REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI SIENA (Sezione Lavoro)
“In nome del popolo italiano”
Sentenza
70/2015 rgl
Svolgimento del processo.
A mezzo ricorso depositato il 31/1/2015, Ulderico Campanile (difeso dagli avv. Tullio Zanchi e Stefania Carlesi) esercitava contro l’INPS azione di (conclusioni, ricorso, p. 7, letterali, come precisate in note difensive finali):
accertare il proprio diritto a godere dei permessi ex art. 40 d.lgs 151/2001 in unione alla disciplina sulla flessibilità dell’orario e ciò anche nei primi tre mesi di vita del bambino;
accertato che il ricorrente non ha goduto dei suddetti permessi per giorni 60, condannare Inps, in persona del legale rappresentante pro tempore, a risarcirgli in via equitativa il danno non patrimoniale subito, che si indica in euro 6.000,00 o nella diversa somma, minore o maggiore, ritenuta di giustizia, eventualmente commisurata al numero di permessi non fruiti.
Respingere la domanda riconvenzionale di Inps tesa al recupero della somma equivalente ai riposi giornalieri goduti, anche unitamente al regime della flessibilità;
3.1) in subordine, nella denegata ipotesi in cui il Giudice adito ritenga che il sig. Campanile non avesse diritto alla fruizione dei riposi giornalieri anche in unione alla flessibilità, dichiarare che il medesimo è tenuto unicamente a recuperare le ore corrispondenti, prestando la relativa attività
lavorativa spalmata in periodo di uguale durata a quello nel quale ne ha goduto;
3.2) in ipotesi ulteriore dichiarare che la somma di 1.283,87 euro o quella diversa ed inferiore ritenuta come dovuta non potrà, comunque, essere addebitata in un’unica soluzione ma potrà essere recuperata solo mediante trattenute di cifra comunque non superiore a 100 euro mensili;
4) In ogni caso condannare Inps alla refusione delle spese vive (484 euro) del presente giudizio, anche della fase cautelare;
in ogni caso con vittoria di compensi e spese, anche generali al 15%, di causa.
L’INPS si costituiva in giudizio, difeso dall’avv. Massimo Autieri, contestando la fondatezza della domanda chiedendone (conclusioni, memoria difensiva, p. 18, sintesi) il rigetto.
Letteralmente: “nel merito: rigettare tutte le domande proposte da Campanile Ulderico e, di conseguenza, dichiarare che il medesimo non ha diritto alla fruizione dei riposi, ex art. 40 D.lgs. 151/2001, nei primi tre mesi di vita del bambino e nel primo anno di vita del bambino, in unione alla flessibilità dell’orario di lavoro;
- respingere la domanda di risarcimento avanzata in via equitativa per un importo di € 6.000,00, perché infondata in fatto e in diritto ;
- in accoglimento della domanda riconvenzionale qui dispiegata:
condannare Campanile Ulderico a corrispondere la somma complessiva di € 1.283,87, per i riposi giornalieri goduti e non recuperati dall’INPS;
- in ogni caso con condanna del ricorrente a corrispondere le spese di lite della fase cautelare e del presente giudizio di merito.
Interveniva in giudizio la Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, personalmente difesa, con atto depositato il 27/7/2016, chiedendo (conclusioni, ricorso, p. 9, sintesi):
accertamento discriminazione diretta di genere a danno del ricorrente Ulderico Campanile;
adesione alle domande giudiziali da quest’ultimo proposte.
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All’udienza 10/8/2016, nella causa n. 70/2015 rgl sono comparsi Ulderico Campanile, difeso dall’avv. Stefania Carlesi; per l’INPS l’avv. Massimo Autieri.
La Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, interveniente.
L’avv. Carlesi deposita copia ricorso e decreto notificati.
Il giudice sente le parti personalmente, che allo stato si richiamano ai propri atti, argomentazioni, richieste e conclusioni, anche istruttorie, contestando rispettivamente le parti la fondatezza delle difese avversarie.
Il giudice prende oggi atto della proposizione di domanda riconvenzionale ad opera dell’INPS e ristabilisce pertanto ex art. 418 cpc la regolarità del contraddittorio, invitando peraltro parte ricorrente e parte interveniente alla rinuncia ad ulteriore notificazione, acquisendone consenso.
Il giudice aggiorna la comparizione personale delle parti al 9/11/2016, ore 10:00.
All’udienza 9/11/2016, nella causa n. 70/2015 rgl sono comparsi:
Ulderico Campanile, difeso dall’avv. Stefania Carlesi;
per l’INPS l’avv. Massimo Autieri;
la Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, interveniente.
Si dà atto del deposito il 28/10/2016, in PCT, delle repliche di parte ricorrente e interveniente sulla domanda riconvenzionale INPS.
Il giudice fissa per la discussione l’udienza dell’8/3/2017, ore 13:00 con termine per note al 26/2.
All’udienza di rinvio del 22/5/2017, nella causa n. 70/2015 rgl sono comparsi:
Ulderico Campanile, difeso dall’avv. Stefania Carlesi;
per l’INPS l’avv. Rossella Donato in sostituzione dell’avv. Massimo Autieri;
la Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, interveniente.
Le parti si richiamano ai propri atti, argomentazioni, richieste e conclusioni, contestando rispettivamente le parti la fondatezza delle difese avversarie.
Discussa oralmente la causa, il giudice per l’approfondimento di taluni profili aggiorna nuovamente la discussione all’1/6/2017, ore 9:30.
All’udienza 1/6/2017, nella causa n. 70/2015 rgl sono comparsi:
Ulderico Campanile, difeso dall’avv. Stefania Carlesi;
per l’INPS l’avv. Massimo Autieri (ai fini della pratica forense il dott.
Marco Barone);
la Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, interveniente.
