657 s. (e v. altresì ID., Gestione dell’impresa e interferenze di interessi. Trasparenza, ponderazione e imparzialità nell’amministrazione delle s.p.a., Milano, 2014, 36 ss.); L.SAMBUCCI, Gli interessi degli amministratori, in Riv. dir. comm., 2007, I, 769 s.

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cui al primo comma) al ricorrere della quale divengono operanti gli obblighi (in primo luogo informativi) posti a carico dell’amministratore dalla disposizione in esame; ampliamento veicolato, anzitutto e fondamentalmente, dal riferimento ad «ogni interesse», anziché al (solo) «interesse in conflitto» (che figurava nella disciplina previgente), e che, ove effettivamente ammesso12, può giustificare la qualificazione di «particolare», nonché «maggior», rigore, di cui alla Relazione.

Quanto al primo aspetto, non penso possa seriamente dubitarsi del fatto che all’inesistenza dell’obbligo di astensione, in sé considerata, si attagli un affievolimento del grado di severità della disciplina. Parrebbe del resto attestarlo, pur indirettamente, la circostanza che quanti propendono per una valutazione in termini di «maggior rigore» sono, per lo più, costretti, onde non incrinare la stessa, o ad ammettere la perdurante operatività dell’obbligo di «astensione dal voto» (così in effetti si esprime la stessa Relazione governativa); o per contro a negarla non già solo nella disciplina attuale, ma altresì in quella previgente, riconoscendo come neppure allora un simile obbligo potesse dirsi dotato di una «reale portata precettiva»13. Con il risultato in entrambi i casi di disconoscere sotto questo profilo il carattere innovativo della novella, riducendolo a mera «apparenza»14.

12 Ammissione, questa sì, pressoché pacifica: v. ex multis G.MINERVINI (nt. 1), 587

s.; M.VENTORUZZO (nt. 9), 425 e 440 s.; G.GUIZZI (nt.7), 654; A.BLANDINI (nt. 9), 1951 ss., in particolare 1973; L.SAMBUCCI (nt. 11), 757. Contra, ma isolatamente, D. MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 517 ss., in particolare 531. Il punto costituirà oggetto di approfondita analisi infra, cap. 2.

13 Così D.MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 531, il quale trae argomento dal fatto che

(anche) nella previgente disciplina l’annullabilità della delibera, lungi dall’essere ricondotta alla mera violazione dell’obbligo di astensione, era per converso subordinata alla contrarietà della stessa all’interesse sociale (danno potenziale). Può peraltro replicarsi all’A. osservandosi come la violazione dell’obbligo di astensione – al pari d’altro canto dell’inosservanza dell’obbligo di comunicazione – non fosse di per sé priva di conseguenze giuridiche, diverse dall’invalidità della delibera (e dalla responsabilità per perdite) ed operanti a prescindere dall’elemento del danno (pur potenziale). Sul punto v. infra, in questo capitolo.

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3. D’altro canto, anche chi ammette – a mio avviso più

condivisibilmente15 – il venir meno di un obbligo (di astensione) prima effettivamente esistente, e purtuttavia riconosce come più rigorosa, «molto più rigorosa»16, la nuova disciplina, ciò fa prendendo atto della sostanziale elusione di cui era stato oggetto detto obbligo; o comunque della sostanziale inefficacia concretamente rivelata dallo stesso rispetto allo scopo che pur avrebbe dovuto perseguire – in prima approssimazione, lo scopo di prevenire abusi nella gestione societaria da parte degli amministratori sub specie di deviazioni dal corretto espletamento della funzione loro demandata, in ragione di interessi personali che gli stessi anteponessero a quello affidato alle loro cure. Approfondendo questi rilievi, deve segnalarsi il diffuso convincimento che il punto critico della previgente disciplina risiedesse nell’aver affidato la valutazione del presupposto di operatività degli obblighi di astensione e comunicazione contemplati da quella disciplina (presupposto concretantesi nella sussistenza di un interesse in conflitto con quello della società in una determinata operazione) al diretto “interessato”. Con la conseguenza, ritenuta pressoché ineludibile, di «frequenti autoassoluzioni», «derivanti dalla fisiologica indulgenza con cui il soggetto latore di un determinato interesse è portato a guardare le proprie vicende»17.

15 Mi limito sul punto a rimandare ai rilievi sviluppati da G.MINERVINI (nt. 1), 595 s. 16 V. le osservazioni di C. Angelici formulate nel corso dei lavori preparatori, che

possono leggersi in La riforma del diritto societario. Lavori preparatori. Testi e materiali, a cura di M.VIETTI,F.AULETTA,G.LO CASCIO,U.TOMBARI e A.ZOPPINI, Milano, 2006, 1875.

17 Così G.M.ZAMPERETTI, Il «nuovo» conflitto di interessi degli amministratori di

s.p.a.: profili sparsi di fattispecie e di disciplina, in Le Società, 2005, 1086, il quale richiama altresì (ivi, nt. 12) F.BONELLI, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 147, secondo cui «prima della riforma del 2003 […] gli amministratori avevano buon gioco a sottacere ogni notizia sul loro interesse all’operazione, poiché essi avrebbero sempre potuto sostenere che mancava un “conflitto”, perché le “concrete” condizioni dell’operazione erano di mercato e nell’interesse sociale» (corsivo nel testo). A mio avviso, peraltro, più che al passo da ultimo citato – il quale fa leva sull’ulteriore concetto delle “concrete condizioni dell’operazione”, alla cui stregua soltanto sarebbe possibile valutare l’esistenza del conflitto di interessi (così sempre F.BONELLI, op. cit., 147, e più diffusamente 153, testo e nt. 206) – , la «fisiologica indulgenza» richiamata da Zamperetti si presta, in

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Ma l’inefficacia del meccanismo apprestato dalla vecchia disciplina e facente perno intorno all’obbligo di astensione, al di là della sostanziale elusione di cui si è dato conto18, si rivelava a ben vedere anche quando detto obbligo, pur a seguito dell’autovalutazione del singolo, fosse stato ritenuto operante: in nessun modo sembrando idoneo a prevenire quell’indebita influenza della decisione gestoria che si sarebbe invece voluto evitare. Ad una tal conclusione doveva pervenirsi sulla base della constatazione per cui un’influenza, pur indiretta, ma non per questo meno decisiva, l’amministratore portatore dell’interesse in conflitto sarebbe stato comunque (a prescindere cioè dalla partecipazione al voto) in grado di esplicare: anzitutto facendo valere la propria voce in sede di discussione (cui egli ben poteva prender parte, anche attiva: alla stessa non estendendosi, secondo l’opinione dominante, l’obbligo di astensione19); ma altresì avanzando la proposta dell’operazione, o ancora sollecitando in tal direzione uno o più degli altri amministratori con condotte poste in essere ben al di fuori del consesso20.