Discussa la causa il giudice pronuncia al termine sentenza ex art. 429, co. 1 cpc, pt. I (d.l. 2008/n. 112, conv. l. 2008/n. 133, art. 53)(ricorso depositato dopo il 25/6/08, ex artt. 56, 85 d.l. e l. cit.)(lettura della esposizione delle ragioni di fatto e diritto della decisione).
Motivi della decisione.
La vicenda ha un antecedente processuale sommario, cautelare, che preliminarmente ripercorriamo (pp. 3-5):
“il giudice, in funzione di giudice del lavoro, a mezzo decreto 30/11/2013;
visto il ricorso ex artt. 669-bis, 700 cpc, n. 907/2013 rgl, depositato il 29/11/2013 da Ulderico Campanile contro l’Inps-Siena;
rilevata la probabile fondatezza del diritto del padre, quale il ricorrente, alla fruizione dei riposi ex art. 40 d.lgs. 2001/n. 151 durante l’intero primo anno di vita del bambino, non essendo la madre lavoratrice dipendente, e senza incompatibilità con la disciplina dell’orario flessibile in atto;
rilevata la attualità e la imminente prosecuzione del pregiudizio, per sua natura nel caso concreto irreparabile;
visto ed applicato l’art. 669-sexies co. 2 cpc;
P.Q.M.
inibi(va) all’Inps il recupero dei riposi goduti dal padre ricorrente al titolo predetto nei primi tre mesi di vita del bambino (Giovanni, n. 5/9/2013), ordinandone la concessione, nei limiti di legge, e secondo la disciplina dell’orario flessibile in atto.
Fissa(va) per la conferma, modifica o revoca del presente decreto l’udienza del 20/1/2014, ore 9:45 con termine notifica al 31/12 e invito a costituzione entro il 17/1.
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All’udienza 24/1/2014, su rinvio d’ufficio, alle ore 17:40, nella causa n.
907/2013, ex art. 700, 669-sexies cpc, sono comparsi Ulderico Campanile difeso dall’avv. Stefania Carlesi anche in sostituzione dell’avv. Tullio Zanchi;
per l’INPS, costituitosi il 23/1, l’avv. Massimo Autieri.
Ai fini della pratica forense la dott.ssa Cecilia Ciarrocchi.
Il ricorrente depositava copia ricorso e decreto notificati, deducendo come da allegato, inserito in Telematica e qui trascritto (…) Il giudice si riservava.
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Ulderico Campanile è dipendente dell’INPS.
Egli è padre di due bambini C., nata il 31/3/2010, G. nato il 5/9/2013.
La coniuge esercita la professione di avvocato.
Il 23/9/2013 il pubblico dipendente chiedeva, per il primo anno di vita del bambino, quindi fino al 5/9/2014, di avvalersi dei riposi giornalieri, ex d.lgs. 2001/n. 151, e dalle ore 12.42 alle ore 14.42 (in uscita).
L’INPS, con comunicazione del 18/10/2013, preannunciava il recupero dei permessi sino ad allora fruiti, non sussistendo il diritto nei primi tre mesi di vita del bambino, mentre successivamente il lavoratore avrebbe potuto fruirne solo con rinuncia alla flessibilità oraria in atto.
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Rileva il giudice che l’esigenza cautelare è venuta meno per il decorso del tempo, avendo il lavoratore presumibilmente goduto, ottemperandosi al proprio decreto 30/11/2013, sia dei permessi anche nei primi tre mesi di vita del bambino, che in prosieguo mantenendosi la disciplina di flessibilità oraria.
Cessata è pertanto la materia (cautelare) del contendere, cui si propone di far conseguire sia la compensazione delle spese processuali, sia più ampiamente la cessazione della intera materia del contendere.
In difetto di accordo delle parti sulla regolamentazione delle spese processuali della fase, così come nella persistenza della pretesa recuperatoria dell’INPS dei permessi fruiti dal lavoratore nei primi tre mesi di vita del bambino, ovvero di ulteriori profili patrimoniali e/o non patrimoniali correlati alla successiva modalità di fruizione nell’interferenza con il regime di flessibilità
oraria, ciascuna parte potrà instaurare davanti al medesimo giudice giudizio di merito, di cognizione ordinaria per l’accertamento del diritto.
Dà atto della cessazione della materia (cautelare) del contendere nei sensi di cui in motivazione.
Siena, 30/11/2014
Il giudice Delio Cammarosano”.
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La lite non è ragionevolmente cessata tra le parti e nel presente giudizio di merito sono stati riproposti due temi di accertamento:
diritto del padre al godimento dei permessi di cui all’art. 40 d.lgs.
151/2001, in unione alla disciplina sulla flessibilità oraria praticata dal datore di lavoro, Inps, anche nei primi tre mesi dalla nascita;
accertato che l’Inps ha impedito la fruizione di detti permessi per 60 giorni, condanna dell’Istituto a risarcire il danno non patrimoniale subito,
indicato in via equitativa in € 6.000 o nella diversa somma ritenuta di giustizia, eventualmente parametrata al numero di permessi non fruiti.
Ulderico Campanile, abbiamo detto, è dipendente dell’INPS.
Egli è padre di due bambini C., nata il 31/3/2010, G. nato il 5/9/2013.
La coniuge esercita la professione di avvocata, una libera professionista.
Il 23/9/2013 Ulderico Campanile, pubblico dipendente, chiedeva, per il primo anno di vita del bambino, quindi fino al 5/9/2014, di avvalersi dei riposi giornalieri, ex d.lgs. 2001/n. 151, e dalle ore 12.42 alle ore 14.42 (in uscita).
La sede INPS di Siena gli comunicava con nota del 18/10/2013: ”Per quanto riguarda la possibilità di fruizione dei permessi da parte del padre, decorrerà dal giorno successivo alla fine del terzo mese del bambino; con riferimento alle modalità di interazione fra permessi per allattamento e flessibilità, invece, la circolare 139/2002 precisa che i periodi vanno fruiti a
“ore intere” ed il riposo può essere collocato all’inizio dell’orario di lavoro, al termine dello stesso o in una fase intermedia. In caso di fruizione in uscita l’eventuale flessibilità fruita in entrata deve essere recuperata secondo le consuete modalità”.
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Primo tema del contendere, se il padre abbia diritto alla fruizione dei permessi ex art. 40, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e della paternita', a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, nel caso di madre lavoratrice autonoma, anche nei primi tre mesi dalla nascita del bambino.
L’enunciato normativo (Riposi giornalieri del padre (legge 9 dicembre 1977, n. 903, art. 6-ter) prevede:
“1. I periodi di riposo di cui all'articolo 39 sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermita' della madre”.
Per necessaria completezza, l’art. 39 prevede i “Riposi giornalieri della madre (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 10)”:
“1. Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo e' uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro e' inferiore a sei ore.
2. I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un'ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall'azienda.
3. I periodi di riposo sono di mezz'ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell'asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell'unita' produttiva o nelle immediate vicinanze di essa”.
Con specifico riguardo al punto c), dell’art. 40, può ravvisarsi in esso, riteniamo, l’apprestamento di norma di tutela, dunque, del bambino e della madre lavoratrice autonoma, nella specie libera professionista, e altresì del padre, chiamato a più intenso esercizio del diritto paritario alla genitorialità (fare il babbo, e il compagno solidale, se la madre lo desideri).
Il riposo del padre, peraltro, sebbene egli sia titolare di un proprio diritto alla cura del bambino, e prima ancora il bambino titolare di un proprio diritto alla cura anche da parte del padre, appare nell’ordinamento positivo largamente derivato, comunque dipendente nel suo esercizio da quello della madre (in ciò si ravvisa una preminente istanza di protezione della donna, trascurandosi tuttavia, come accennato, l’istanza proveniente dal bambino e dal padre).
Ciò è evidente indirettamente nell’art. 40 nell’ipotesi di cui alla lett. a), come direttamente nella lettera d), e in modo eclatante nella lettera c), “in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga” (un solo genitore, tra genitori lavoratori dipendenti, fruisce del riposo).
(Solo nella fattispecie eccezionale dell’art. 41 - (Riposi per parti plurimi (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 10, comma 6): “1. In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono raddoppiati e le ore aggiuntive rispetto a quelle previste dall'articolo 39, comma 1, possono essere utilizzate anche dal padre” - viene a perdersi quella derivazione e, comunque, dipendenza)
Ci domandiamo, nel caso della madre lavoratrice subordinata, per i primi tre mesi, se i riposi debbano ritenersi esclusi per il padre, stante il divieto di adibizione lavorativa della donna (così, ad es. Circ. INPS 2002/n. 139: “il padre lavoratore non può usufruire dei riposi giornalieri nel caso in cui la madre si trovi in congedo di maternità o parentale”).
Del resto i riposi del padre, di cui all’art. 40, richiamano quelli di cui all’art. 39, e nei primi tre mesi la madre non gode dei riposi.
Ma certamente nei casi sub a) e d) non parrebbe dubbia la spettanza anche nei primi tre mesi.
Il caso sub b) è invece ambiguo, potendo sottintendere sia il presupposto della possibilità di godimento dei permessi da parte della madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga, quindi esclusivamente dopo il terzo mese dalla nascita, ma anche potendo sottintendere semplicemente,
“durante il primo anno di vita”, qualsiasi ipotesi in cui oggettivamente non vi sia da parte della madre il godimento del riposo e quindi anche fino al terzo mese dalla nascita.
E così nell’ipotesi sub c), che più da vicino ci riguarda, in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, anche per i primi tre mesi la norma consente di essere interpretata nel senso auspicato dal lavoratore ricorrente, nel caso almeno della avvocata libera professionista.
La lavoratrice autonoma, infatti, nonostante il divieto di adibire al lavoro le donne (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 4, comma 1 e 4), art. 16 TU cit., non gode di un periodo di astensione, ma esclusivamente di una misura di mero sostegno al reddito, tra altro per la libera professionista in base a criteri di quantificazione (art. 70) deteriori rispetto a quelli della lavoratrice dipendente (artt. 22, 23 TU cit.), e certamente penalizzanti per le giovani avvocate, candidate preferenziali alla maternità, talora appena affacciatesi alla professione e quindi penalizzate, discriminate dal riferimento parametrico al reddito professionale.
Sull’istituto v., ad es. Cass. SL 2013/n. 27068 (sentenza peraltro relativa principalmente a questione intrepretativa estranea alla fattispecie, ma contenente taluni dati e affermazioni incidentali rilevanti):
“(…) secondo l'originaria formulazione della L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1 (poi riprodotto inalterato nel D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70), l'indennità di maternità alle professioniste si commisura "all'80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda".
9. La quantificazione dell'indennità aveva originato non pochi problemi (per il rilievo del solo reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo percepito nel secondo anno precedente a quello della domanda, cfr. Cass. 12260/2005), ai quali il Legislatore ha poi ritenuto di dare soluzione con la L. 15 ottobre 2003, n. 289 - Modifiche all'art. 70 del testo unico di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, in materia di indennità di maternità per le libere professioniste - che ha modificato l'assetto precedente.
10. Il Legislatore ha così introdotto un tetto massimo al beneficio (cinque volte l'importo minimo: art. 70, comma 1-bis); delineato un criterio temporale più stabile per l'individuazione del reddito di riferimento, che è quello del secondo anno precedente il momento dell'evento e non più il momento di presentazione della domanda (che può avvenire entro un arco di tempo complessivo di nove mesi); riformulato l'art. 70, comma 2, con la previsione che l'indennità debba essere calcolata sul solo reddito professionale
"percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo".