sé considerata, ad essere più propriamente accostata all’osservazione (pur formulata ad altri fini) per cui «[t]roppo facilmente il singolo crede […] di agire a vantaggio altrui mentre il suo subcosciente lo spinge a servire il proprio interesse» (così G.FRÈ

(e G. SBISÀ), Della società per azioni, cit., sub art. 2373, 698, su cui v. L.ENRIQUES

(nt. 2), 146, nt. 13); esponendosi però al rilievo per cui, proprio a fronte di una simile «facilità», non può attribuirsi valore decisivo allo stato soggettivo del singolo (questa la conclusione degli autori da ultimo citati). Da questo punto di vista, meglio allora sarebbe ancorare la valutazione a parametri esterni quale quello delle concrete condizioni dell’operazione (su cui però v. infra).

18 Dà conto della «sostanziale inefficacia» di siffatto meccanismo, centrato sulla

autovalutazione del singolo, anche L.SAMBUCCI (nt. 11), 757.

19 Sul punto cfr. L.ENRIQUES (nt. 2), 232 ss., il quale si premura di confutare gli

argomenti addotti a sostegno della contraria opinione da F.CHIAPPETTA, Conflitto d’interesse degli amministratori di società per azioni, in Impr. com. ind., 1989, 496 ss.; ricordando altresì (ivi, nt. 66) come quest’ultima opinione, allora assolutamente minoritaria, avesse invece nel vigore del codice di commercio «autorevolissimi sostenitori (Frè, Asquini, Pugliatti)».

20 V. C. Angelici (nt. 16), 1875: «Sappiamo tutti come funziona. L’obbligo di

astensione è una presa in giro: ci si astiene anche quando non ci sarebbe nessun motivo per astenersi (perché la delibera sarà comunque adottata), sapendo che tanto voteranno gli altri, tra l’altro già sentiti per telefono!». Con riguardo al tema dell’influenza indiretta, esercitabile a prescindere dalla partecipazione al voto, i riferimenti potrebbero essere plurimi: v. ex multis D.U.SANTOSUOSSO (nt. 10) 144 s.; C.MARCHETTI (nt. 31); M.VENTORUZZO (nt. 9), 447 s., nt. 61 (pur con specifico

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Alla luce delle precedenti considerazioni non risulta particolarmente difficile cogliere il rimedio generalmente prospettato all’anzidetta elusione: rimedio fatto consistere nella sottrazione all’amministratore interessato della valutazione del rapporto tra il proprio interesse e quello della società e nello spostamento della stessa all’organo collegiale. Con la conseguenza di ancorare il presupposto di operatività degli obblighi comportamentali e procedurali posti dalla disciplina in parola alla sussistenza di un «interesse», non altrimenti qualificato, e segnatamente non (più) qualificato per la sua conflittualità con quello della società; e di rendere pressoché inevitabile un ampliamento della fattispecie.

È in questi termini che è diffusamente letta la novella21.

Considerato poi che ad un simile ampliamento quantitativo questa affianca – così si è fatto notare22 – un ampliamento qualitativo della comunicazione (per il tramite della specificazione che oggetto della stessa debbono essere «la natura, i termini, l’origine e la portata» dell’interesse), e considerato altresì che tra gli obblighi procedurali contemplati dalla nuova disciplina figura espressamente l’obbligo di motivazione della deliberazione in capo al consiglio di amministrazione, ne risulta fortemente rafforzata l’istanza di trasparenza in seno alla governance societaria23.

Di qui allora l’idea che lo scopo della prevenzione degli abusi perseguito dalla disciplina in esame possa efficacemente essere affidato all’ampliamento e al connesso rafforzamento appena richiamati, i quali sarebbero pertanto in grado di esplicare una portata

riferimento al tema dell’amministratore assente). Cfr. altresì D. MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 530.

21 V. ad esempio M.VENTORUZZO (nt. 9), 442; G.MINERVINI (nt. 1), 587 s. (citato

adesivamente da G.GUIZZI (nt. 11), 21, nt. 6); D.U.SANTOSUOSSO (nt. 10), 143; D. MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 517 ss., in specie 531; L.SAMBUCCI (nt. 11), 757; S. PACCHI, Gli interessi degli amministratori e i limiti ai loro poteri, in Giur. comm., 2004, I, 683; N. SALANITRO, Gli interessi degli amministratori nelle società di capitali, in Riv. soc., 2003, I, 47 ss.

22 V. in particolare G.MINERVINI (nt. 1), 587 s.

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per così dire assorbente rispetto all’obbligo di astensione precedentemente contemplato: si porrebbero cioè come «garanzie sufficienti»24, capaci di rendere superfluo25 quell’obbligo (poi di fatto «rimasto sulla carta»26), anche alla luce della perdurante responsabilità27 cui si espone (ove ricorrano determinate condizioni28) l’amministratore interessato che decida di votare.

Sicché – e si può qui riprendere il discorso che si era interrotto – a fronte di siffatta portata assorbente, l’aver sancito il venir meno dell’obbligo di astensione in nessun modo si presterebbe a scalfire il maggior rigore della nuova disciplina29.

4. D’altro canto, i precedenti rilievi sembrano suggerire che, forse, più

che di (maggior o minor) rigore, dovrebbe discorrersi di (maggior o minor) congruità allo scopo dei meccanismi predisposti dal legislatore. Il fatto è che il rigore non può certo dirsi il parametro cui affidare in via esclusiva un giudizio sulla “bontà” della disciplina sul conflitto di interessi.

Non escludo che quanti criticano la regolamentazione in materia vigente in Italia perché, pur a seguito della riforma, troppo poco rigorosa rispetto alle soluzioni accolte «altrove, ed, in particolare, nel mondo anglosassone»30 – quasi che nel rigore fosse da individuare la

24 Così P.FERRO LUZZI (nt. 1), 674. Cfr. ancora la posizione di C. Angelici, citata a

nota 16.

25 Per quanti non ritengano tuttora operante quest’obbligo. 26 Così D.MAFFEIS, Il “particolare rigore”, cit., 1061, nt. 24.