11. È già stato affermato da questa Corte, e va ora ribadito, che la modifica voluta dal Legislatore del 2003 non presenta nessuno dei connotati normalmente attribuiti alle norme di interpretazione autentica e non può, pertanto, influire anche sulle situazioni manifestatesi prima della sua entrata in vigore (v., ex multis, Cass. 26568/2007).
12. Tanto premesso, nella vicenda in esame, in cui il parto è avvenuto in epoca immediatamente successiva all'entrata in vigore della novella legislativa e la domanda per il beneficio previdenziale è stata presentata in epoca precedente, si pone esclusivamente la questione del discrimine temporale per ritenere applicabile la più favorevole disciplina del D.Lgs. n. 151 del 2001 o la meno favorevole novella introdotta nel 2003.
13. Questa Corte, con la sentenza n. 26568 del 2007 già richiamata, nel delineare i limiti dell'intervento legislativo del 2003 motivato, nei lavori preparatori, evocando le finalità di porre riparo alle irrazionalità delle precedenti disposizioni legislative, specie sotto il profilo della mancanza di un
tetto per l'indennità de qua, ha già rimarcato non potersi dubitare della legittimità della scelta legislativa di limitare l'intervento di razionalizzazione alle "fattispecie perfezionatesi dopo l'entrata in vigore della nuova norma", considerate le cautele e i limiti che il legislatore incontra nel dettare disposizioni con efficacia retroattiva (v. Cass. n. 26568/2007 ed ivi il riferimento a Corte cost. 274/2006). 14. Rileva il Collegio che per ritenere la fattispecie perfezionata non può darsi, nella specie, rilievo alla data di presentazione della domanda amministrativa per un duplice rilievo: la richiesta del beneficio può essere proposta, a mente del D.Lgs. n. 151 del 2001, art.
71, comma 1, in un ampio arco temporale, compreso fra il compimento del sesto mese di gravidanza e il 180^ giorno dopo il parto, onde ne deriverebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra le professioniste che, pur partorendo in epoca coeva, risulterebbero beneficiane del trattamento più o meno favorevole solo perché la richiesta della prestazione previdenziale sia caduta nella vigenza dell'una o dell'altra disciplina; la domanda, nel rapporto previdenziale, costituisce soltanto condizione di erogabilità della prestazione (v., in tal senso, Cass. 12513/2012). 15. Dagli stessi profili di irragionevolezza non sarebbe esente neanche l'opzione interpretativa che correlasse la disciplina applicabile all'evento, id est al tempo del parto, giacché coeve domande per il beneficio, presentate al compimento del sesto mese di gravidanza, sarebbero assoggettate a distinte tutele economiche dipendenti solo dall'epoca del parto, nel quale caso non va sottaciuto che il parto, di regola a termine, potrebbe anche essere indotto o provocato in caso di gravidanza oltre il termine o essere programmato nelle forme del parto cesareo.
16. Ebbene ritiene il Collegio che la soluzione della questione debba muovere dalla ratio ispiratrice della disciplina in parola, volta a consentire alle professioniste a dedicarsi con serenità alla maternità evitando che la stessa si colleghi ad uno stato di bisogno o anche più semplicemente ad una diminuzione del tenore di vita (arg. da Corte cost., sentenza n. 3 del 1998) ed inserita nell'alveo della tutela della donna e del nascituro nel periodo di gestazione e della maternità e natalità nel puerperio, sicché lo stato di gravidanza della professionista, oggetto di protezione, assurge a discriminante agli effetti in esame.
17. Ciò tanto più ove si consideri che la gestazione potrebbe sfociare nel parto o nell'interruzione della gravidanza, eventi entrambi meritevoli della provvidenza economica.
18. Ne consegue che lo stato di gravidanza della professionista nel periodo antecedente l'entrata in vigore della L. n. 289 cit. (il 29 ottobre 2003) soggiace al più favorevole regime reddituale previsto dal D.Lgs. n. 151 del 2001.
19. Nella specie pacificamente lo stato di gestazione della professionista ricadeva in epoca antecedente l'entrata in vigore delle disposizioni novellate dalla L. n. 289 cit. che non trovano, pertanto, applicazione”.
Nonostante le considerazioni svolte dalla Cassazione al punto di motivazione n. 16, resta il dato dirimente della mancata astensione dal lavoro della lavoratrice autonoma a differenza della lavoratrice dipendente (art. 71
TU cit.: “l'indennita' di cui all'articolo 70 e' corrisposta, indipendentemente dall'effettiva astensione dall'attivita', dal competente ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti (…)”.
In merito ai criteri di determinazione dell’importo dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con sentenze n. 23090/2004 e n. 11935/2008, ricorda l’INPS, ha statuito che “dovendosi escludere, da un lato, che la misura dell’indennità sia irrisoria, venendo la stessa commisurata all’entità del reddito (nel periodo considerato) senza che siano comunque trascurate le esigenze primarie di tutela – non potendo il relativo importo essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura dell’ottanta per cento del salario minimo giornaliero stabilito per la qualifica di impiegato, dall’art. 1 del d.l. n. 402 del 1981, convertito, con modifiche, nella legge n. 537 del 1981, tabella A, e successivi decreti ministeriali di integrazione – mentre dall’altro, la normativa (come rilevato dalla Corte cost. n. 3 del 1998) consente alla professionista, a differenza della lavoratrice subordinata, di scegliere liberamente modalità di lavoro compatibili con il prevalente interesse del figlio, attesa l’attribuzione del diritto all’indennità anche in assenza di astensione dal lavoro (Rigetta Trib.
Roma, 15 novembre 2004).” (Cfr. Cass. Civ. Lav. Sent. n. 23090 del 09.09.2008).
Ripercorrendo (da qui fino a p. 12) il pensiero della Corte Costituzionale, sent. 1998/n. 3:
“1.- Il Pretore di Livorno dubita che l'art. 1 della legge 11 dicembre 1990, n. 379 (Indennità di maternità per le libere professioniste), nella parte in cui prevede - secondo l'interpretazione proposta dallo stesso rimettente - che l'indennità di maternità ivi stabilita venga corrisposta alla libera professionista (nella specie, notaio) indipendentemente dall'effettiva astensione dal lavoro, sia in contrasto con gli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione.
(…) 3.- La questione, peraltro, è infondata anche in rapporto agli altri parametri costituzionali invocati (ndgr: artt. 3 e 32).
Circa la dedotta disparità di trattamento è opportuno richiamare le pronunce (v. sentenze n. 31 del 1986, n. 181 del 1993 e n. 150 del 1994) in cui questa Corte ha ravvisato una netta differenza tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Pur trattandosi, infatti, di due tipi del medesimo fenomeno, evidentemente essi hanno peculiari caratteristiche, sicché gli strumenti di tutela che le leggi ordinarie apprestano per l'uno non possono ritenersi automaticamente applicabili anche all'altro. E questo, se vale come criterio generale per la legislazione del lavoro, si riscontra in particolare nella tutela della maternità, materia in cui il legislatore è intervenuto dettando normative specifiche.
La disciplina concernente le lavoratrici madri è in gran parte affidata a tre diverse fonti normative: la legge 30 dicembre 1971, n. 1204, che riguarda il lavoro subordinato e che prevede il divieto di adibire la lavoratrice alle mansioni per i due mesi antecedenti la data presunta del parto e per i tre mesi successivi; la legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le
lavoratrici autonome), e la legge 11 dicembre 1990, n. 379, che riguarda le libere professioniste. Queste ultime due leggi, anche se in linea di continuità con la prima (come risulta dai lavori parlamentari) nel prevedere il diritto della donna lavoratrice a percepire detta indennita, non hanno recepito integralmente tutte le provvidenze contenute nella legge n. 1204 del 1971;
tant'è che, già con la sentenza n. 181 del 1993, questa Corte è stata chiamata a valutare la legittimita costituzionale dell'art. 4 della legge n. 546 del 1987 nella parte in cui tale norma non prevede anche per le lavoratrici autonome il diritto all'indennità per astensione anticipata dal lavoro, di cui all'art. 5 della legge n. 1204 del 1971, in caso di provvedimento dell'Ispettorato del lavoro.
La diversità tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, riflessa nelle leggi citate e posta a fondamento delle menzionate sentenze n. 181 del 1993 e n.
150 del 1994, non può che essere ribadita nell'odierna decisione. Mentre infatti, per le lavoratrici dipendenti, soggette ad una etero-direzione della loro attivita, la legge ha dovuto imporre ai datori il divieto di impegnare le gestanti negli ultimi due mesi di gravidanza e nei tre mesi successivi al parto, il diverso sistema di autogestione dell'attività consente alle donne professioniste di scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio. In proposito questa Corte ha già affermato (nella citata sentenza n. 181 del 1993) che "non mancano certo delle differenze tra le lavoratrici subordinate e quelle autonome, non trovandosi queste ultime sotto la pressione (con effetti anche psicologici) di direttive, di programmi, di orari, di attività obbligatorie e fisse, ma potendo distribuire più elasticamente tempo e modalità di lavoro, e sopperendo così in qualche misura alle difficoltà derivanti dalla temporanea incapacità fisica a prestare la normale attività lavorativa".
D'altra parte, proprio in considerazione dei diversi ritmi delle libere professioni, sarebbe complesso esigere e verificare l'osservanza di una norma che prevedesse anche per tale categoria di lavoratrici l'obbligo di astensione dal lavoro nel periodo immediatamente precedente e successivo al parto.
Dalle considerazioni svolte si deve, dunque, concludere che nel caso di specie non sussiste violazione del principio di eguaglianza, stante la non comparabilità delle situazioni poste a raffronto.
4.- Infondate risultano anche le censure mosse alla norma impugnata sotto il profilo dell'art. 32 Cost., e ciò anche alla luce dei principi fondamentali enucleati in proposito dalla giurisprudenza costituzionale.
Fin dalla sentenza n. 1 del 1987 la Corte ha sottolineato il profondo collegamento esistente tra la protezione della maternita ed il ruolo fondamentale che la madre esercita nel periodo cruciale per la vita del bambino. In quell'occasione è stato affermato che la tutela della madre "non si fonda solo sulla condizione di donna che ha partorito, ma anche sulla funzione che essa esercita nei confronti del bambino: sì che la norma protegge i diritti di entrambi, e di entrambi tutela la personalità e la salute". Tali indicazioni, sostanzialmente riprese nelle sentenze n. 276 del 1988, n. 332 del 1988 e n.
61 del 1991, hanno trovato un'ulteriore esplicitazione nella sentenza n. 132 del 1991; qui la Corte, chiamata a scrutinare la legittimità dell'indennità di maternità fissata dalla legge n. 1204 del 1971, ha avuto occasione di chiarire che la medesima "serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di
vivere questa fase della sua esistenza senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare, quindi, che alla maternità si ricolleghi uno stato di bisogno economico". In altri termini, il sostegno economico che la legge fornisce alla lavoratrice gestante e poi madre ha un duplice obiettivo: tutelare la salute della donna e del nascituro, soprattutto attraverso lo strumento dell'astensione dal lavoro, ed evitare nel contempo che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno, o più semplicemente una diminuzione del tenore di vita. L'essenziale, quindi, è che la donna possa vivere questo delicato e fondamentale momento in piena serenita, di modo che non vengano a frapporsi "nè ostacoli, ne' remore, alla gravidanza e alla cura del bambino nel periodo di puerperio" (sentenza n. 423 del 1995). Se questi sono i corretti presupposti dai quali prendere le mosse, si osserva che, per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale. Ciò puo avvenire lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana. La probabile diminuzione del reddito a motivo della sospensione o riduzione dell'attività lavorativa non incide, comunque, sulla predetta necessaria serenità se compensata dal sostegno economico proveniente dalla solidarietà della categoria cui la donna appartiene.