27 Sulla portata deterrente della responsabilità, la prospettiva della quale dovrebbe

indurre (inutile dire che il condizionale è d’obbligo) l’amministratore a valutare «con attenzione» se e come votare, v. P.FERRO LUZZI (nt. 1), 674; C. Angelici (nt. 16); D. MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 530.

28 Per qualche accenno v. infra, in questo capitolo.

29 Il che peraltro non nega affatto, ma anzi dimostra che, come l’obbligo di

astensione (quanto meno se concretamente operante e non fatto oggetto di elusione) connota in senso (più) rigoroso una disciplina sul conflitto di interessi, così l’inesistenza dello stesso, in sé considerata, conduce ad una valutazione di segno opposto.

30 Cosi A. BLANDINI (nt. 9), 1953. Per una posizione di segno contrario v. M.

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panacea dei mali scaturenti dal conflitto di interessi – , dimentichino il fondamentale insegnamento per cui, se è vero che nel dettare la relativa disciplina il legislatore deve avere primariamente di mira l’obiettivo di contenere il rischio di abusi, è altresì vero che una regolamentazione eccessivamente severa finisce per rivelarsi scarsamente efficiente31, disincentivando operazioni che, lungi dall’integrare ipotesi di abuso, sarebbero per contro pienamente vantaggiose per la società (o quanto meno anche per la società32). Il conditor juris è chiamato pertanto a calibrare detta disciplina, guardandosi per un verso dal prospettarla come «troppo lasca», col rischio di «“falsi negativi”, ossia di casi di abuso che rimang[ano] impuniti»; ma parimenti evitando per altro verso di atteggiarla in termini «troppo stringent[i]», col rischio, diametralmente opposto, di «“falsi positivi”, cioè di casi di mero conflitto potenziale d’interessi non seguito da alcun abuso, nei quali cioè l’amministratore [abbia] agito nel migliore interesse della società», e ciononostante fatti oggetto di repressione33.

A ben vedere, il fondamento ultimo della direttiva di politica legislativa volta a prospettare l’opportunità di evitare un eccesso di rigore nella disciplina sul conflitto di interessi riposa nella convinzione che quest’ultimo non necessariamente si traduca in una patologia: appunto in un abuso.

amministratori appare, almeno sotto alcuni profili, tra le più rigorose che è dato rinvenire nel panorama comparatistico».

31 Cfr. C.MARCHETTI, Il conflitto di interessi degli amministratori di società per

azioni: i modelli di definizione di un problema in un’analisi economica comparata, in Giur. comm., 2004, 6, 1229 ss, che dà conto di come l’idea sia ampiamente condivisa nella letteratura di matrice giuseconomica, citando altresì F. DENOZZA, Norme efficienti – L’analisi economica delle regole giuridiche, Milano, 2002, 92 s.: «l’amministratore avrà interesse a comportarsi come un cautissimo burocrate, ed i soci investitori sopporteranno, oltre i costi materiali delle procedure di controllo, anche i costi indiretti conseguenti alla tendenziale rinunzia da parte degli amministratori ad ogni opportunità di investimento che presenti margini, pur limitati di rischio».

32 Cfr. ad esempio G.GUIZZI (nt. 11), 7 s. 33 V. L.ENRIQUES (nt. 2), 15 e 22.

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Ora, la non necessaria sovrapposizione tra conflitto (potenziale) di interessi ed abuso (chiaramente prospettata nel passo da ultimo citato, che nella stessa individua il prius logico della possibilità di configurare il rischio di “falsi positivi”34) si pone – è facile intuirlo – come conseguenza necessitata dell’accoglimento della nozione di conflitto potenziale di interessi.

Riservandomi di ritornare sul punto più diffusamente nel prosieguo35, basti qui rilevare che il conflitto potenziale tale è perché semplicemente abbraccia in sé il rischio (la possibilità, dunque) che un conflitto, rectius un abuso – allo stato solo in potenza – effettivamente si dia: l’abuso è, pertanto, solo eventuale.

Come che sia, a prescindere cioè dalle implicazioni di ordine logico, è facile apprezzare che la convinzione circa il carattere non ineluttabilmente abusivo del conflitto di interessi risulta ben radicata; e questo invero ben poteva dirsi già prima della riforma36.

34 Molto schematicamente, due risultano essere i presupposti di un “falso positivo”

(come definito nel passo sopra citato): il fatto che al conflitto (potenziale) non segua l’abuso e la circostanza che il primo incorra nondimeno nella punizione normativamente prevista – o quanto meno “concepita” nelle intenzioni del legislatore – (solo) per il secondo.

35 V. infra, cap. 2.

36 Sul punto v. L. ENRIQUES (nt. 2), 20, per cui neppure avrebbe bisogno di

dimostrazione «l’affermazione secondo cui non tutte le operazioni sociali nelle quali un amministratore abbia un interesse in potenziale conflitto d’interessi sono necessariamente svantaggiose per la società». Cfr. altresì C.MARCHETTI (nt. 31): «la quasi unanimità degli studiosi che si occupano del conflitto di interessi nella governance societaria è […] ormai concorde nel sottolineare che l’esistenza di un conflitto di interessi in capo ad un soggetto che ha capacità decisionale non comporta di per se stessa una “espropriazione”, un “abuso” da parte di quel soggetto a danno della società o della minoranza»; «il conflitto di interessi, insomma, non può essere considerato un “male” in se stesso: piuttosto, la situazione conflittuale è una delle tante situazioni dalle quali è possibile che derivino lesioni agli interessi della minoranza» (corsivo nel testo). A prescindere dagli ulteriori rilievi poi sviluppati nel testo, si osservi che, se l’A. da ultimo citato scrive bensì all’indomani della riforma, gli «studiosi» cui si riferisce e di cui riporta l’«ormai concorde» convincimento – invero anzitutto appartenenti ad altre esperienze ordinamentali (v. nt. 10) – devono per lo più collocarsi in un orizzonte cronologico anteriore al 2003. Da ultimo, v. G. GUIZZI (nt. 11), 8, nt. 10: «Sarebbe, insomma, un errore considerare il fenomeno del self-dealing (per usare l’espressione, per vero generica, con cui viene designato nelle esperienze di common law), sempre e necessariamente come espressione di una patologia del sistema: com’è stato, infatti, rilevato da tempo in dottrina, specie nelle società di più ridotte dimensioni i manager o i principali azionisti sono se non gli unici soggetti con cui la società può concludere determinate operazioni, quanto meno

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Il che non fa che togliere credito all’opinione di chi ravvisa uno dei tratti qualificanti la novella proprio nell’abbandono di «una visione necessariamente patologica» del fenomeno in parola37.