Da tali considerazioni risulta pertanto che la norma impugnata, pur interpretata nel senso che al giudice rimettente appare viziato da incostituzionalita, non determinando oggettivi ostacoli allo svolgimento del ruolo materno, non urta con il precetto dell'art. 32 Cost. La tutela costituzionale del diritto alla salute della donna e del bambino, infatti, non è vulnerata dall'esistenza di una norma che, per una particolare categoria di lavoratrici, stabilisce una protezione complessivamente adeguata alle peculiari caratteristiche della categoria medesima.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimita costituzionale dell'art. 1 della legge 11 dicembre 1990, n. 379 (Indennità di maternità per le libere professioniste), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione, dal Pretore di Livorno con l'ordinanza di cui in epigrafe”.
Può dunque sostenersi, seguendo questa linea interpretativa, che la provvidenza economica in favore delle libere professioniste, avvocate, l’indennità di maternità, consenta loro, per la sua entità non irrisoria, di astenersi serenamente, liberamente dalla professione di modo che (al pari del caso della madre lavoratrice subordinata: pur con i dubbi sopra espressi), il padre resti escluso per i primi tre mesi dalla fruizione dei riposi.
Ora, sulla serenità e libertà della scelta in questione non è possibile consentire pienamente, rimanendosi, in assenza di astensione, realisticamente, in un ambito di forte compressione di quella libertà di determinazione, che i valori di tutela in campo riteniamo non possano consentire.
La lavoratrice casalinga non gode di una indennità di maternità, e ad essa non è equiparabile l’assegno di natalità (anche detto "Bonus bebè"), un assegno mensile destinato alle famiglie con un figlio nato, adottato o in affido preadottivo tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 e con un ISEE non superiore a 25.000 euro. L’assegno è annuale e viene corrisposto ogni mese fino al terzo anno di vita del bambino o al terzo anno dall’ingresso in famiglia del figlio adottato. Esso è stato istituito dall’articolo 1, commi 125-129, legge 23 dicembre 2014, n. 190, "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato" (legge di stabilità per l’anno 2015), mentre con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 febbraio 2015 sono state adottate le relative disposizioni attuative.
La posizione della casalinga non può dunque esser perfettamente comparata con quella della libera professionista, avvocata, quindi non lo possono le posizioni dei rispettivi padri.
Ciò nonostante, sul piano della tutela in concreto, piuttosto stridente appare il contrasto con il diffuso riconoscimento dell’istituto in favore del padre, nel caso di madre lavoratrice casalinga (ad es. App. Venezia, sent.
2015/n. 105, segnalata dalla Consigliera di Parità), a fronte del misconoscimento in pregiudizio della libero professionista avvocata, la quale è al tempo stesso lavoratrice casalinga e lavoratrice autonoma, un doppio lavoro insomma. A differenza della casalinga, poi, la libero professionista, nel caso dell’avvocata, affronta orari ben precisi, scadenze puntuali, senza alcuna propensione giudiziale e processuale a venirle incontro, mentre la madre casalinga, nella buona parte dei casi, sebbene non titolare a differenza dell’avvocata di una provvidenza comparabile, ha certamente orari quanto meno elastici, e adempimenti che può almeno in parte trascurare temporaneamente.
In ordine, per fare un solo esempio importante, al legittimo impedimento, Cass. S6, 2014/n. 47584, “osserva che - in relazione all'assenza del difensore per ragioni diverse da quelle correlate a concomitanti impegni professionali - essa è stata riconosciuta idonea a comportare il rinvio dell'udienza anche in relazione a situazioni gravi sotto il profilo umano e morale, in presenza delle quali egli, come ogni altro prestatore d'opera, ha il diritto di essere giustificato per l'assenza dal luogo ove la prestazione deve essere eseguita, ravvisandola nel caso della partecipazione del difensore al funerale della sorella, che si celebrava a circa 100 km di distanza dall'aula d'udienza (Sez. 6, n. 32949 del 07/06/2012, Brachino e altro, Rv. 253220);
quanto a condizioni personali del difensore, è stata ritenuta legittima la decisione con cui il giudice di appello affermi - in conformità alla pronuncia del Tribunale - l'insussistenza del legittimo impedimento del difensore, ex art. 420 ter c.p.p., comma 5, qualora esso sia dovuto allo stato di avanzata gravidanza dello stesso difensore, giunto, nella specie, alla trentaduesima settimana, secondo la prodotta certificazione medica, in quanto il solo stato di avanzata gravidanza non può di per sè costituire, in assenza di specifiche attestazioni sanitarie indicative del pericolo derivante dall'espletamento delle attività ordinarie o professionali, causa di legittimo impedimento (Sez. 5, n. 8129 del 14/02/2007, Diavila e altri, Rv. 236526); così pure è stato insegnato - in
fattispecie di ritenuta insussistenza dell'impedimento, ricondotto dall'interessato ad una gastrite, quale patologia per comune esperienza non invalidante - che l'assoluto impedimento a comparire del difensore conseguente a patologia deve risolversi in una situazione tale da impedire all'interessato di partecipare all'udienza se non a prezzo di un grave e non evitabile rischio per la propria salute, ben potendo fare il giudice ricorso, per la valutazione di tali requisiti, anche a nozioni di comune esperienza, indipendentemente da una verifica medico - fiscale (Sez. 5, n. 44845 del 24/09/2013, Hrvic, Rv. 257133)”.
Cass. S2, sent. 2015/n. 9562, incidentalmente, al riguardo parla di
“delicata e per molteplici aspetti controversa questione sul carattere di assolutezza che deve avere l'impedimento onde fungere da legittimo presupposto per l'istanza di rinvio di udienza”.
Argomenta l’INPS, che la l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), prevede all’art. 21 (Esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla previdenza forense),
“1. La permanenza dell'iscrizione all'albo e' subordinata all'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente, salve le eccezioni previste anche in riferimento ai primi anni di esercizio professionale.
Le modalita' di accertamento dell'esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalita' per la reiscrizione sono disciplinate con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 1 e con le modalita' nello stesso stabilite, con esclusione di ogni riferimento al reddito professionale”, e al co. 7, dispone: “la prova dell'effettivita', continuita', abitualita' e prevalenza non e', in ogni caso, richiesta: a) alle donne avvocato in maternita' e nei primi due anni di vita del bambino o, in caso di adozione, nei successivi due anni dal momento dell'adozione stessa.
L'esenzione si applica, altresi', agli avvocati vedovi o separati affidatari della prole in modo esclusivo; (…)”.
La previsione è certamente significativa, nella logica promotrice di pari opportunità tra uomini e donne e della riduzione delle disuguaglianze di fatto che influiscono sulle possibilità delle donne nell’ambito delle condizioni di lavoro, compensando gli svantaggi effettivi che le donne subiscono, rispetto agli uomini, per quanto riguarda la conservazione della propria posizione professionale autonoma, a seguito della nascita di un figlio.
Non è tuttavia previsione dirimente ai nostri fini interpretativi.
Riteniamo, pertanto, che la lettera della legge, coesa ad interpretazione promozionale di sistema, debba superare quella limitativa interpretazione, un poco idilliaca e non attagliantesi a questi lunghi tempi di crisi economica, secondo la quale:
“la probabile diminuzione del reddito a motivo della sospensione o riduzione dell'attività lavorativa non incide, comunque, sulla predetta necessaria serenità se compensata dal sostegno economico proveniente dalla solidarietà della categoria cui la donna appartiene” (così Corte Cost. 1998/n. 3 cit., avallata ad es. da Cass. SL 2013/n. 27068);
“il diverso sistema di autogestione dell'attività consente alle donne professioniste di scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio” (ancora Corte Cost.
1998/n. 3 cit.);
“non trovandosi queste ultime sotto la pressione (con effetti anche psicologici) di direttive, di programmi, di orari, di attività obbligatorie e fisse, ma potendo distribuire più elasticamente tempo e modalità di lavoro, e sopperendo così in qualche misura alle difficoltà derivanti dalla temporanea incapacità fisica a prestare la normale attività lavorativa (ancora Corte Cost.
1998/n. 3 cit., ma ripresa dalla sent. 1993/n. 181).
Del resto è la Corte Costituzionale stessa a sottolineare che “per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale”.
E ben più incisivamente e realisticamente, ad es., si esprime l’avvocato generale al paragrafo 47 delle sue conclusioni, nella sentenza sent.
30/9/2010, della Corte di Giustizia, in causa C-104/09, subito oltre esaminata:
“il fatto di negare la fruizione del permesso di cui alla causa principale ai padri aventi lo status di lavoratore subordinato, per la sola ragione che la madre del bambino non beneficia di questo status, potrebbe avere come esito che una donna, come la madre del bambino del sig. Roca Álvarez, lavoratrice autonoma si veda obbligata a limitare la propria attività professionale e a farsi carico da sola degli oneri conseguenti alla nascita di suo figlio, senza poter ricevere un aiuto dal padre di quest’ultimo”.
Le circolari dell’INPS contrastano con la lettera e soprattutto la lettura che veniamo proponendo della legge.
La Circolare 2009/n. 112, ricorda che “l’art. 40, lett. c, del d.lgs.
151/2001 (T.U. maternità/paternità) prevede che il padre lavoratore dipendente possa fruire dei riposi giornalieri “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.
In attuazione della citata disposizione, l’Inps, in varie circolari, aveva ritenuto che per madre “lavoratrice non dipendente” dovesse intendersi la madre “lavoratrice autonoma (artigiana, commerciante, coltivatrice diretta o colona, imprenditrice agricola, parasubordinata, libera professionista) avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell’Istituto o di altro ente previdenziale” e non anche la madre casalinga, con conseguente esclusione, in tale ultima ipotesi, del diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri salvi, ovviamente, i casi di morte o grave infermità della madre (vedi circolari n. 109/2000, 8/2003 e 95 bis 2006).
Con sentenza n. 4293 del 9 settembre 2008, il Consiglio di Stato, Sez.
VI, ha dedotto, in via estensiva, che la ratio della norma in esame, “volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio”, induca a ritenere ammissibile la fruizione dei riposi giornalieri da parte del padre anche nel caso in cui la madre casalinga, considerata alla stregua della “lavoratrice non dipendente”, possa essere tuttavia “impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato”.
Anche il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, nel condividere l’orientamento giurisprudenziale espresso dal Consiglio di Stato nella citata sentenza (vedi lettera circolare n.8494 del 12.05.2009 - all.1), ha ritenuto che il padre lavoratore dipendente possa fruire dei riposi giornalieri anche nel caso in cui la madre svolga lavoro casalingo.
Il nuovo indirizzo maturato nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, va letto anche alla luce di quanto previsto dalla lett. d, dell’art. 40 sopra citato, ai sensi del quale il padre lavoratore dipendente fruisce dei riposi giornalieri nel caso in cui la madre, anche se casalinga, sia oggettivamente impossibilitata ad accudire il neonato perché morta o gravemente inferma.
L’interpretazione estensiva operata dal Consiglio di Stato consente di riconoscere al padre lavoratore dipendente il diritto a fruire dei riposi giornalieri, oltre che nell’ipotesi già prevista dalle norme vigenti, anche in altri casi di oggettiva impossibilità da parte della madre casalinga di dedicarsi alla cura del neonato, perché impegnata in altre attività (ad esempio accertamenti sanitari, partecipazione a pubblici concorsi, cure mediche ed altre simili).