Che una simile visione potesse dirsi pienamente superata anche prima degli interventi del 2003 ritengo possa ricavarsi, oltrechè dalle anzidette considerazioni, da un ulteriore rilievo, di ordine per così dire modellistico: mi riferisco alla circostanza che il legislatore del ’42 – in ciò pienamente in linea con la soluzione già accolta nel codice di commercio del 1882 – nel delineare la disciplina sul conflitto di interessi degli amministratori abbia rinunciato ad affidarsi a quello che è stato definito come il modello del «divieto assoluto»38. Un modello particolarmente «severo», che può tradursi in concreto nell’adozione di diverse «regole operazionali» e che è destinato a radicalmente vietare, appunto, un’operazione (sol perché) conflittuale, prescindendo «da qualunque analisi circa il merito della operazione», nonché «da qualunque analisi circa le modalità e le procedure attraverso le quali l’operazione è stata effettuata». Un modello, questo il punto che qui preme sottolineare, che postula un approccio al conflitto di interessi come fenomeno «dannoso in se stesso», e dunque, lo si ripete, da vietare in radice.

Ma, come si è visto, è proprio siffatto postulato che non può accogliersi, non potendosi escludere che «operazioni in cui un amministratore abbia un interesse personale configgente con quello della società» si rivelino «vantaggiose ed efficienti» per quest’ultima.

quelli con cui può concluderle a condizioni più efficienti, perché questi ultimi sono meglio in grado di valutarne, rispetto a terzi, le potenzialità. Insomma, lungi dal rappresentare un rischio, il fenomeno può essere considerato in pari tempo anche come un’opportunità, per creare nuovo valore e nuova ricchezza, e correggere eventuali ostacoli alla realizzazione di operazioni efficienti che potrebbero essere create dalla presenza, sul mercato, di asimmetrie informative» (corsivo nel testo).

37 Così G.M. ZAMPERETTI (nt. 17), 1085 [il quale cita altresì (ivi, 1086, nt. 4) B.

LIBONATI, Riflessioni in tema di corporate governance, Relazione al convegno Tutela del risparmio, nuove regole di governance e disciplina delle autorità di vigilanza, Foggia, 29-30 ottobre 2004, inedita]. Per una tal ragione, l’A. imputa al legislatore del 2003 un atteggiamento di «realismo rispetto alla vita delle imprese e ai fenomeni economici». Cfr. altresì L.SAMBUCCI (nt. 11), 764.

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Ora, se è nel sistematico blocco di queste che si traduce il “costo”39 del modello in parola, sì da farne – «almeno in linea generale» – un modello «poco efficiente», è in ultima analisi nella «consapevole[zza]» di un simile costo e di una simile scarsa efficienza che riposa la ragione per cui il conditor juris, sempre «in linea generale», disdegna detto modello. Così è stato per la giurisprudenza americana, presso cui pure, «a cavallo tra l’Otto e Novecento», il modello è stato in auge, per poi essere abbandonato, appunto, nella consapevolezza «dei costi che esso implica»; ma così, come emerge dal dibattito che ha accompagnato il passaggio dal codice di commercio del 1865 (art. 138, 2°comma) a quello del 1882 (art. 150) – e che si è sopra brevemente rievocato – , è stato nella nostra esperienza40.

Si vuol dire, insomma, che la scelta modellistica del legislatore italiano (del 1882 prima, del 1942 poi) – nella misura in cui si è risolta nel generale41 rifiuto di un modello eccessivamente rigoroso – sia stata, anche alla luce della pregressa esperienza, una scelta consapevole, in ultima analisi motivata dalla presa d’atto che il conflitto di interessi non sempre è un male.

5. D’altro canto, se, per le ragioni suesposte, neppure potrebbe dirsi

auspicabile un modello che fosse, in misura diametralmente opposta, oltremodo blando, non è fuori luogo ricordare che, come fatto osservare in dottrina42, solo «ideale» è la soluzione in cui risultano parimenti sterilizzati sia il rischio di falsi negativi sia quello di falsi

39 In una prospettiva giuseconomica, quale quella dichiaratamente accolta da

Marchetti.

40 È bensì vero che il regime delineato nel 1865 era quello delle incompatibilità, ma è

altresì vero che, quand’anche non si voglia accogliere l’opinione di quanti riconducono detto regime al modello del divieto assoluto, difficilmente può negarsi che le problematiche dal primo sollevate siano (almeno in parte) le stesse poste dal secondo, e siano pertanto in grado di parimenti fondare l’atteggiamento di tendenziale rigetto che il legislatore riserva a quest’ultimo.

41 Non sono mancate, invero, ipotesi in cui il nostro legislatore ha fatto ricorso a

divieti selettivi: il riferimento è in particolare al divieto di prestiti e garanzie agli amministratori, contemplato dall’art. 2624 c.c. (nella versione antecedente al d.lgs. 61/2002).

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positivi: tra i due obiettivi ponendosi un evidente “trade-off”, «nel senso che tanto più si mira ad eliminare il [primo dei suddetti rischi], tanto maggiore diventa il [secondo] e viceversa».

E neppure è fuori luogo ricordare altresì che «[i]n ciascun paese, la soluzione ottimale (e pur sempre, dato il trade-off di cui si è detto, di second best) può individuarsi soltanto tenendo conto di una serie di fattori sociali, istituzionali e di mercato, che incidono vuoi sulla probabilità del verificarsi di falsi positivi o negativi vuoi sulla stessa probabilità che, in caso di conflitto d’interessi, gli amministratori agiscano infedelmente»43.

Insomma – ma è del resto agevole intuirlo –, la scelta del modello di regolamentazione del conflitto di interessi degli amministratori è, come spesse volte accade, context-dependent, fortemente dipendente, cioè, da variabili “di contesto”44.

Con queste premesse, possono spendersi alcune parole in merito al modello prescelto dal nostro legislatore; in prima battuta constatandosi che, se non si incontrano particolari difficoltà nel caratterizzare detto modello in negativo (per ciò che esso non è), non altrettanto può dirsi ove si tenti per contro di enucleare, in positivo, in cosa esso consista. Si osservi, per inciso, che un’indagine di tal fatta risulta tutt’altro che peregrina in questo contesto, come emerge sol che si ponga mente al fatto che v’è chi addita proprio il passaggio ad un nuovo modello di disciplina come una delle principali novità della riforma: e ciò fa, ora ravvisandone l’esito nel recupero di una dimensione autenticamente preventiva – e conseguentemente rigorosa – della regolamentazione in

43 Così sempre L. ENRIQUES (nt. 2), 23 ss., il quale tra i summenzionati fattori

individua, a titolo meramente esemplificativo, «il “fiuto” nel valutare le scelte imprenditoriali degli organi giudicanti» (al riguardo v. in particolare ivi, 23, nt. 9, ove è richiamato lo “smell test” della giurisprudenza americana), «gli standard etici prevalenti», nonché «l’efficienza […] dei mercati dei prodotti, dei capitali, del controllo societario e dei servizi manageriali». Ma cfr. altresì C.MARCHETTI (nt. 31).

44 Sulla context-dependency v. le indicazioni bibliografiche riportate da L.ENRIQUES

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parola45; ora individuando, per contro, come corollario di siffatto passaggio, l’impossibilità di formulare un giudizio della regolamentazione in termini di (maggior o minor) rigore, a fronte della postulata incomparabilità sotto il profilo in esame dei due diversi modelli (quelli cioè rispettivamente adottati, secondo la menzionata ricostruzione, ante e post riforma)46.

Questi rilievi abbisognano invero di più attenta considerazione.

Può muoversi dalla constatazione che – già lo si è accennato – davvero diffusa è in dottrina l’idea che il cuore della disciplina novellata risieda nella valorizzazione della trasparenza47.

Al di là delle formule impiegate (invero talora connotate, mi pare, da una qual certa enfasi48), ove si voglia dare concretezza ad una simile asserzione, ritengo debba farsi leva, anzitutto, su tre ordini di fattori – anch’essi già richiamati – : il riferimento è, schematicamente, all’ampliamento quantitativo della fattispecie, all’ampliamento

45 V. D.MAFFEIS, Il “particolare rigore”, cit., 1055 ss.

46 V. G.MINERVINI (nt. 1), 587, il quale si avvale al proposito di considerazioni

sviluppate da C.MARCHETTI (nt. 31).

47 V. a titolo meramente esemplificativo G.GUIZZI (nt. 7), 658, per il quale «il leit

motiv della disciplina dettata dal nuovo art. 2391 [sarebbe] rappresentato dal rafforzamento delle garanzie di trasparenza del procedimento di formazione della scelta gestoria»; G.MINERVINI (nt. 1), 587; N.SALANITRO (nt. 21). E cfr. altresì la stessa Relazione al d.lgs. 6/2003.

48 Più che all’immagine della trasparenza e dell’informazione «quale “filo rosso”

della nuova disciplina» (che si rinviene in G. M.ZAMPERETTI (nt. 17), 1085), mi riferisco in special modo alla «formula sintetica» in cui un Autore pretende di compendiare la «considerevole svolta» che a suo dire la riforma del 2003 avrebbe fatto registrare nella materia in esame: secondo P.MONTALENTI, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, 148 s. (già in Le grandi opzioni della riforma del diritto del processo societario, a cura di G. Cian, Padova, 2004), si sarebbe «passati da un sistema di divieti formali (o formalistici) ad un sistema di disclosure obbligatoria e di decisione informata» (corsivo nel testo). In senso in ultima analisi non dissimile, ma senza l’enfasi che contraddistingue detta formula, si è espressa la Consob, che (v. D.MAFFEIS, Il nuovo conflitto, cit., 524 s., nt. 20) “nella Memoria in data 28 novembre 2002 redatta per le Commissioni riunite Giustizia e Finanze della camera dei deputati (in Riv. Soc., 2002, p.1553) […] osserva che «la nuova regolamentazione del conflitto d’interessi degli amministratori (…) ha un ambito di applicazione più ampio rispetto alla norma vigente ed è maggiormente caratterizzata da obblighi di trasparenza piuttosto che da obblighi formali di astensione»”(corsivo mio). Cfr. altresì M.VENTORUZZO (nt. 9), 447 s., nt. 61.

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qualitativo della comunicazione, all’introduzione dell’obbligo di motivazione.

Tralasciando il primo di detti fattori, oggetto di più approfondita analisi nel prosieguo49, occorre ora soffermarsi – ma, si badi, nella misura in cui ciò si riveli funzionale all’indagine qui intrapresa, e dunque nella misura in cui permetta di disvelare elementi utili ad una caratterizzazione modellistica della nostra disciplina sul conflitto di interessi – sugli altri due.

5. 1. Quanto alla pretesa estensione qualitativa dell’obbligo di

comunicazione, la prescrizione (contenuta nell’attuale versione dell’art. 2391 c.c.) in ordine alla «precisazione», da parte dell’amministratore portatore dell’interesse interferente50, de «la natura, i termini, l’origine e la portata» dell’interesse stesso offre indubbiamente un punto fermo: si presta a chiarire come l’obbligo in parola non possa dirsi soddisfatto a fronte della «generica informativa in merito alla titolarità di un interesse suscettibile di essere coinvolto dal compimento di una determinata operazione societaria»51. Chiarisce cioè che non basta comunicare sic et simpliciter di essere interessati. Ma, a ben vedere, in tal senso doveva dirsi orientata, pur nel vigore della precedente disciplina, la miglior dottrina52, sulla scorta di considerazioni attinenti alla ratio dell’obbligo in esame53.

49 Mi limito per il momento a sollevare il dubbio che l’ampliamento in parola, alla

luce di un ponderato confronto tra l’attuale disciplina e quella previgente, si riduca, in ultima analisi, a mera apparenza. Ma v. infra, cap. 2.

50 Utilizzo qui quest’espressione per così dire neutra – largamente impiegata in

dottrina (alla luce – è chiaro – dell’espunzione, finanche dalla rubrica dell’art. 2391 c.c., della nozione di conflitto di interessi) – , riservando al prosieguo di qualificare siffatta interferenza.

51 Così G.GUIZZI (nt. 7), 656. V. altresì L.ENRIQUES A.POMELLI, Commento sub

art. 2391, in Il nuovo diritto delle società. Commento sistematico al D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 aggiornato al d. lgs. 28 dicembre 2004, n. 310, a cura di A. Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 764; L.SAMBUCCI (nt. 11), 765.

52 V. L.ENRIQUES (nt. 2), 224, il quale riconosce comunque che «la lettera dell’art.

2391 [v.t.] legittimerebbe anche l’interpretazione meno rigorosa, poiché il pronome “ne” potrebbe riferirsi sia all’interesse in conflitto sia all’intera proposizione relativa “che in una determinata operazione ecc.”».

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Il punto maggiormente problematico sollevato dalla citata prescrizione si profila, per contro, allorquando si voglia individuare fin dove si estenda la portata contenutistica della doverosa comunicazione54. Al riguardo, un diffuso orientamento dottrinale pretende che la stessa si spinga ad abbracciare tutti i profili dell’interesse “interferente”, sì che ne risulti garantita l’«assoluta completezza informativa»55.

Non è mancato chi ha osservato in proposito che «l’articolata formula adoperata dal legislatore italiano sembrerebbe grosso modo sintetizzabile nella più efficace espressione anglosassone “full disclosure”»56.

53 Lo stesso Enriques (ivi, 224, nt. 40, e 56, nt. 119) cita al riguardo le illuminanti

parole di Lord Crains, formulate in “un caso nel quale [si doveva] stabilire se l’amministratore avesse adempiuto l’obbligo, previsto dallo statuto, di «dichiarare» il proprio interesse”: “a man declares his interest, not when he states that he has an interest but when he states what his interest is” – ed è superfluo osservare come la valenza di simili parole non si lasci confinare nell’ambito dell’ordinamento (quello inglese) entro cui sono state pronunciate. Sulla ratio dell’obbligo di comunicazione v. infra nel testo.

54 Questione strettamente intrecciata a detto problema (o, se si vuole, uno degli

aspetti in cui lo stesso si estrinseca) è se le quattro “dimensioni” dell’interesse – così sono state definite in dottrina (v. M.VENTORUZZO (nt. 9), 448) – rappresentino il contenuto minimo della comunicazione; se cioè debbano indefettibilmente corredare quest’ultima, perché possa dirsi completa, e perché possa pertanto considerarsi adempiuto l’obbligo contemplato dalla disposizione in parola. Al riguardo gli interpreti appaiono divisi (lo rileva L. SAMBUCCI (nt. 11), 765): se in favore dell’indefettibilità «sembra» pronunciarsi G.GUIZZI (nt. 7), 656, in senso opposto si pongono Ventoruzzo, che parla (448) di «contenuto “ideale” dell’obbligo informativo», nonché L.ENRIQUES – A.POMELLI (nt. 51), 764, nt. 19, secondo cui «natura, termini, origine e portata costituiscono una “endiapoli”, che sta a indicare che la descrizione dell’interesse dev’essere esaustiva».

55 Così S. PESCATORE, La società per azioni, in La riforma del diritto societario,

Commento al d.lgs. n. 5-6 del 17 gennaio 2003, a cura di Buonocore, Torino, 2003, 71, citato adesivamente da S.PACCHI (nt. 21), 683. V. altresì D.U.SANTOSUOSSO (nt. 10), 142, che richiama la necessità per l’amministratore interessato di far «puntuale e completa luce sulle […] caratteristiche [del proprio interesse], in ogni circostanza»; D.MAFFEIS, Il “particolare rigore”, cit., 1063, nt. 30, secondo cui addirittura vi sarebbe (del che ho ragione di dubitare, alla luce di quanto osservato nel testo) «un giusto consenso fra i commentatori che nulla di ciò che l’amministratore sa del suo interesse può essere sottaciuto al consiglio»; D. CANDELLERO (nt. 11), 752, per il quale «l’amministratore interessato […] sarà tenuto a fornire un’informativa che sia il più completa possibile […]; in altri termini dovrà fornire tutte quelle notizie che ritenga (o che una persona di media diligenza riterrebbe) possano ragionevolmente influire sulla determinazione del consiglio in merito all’operazione nella quale egli nutra un interesse per conto proprio o di terzi»; P.FERRO LUZZI (nt. 1), 673, secondo cui «siamo in presenza di una istanza di completa, analitica trasparenza del “dato”, dell’interesse potenzialmente incidente sul comportamento dell’amministratore».

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Ne consegue che, secondo il descritto orientamento, finanche gli aspetti quantitativi dell’interesse dovrebbero immancabilmente essere disvelati dall’amministratore: allo stesso chiedendosi pertanto di render noti, inter alia, i vantaggi o gli svantaggi che gli potrebbero derivare dal compimento o dal mancato compimento dell’operazione, nonché l’entità degli stessi. Per tale via si giunge allora a ricomprendere nell’oggetto dell’informazione anche l’eventuale prezzo di riserva dell’amministratore (nella sua veste di controparte dell’operazione), o del terzo (del cui interesse il primo si faccia portatore): ossia, semplificando, il prezzo al di sotto del quale l’amministratore (o il terzo) non è disposto a vendere un bene, ovvero al di sopra del quale non è disposto ad acquistarlo.

Ma, così facendo, si finisce per ascrivere all’obbligo di comunicazione la pregnante funzione di riequilibrare la situazione di asimmetria informativa in cui versi il consiglio rispetto all’amministratore «coinvolto sui due fronti dell’operazione»57; funzione assolta, appunto, per il tramite dell’imposizione «all’amministratore interessato di porre la società (id est, coloro che per conto di essa contrattano) in condizioni informative analoghe a quelle in cui egli si trova nei confronti di essa, comunicandole […] ogni informazione a lui nota che possa essere utile alla [stessa] per decidere se e in quali termini concludere l’operazione»58.

Una simile impostazione, che rinviene i propri ascendenti nella dottrina d’oltre oceano59, era stata invero, anche nel nostro ordinamento, da taluno già coltivata prima della riforma60; ma trova,

57 Ibidem.

58 Così L.ENRIQUES (nt. 2), 39 s., pur nel contesto di un’analisi dei diversi strumenti

di cui il legislatore astrattamente dispone per affrontare il problema del conflitto di interessi degli amministratori.

59 Lo ricorda G.GUIZZI (nt. 11), 25, nt. 12, che cita M.A.EISENBERG, Self-Interested

Transactions in Corporate Law, in Journal of Corporation Law, 1988, 1000, «secondo il quale gli amministratori dovrebbero comunicare “all material facts concerning the transaction”». Cfr. altresì L.ENRIQUES (nt. 2), 39, nt. 53.

60 V. L.SOLIMENA, Il conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni

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oggi, a fronte della novella, un’ancor più nutrita schiera di seguaci, i quali ravvisano proprio nell’introduzione della richiamata prescrizione l’intenzione del legislatore di fugare i dubbi, cui aveva dato adito la precedente formulazione della disposizione, in ordine alla funzione assolta dalla comunicazione61.

È questa un’impostazione certo suggestiva, e purtuttavia, credo, da rigettare.

Decisivo mi pare al riguardo il rilievo per cui il fondamento dell’obbligo in parola (nonché, del resto, più in generale dell’intera disciplina qui in esame) sarebbe da ricercare senz’altro nella (sola) esigenza di «evitare che la società subisca un danno»62; e non già in quella di evitare altresì che «l’amministratore tragga vantaggio da un’operazione del tutto conveniente anche per la società»63; ma neppure in quella di assicurare a quest’ultima la possibilità di «realizz[are] un superprofitto (come sarebbe quello che essa potrebbe percepire se […] fosse posta in condizione di strappare condizioni

all’obbligo di informazione (lo riporta L.ENRIQUES (nt. 2), 212, nt. 1) la funzione «di consentire il superamento della “posizione di vantaggio informativo” nella quale si trova l’amministratore interessato rispetto agli altri amministratori».

61 In tal senso fondamentalmente D.CANDELLERO (nt. 11), 752; G.M.ZAMPERETTI

(nt. 17), 1086.

62 Così L. ENRIQUES (nt. 2), 225. Il rilievo, dall’A. formulato nel vigore della

precedente disciplina, deve tuttavia ritenersi di perdurante validità, non essendovi, a mio avviso, indici che permettano di imputare alla novella un sì vistoso mutamento della funzione della comunicazione (nonché, come detto, dell’intera disciplina). Né detti indici potrebbero ragionevolmente ravvisarsi nella prescrizione che vuole precisati la natura, i termini, l’origine e la portata dell’interesse: non fosse altro perché, giusta la rilevata «estraneità alla nostra tradizione giuridica di doveri di informazione con […] funzione riequilibratice» (così ivi, 212), ben difficilmente potrebbe ascriversi ad una prescrizione di tal fatta l’aver sancito – in modo allora tanto ermetico, e tutt’altro che inequivoco – la rottura di una simile tradizione. Nega parimenti (confutando la contraria opinione sostenuta da G.ROMANO, La funzione della disclosure nella disciplina degli interessi degli amministratori di s.p.a., in Dir. banca e mercato fin., 2012, 247 ss.) che attraverso la prescrizione in parola «il legislatore [abbia] inteso trasformare la funzione della comunicazione rendendola vero e proprio strumento di riequilibrio della situazione di asimmetria informativa nell’ambito della contrattazione tra amministratore e società», G.GUIZZI (nt. 11), 25, nt. 12, il quale osserva altresì che, opinando in tal senso, si finirebbe per «spostare il piano di operatività della norma […] e caricarla di una funzione ulteriore, e in realtà impropria, ossia di strumento per la realizzazione di obiettivi di “giustizia contrattuale”» (corsivo mio).

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particolarmente convenienti, grazie a un’artificiosa conoscenza del valore dell’operazione per la controparte)»64.

Detto rilievo conduce, da un lato, ad assegnare all’obbligo di comunicazione la più limitata (o «minimale») funzione «di “autocensura” dell’amministratore interessato e di messa in guardia degli amministratori disinteressati»65, dall’altro – a fronte del rilevato collegamento tra contenuto e funzione dell’obbligo in parola – , ad espungere dall’ambito dello stesso l’indicazione del prezzo di riserva, nonché (quantomeno tendenzialmente) dei profili quantitativi dell’interesse66.

Ma allora, alla luce di siffatte considerazioni, sembrerebbe doversi alquanto ridimensionare la postulata estensione qualitativa dell’obbligo

64 Ivi, 225.

65 Ivi, 39, ove altresì si cita (nt. 52) la «vivida prosa» di C.RESTEAU, Traité des

Sociétés Anonymes2, Bruxelles-Gand, 1933, II, 119: «de cette manière, l’attention du

conseil sera en éveil, et il lui sera facile de déjouer les manoevres de membres complaisants qui, sous le manteau, seraient disposés à favoriser, dans une pensée de camaraderie incosciente ou même dans un but inavouable, l’intérêt du collègue qui, peut-être par tactique, se serait tenu éloigné de la déliberation». Cfr., nel vigente regime, L.ENRIQUES –A.POMELLI (nt. 51), 764 s.

66 V. L.ENRIQUES (nt. 2), 224 s.; L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51), 764 s. Cfr.

altresì M. VENTORUZZO (nt. 9), 450, il quale, esclusa la necessità per l’amministratore di disvelare il proprio eventuale prezzo di riserva, ritiene tuttavia che lo stesso debba «fornire indicazioni – ancorché generali e sintetiche – sull’incidenza dell’interesse sulla propria situazione economica, atteso che tale informazione può essere essenziale al fine di valutare se, ed in che misura, la sussistenza dell’interesse possa inficiarne l’indipendenza di giudizio». Il rilievo, quantomeno nei cauti termini in cui è formulato, pare condivisibile, non sembrando fondate, per contro, le obiezioni al riguardo mosse da L.SAMBUCCI (nt. 11), 766. Ma condivisibile deve dirsi viepiù l’ulteriore considerazione sviluppata da Ventoruzzo (ivi, nt. 67), che fondamentalmente può accostarsi a quanto già osservato (anteriormente alla riforma) da L.ENRIQUES (nt. 2), 225, e che in sostanza evidenzia come ulteriori informazioni possano risultare dovute dall’amministratore «non già ex art. 23911, bensì in virtù dell’obbligazione generica di diligenza»; così il secondo

degli Autori citati, il quale ricorda due diverse circostanze in cui dovrebbe ritenersi operante detto obbligo di (diligenza sub specie di) disclosure: la circostanza in cui le richiamate informazioni «siano state [dall’amministratore] acquisite nell’esecuzione dell’incarico» [inutile dire che oggi una simile ipotesi deve ritenersi (confermata ed) assorbita dalla «disciplina delle opportunità d’affari prevista dall’ultimo comma della norma in commento», cui fa appunto riferimento Ventoruzzo, nel passo citato]; e quella in cui le stesse «rientr[ino] tra quelle, l’apporto delle quali da parte dell’amministratore interessato [possa] ragionevolmente ritenersi essere stato preso in considerazione come elemento qualificante delle sue competenze quando fu nominato: [quella in cui] cioè, con linguaggio economico, il diritto di proprietà sulle informazioni di cui si tratta spetti alla società invece che all’amministratore» (ne manca un espresso richiamo in Ventoruzzo).

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informativo. Si tratta peraltro non già di negare – secondo un atteggiamento che potrebbe davvero apparire affetto da quel “conservatorismo” che si è sopra richiamato – qualsivoglia contributo effettivamente apportato dalla novella rispetto alla previgente disciplina. Ma di ammettere che, forse, il vero intento del legislatore67 sia da individuare nel tentativo di superare le tentazioni – in passato invero forti e certo alimentate, allora, dalla (tutt’altro che inequivoca) formulazione letterale della disposizione – di una lettura poco “rigorosa” dell’obbligo di comunicazione: di una lettura (quella, cioè, per cui la disclosure potrebbe esaurirsi nella generica informativa in ordine alla mera titolarità di un interesse) che sarebbe destinata a svilire, se non a porre nel nulla, il meccanismo apprestato dal conditor juris.

Un tentativo quale quello appena descritto ha alle spalle, direi, la presa d’atto di siffatta poco rigorosa lettura68; passa, poi, attraverso un «processo di progressiva chiarificazione» della disciplina69; ed infine approda ad un esito forse, peraltro, criticabile “per eccesso”. Un esito, cioè, che sembrerebbe legittimare una lettura della disposizione ben più radicale o “rigorosa” (segnatamente, un’interpretazione della funzione della comunicazione tutt’altro che minimale, bensì suscettibile di abbracciare obiettivi di giustizia contrattuale), la quale tuttavia non può accogliersi: a ben vedere, anche per la ragione che l’obiettivo perseguito dalla novella è in ultima analisi (solo) quello di arginare un’impostazione criticabile “per difetto”. E non già di fondarne una, appunto, “eccessiva”.

67 O comunque – a prescinder cioè dall’intentio di questi – l’autentica portata della

regolamentazione dallo stesso introdotta nel 2003.

68 In ciò potendosi allora ravvisare quell’atteggiamento «realistico» del legislatore

dalla dottrina segnalato con riguardo ad altri profili (ma con le perplessità sopra rilevate: v. nt. 37).

69 Anch’esso segnalato dalla dottrina, parimenti con riguardo ad altri aspetti della

regolamentazione: v.D.MAFFEIS, Il “particolare rigore”, cit., 1068 (segnatamente, con riguardo alla nozione di interesse rilevante). Cfr. altresì P.FERRO LUZZI (nt. 1), 673, che nel descrivere il passaggio dal “Conflitto di interessi” agli “Interessi degli amministratori” parla di «uno sviluppo, un perfezionamento della disciplina del Codice del 1942».

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D’altro canto – posso qui anticipare – , non escludo che una simile chiave di lettura possa parimenti applicarsi anche ad altri (invero più spinosi, ma altresì più centrali) profili della disciplina70.

5. 2. Passando ora all’esame del terzo dei richiamati fattori in cui si

estrinsecherebbe il rafforzamento dell’istanza di trasparenza – l’introduzione (art. 2391, 2° comma c.c.) dell’obbligo di adeguata motivazione delle deliberazioni del consiglio di amministrazione – , mi limiterò ad alcune brevi considerazioni.

Difficile sembrerebbe qui negare l’apporto innovativo della riforma71. Anche a voler ammettere che, quantomeno «nelle società azionarie a struttura più articolata e complessa», già nel vigore della precedente disciplina fosse invalsa una prassi in tal senso orientata72, non potrebbe tuttavia disconoscersi che ben altra cosa è l’espresso riconoscimento normativo di un simile obbligo, quale appunto si rinviene nell’attuale formulazione della disposizione. Ed il rilievo è ovviamente destinato a rafforzarsi, se si considera che quest’ultima non manca di corredare detto obbligo di specifiche sanzioni per l’ipotesi di sua inosservanza73. D’altro canto, neppure sembrerebbe potersi accogliere un approccio che pretendesse di ridurre la portata di siffatta novità all’incremento della «domanda dei servizi di consulenza giuridica e aziendale»74 (e dunque dei costi di funzionamento dell’organo amministrativo), negando per contro alla stessa l’idoneità ad incidere in positivo sulla conduzione della gestione societaria: come ampiamente rilevato in dottrina, si tratta di un approccio semplicistico, che ingiustificatamente

70 V. infra, cap. 2.

71 Di assoluta novità rispetto al regime previgente parla D.CANDELLERO (nt. 11),

749.

72 Così G.GUIZZI (nt. 11), 29.

73 Sui profili sanzionatori v. più diffusamente infra.

74 Cfr. L.ENRIQUES A.POMELLI (nt. 51), 770, nt. 32, che rimandano a L.ENRIQUES,

Vaghezza e furore. Ancora sul conflitto di interessi nei gruppi di società in vista dell’attuazione della legge delega per la riforma del diritto societario, in ASSOCIAZIONE DISIANO PREITE, Verso un nuovo diritto societario, a cura di P. Benazzo – F. Ghezzi – S. Patriarca, Bologna, 2002, 247 ss.

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svaluta il ruolo della motivazione rispetto all’esercizio del potere gestorio75.

E, tuttavia, quel che qui preme sottolineare è che sarebbe pur sempre riduttivo circoscrivere detto ruolo alla valorizzazione dell’istanza di trasparenza.

Invero, la prescrizione dell’obbligo di motivazione si rivela anzitutto funzionale a stimolare, in seno al consiglio, un momento di attenta riflessione in ordine al compimento della scelta gestoria rispetto alla quale si dia una situazione di “interferenza” di interessi. Funzionale, dunque, a quell’«approfondimento» – che taluno ritiene peraltro dovesse esigersi anche prima della riforma (pur in assenza di indicazioni espresse)76, e – che si pone appunto come ineludibile premessa per il corretto assolvimento dell’obbligo in parola – ora, sì, espressamente contemplato. Funzionale, insomma, all’istanza di ponderazione delle decisioni d’impresa77: una ponderazione che qui trascende quella ordinariamente connaturata a queste ultime, come emerge dal fatto che il controllo sulla prima non si arresta al parametro della mera razionalità della scelta, cui in linea di principio è confinata la valutazione delle seconde.

Ed è proprio avendo riguardo alle proiezioni della motivazione ex ante che la dottrina ha tentato di enucleare obblighi connessi e strumentali alla stessa, che possano ritenersi contemplati (pur implicitamente) dalla prescrizione in parola78: può qui segnalarsi quello di adeguata istruttoria, postulante lo svolgimento di un’accurata attività

75 Così ad esempio G.GUIZZI (nt. 11), 30, testo e nt. 19, ove ulteriori riferimenti

bibliografici.

76 Così P.FERRO LUZZI (nt. 1), 673.

77 Sulla ponderazione v. L.SAMBUCCI (nt. 11), 755 e 769; V.MELI, La disciplina

degli interessi degli amministratori di s.p.a. tra nuovo sistema e vecchi problemi, in AGE, 2003, 160; ed in special modo G.GUIZZI (nt. 11), 27 ss.

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