Pertanto, in presenza delle predette condizioni, opportunamente documentate, il padre dipendente può fruire dei riposi giornalieri, nei limiti di due ore o di un’ora al giorno a seconda dell’orario giornaliero di lavoro, entro il primo anno di vita del bambino o entro il primo anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato (artt. 39 e 45 del D.Lgs. 151/2001).
Analogamente a quanto avviene in caso di madre lavoratrice autonoma, anche nell’ipotesi di madre casalinga, il padre dipendente può utilizzare i riposi a partire dal giorno successivo ai 3 mesi dopo il parto (ossia a partire dal giorno successivo alla fine del periodo di maternità riconosciuto per legge)”.
Con successiva Circolare 2009/n. 118 l’INPS ha poi chiarito,
“Recentemente il Ministero del Lavoro, della Salute e Politiche Sociali con lettera circolare C/2009 del 16.11.2009 ha interpretato l’indirizzo del Consiglio di Stato nel senso del maggior favor del ruolo genitoriale, ed ha pertanto riconosciuto il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri, ex art. 40 del T.U.
151/2001, sempre nel caso di madre casalinga, senza eccezioni ed indipendentemente dalla sussistenza di comprovate situazioni che determinano l’oggettiva impossibilità della madre stessa di accudire il bambino.
Il padre dipendente, pertanto, in tali ipotesi ed alle condizioni indicate, può fruire dei riposi giornalieri, nei limiti di due ore o di un’ora al giorno a seconda dell’orario giornaliero di lavoro, entro il primo anno di vita del bambino o entro il primo anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato (artt. 39 e 45 del D.Lgs. 151/2001)
Per quanto non previsto con la presente circolare resta fermo il disposto della circolare 112/2009”.
Si noti come la stessa Circolare INPS 2009/n. 112, preveda che “in caso di parto plurimo (art. 41 del d.lgs. 151/2001), trovano applicazione le disposizioni già fornite con circolare 95 bis/2006 (punto 7.3): in particolare, anche nell’ipotesi di madre casalinga, il padre dipendente può fruire del
raddoppio dei riposi e le ore aggiuntive possono essere utilizzate dal padre stesso anche durante i 3 mesi dopo il parto”. Ciò è certamente comprensibile sistematicamente e razionalmente, ma solo in parte: poiché simile interpretazione si incentra meramente sull’accentuato impegno della madre e del padre in caso di parto plurimo, ma non coglie quella primaria istanza di cura del figlio parte del padre stesso, come del bambino, che prescindono dal numero della prole.
E il 6/12/2011, l’ARAN con RAL879, ha pubblicato per quanto occorrer possa e possa aver rilievo, tra gli Orientamenti Applicativi:
“Il padre lavoratore ha diritto a fruire, nei tre mesi post partum, dei riposi giornalieri e dei congedi per la malattia del figlio se la moglie è una libera professionista ?
Premesso che i quesiti riguardano questioni applicative di norme di legge, sulle quali dovreste acquisire il parere del Dipartimento della Funzione Pubblica, riteniamo comunque utile fornire i seguenti elementi di valutazione.
Riposi giornalieri. L’art. 40 del D.Lgs.n.151/2001 stabilisce che i periodi di riposo previsti dall’art.39 dello stesso articolo sono riconosciuti al padre lavoratore in una serie di casi, compreso quello della madre che “non sia lavoratrice dipendente”; tale espressione, come chiarito dall’Inpdap con circolare n.45/2000, deve essere riferita alla madre che svolge attività di lavoro autonomo o di libero professionista. Nessuna norma del D.Lgs.n. 151 stabilisce un divieto del padre di fruire dei periodi di riposo in questione nei tre mesi post-partum: pertanto, saremmo orientati a ritenere che egli ne abbia diritto”.
*
Sollecitata dal ricorrente con lettera 18/5/2015, la Consigliera di Parità della Provincia di Siena, avv. Lucia Secchi Tarugi, è intervenuta nelle forme dell’art. 419 cpc, ex art. 36 d.lgs., 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunita' tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246).
L’art. 6, l. 2005/n. 246, cit., dedicato al “Riassetto normativo in materia di pari opportunità”) delega il Governo “ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di pari opportunita', secondo i principi, i criteri direttivi e le procedure di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, nonche' nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione, in particolare per cause direttamente o indirettamente fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'eta' e l'orientamento sessuale, anche al fine di realizzare uno strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di pari opportunita' previsti in sede di Unione europea e nel rispetto dell'articolo 117 della Costituzione; b)
adeguamento e semplificazione del linguaggio normativo anche attraverso la rimozione di sovrapposizioni e duplicazioni”.
Il d.lgs., 25 gennaio 2010, n. 5, in “attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunita' e della parita' di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)”, ha rimodellato l’art. 1 del Codice delle Pari Opportunità, sostituendolo a decorrere dal 20/2/2010 con il seguente testo:
“(Divieto di discriminazione e parita' di trattamento e di opportunita' tra donne e uomini, nonche' integrazione dell'obiettivo della parita' tra donne e uomini in tutte le politiche e attivita').
- 1. Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle liberta' fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo.
2. La parita' di trattamento e di opportunita' tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione.
3. Il principio della parita' non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
4. L'obiettivo della parita' di trattamento e di opportunita' tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attivita'”.
La definizione di discriminazione, le “nozioni” di discriminazione sonoo poste dall’art. 25 (“Discriminazione diretta e indiretta” (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 1 e 2), con le modifiche e inserimenti, sotto evidenziati tra (()), dal d.lgs., 25 gennaio 2010, n. 5, art. 1, co. 1, lett. p):
“1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, ((qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento)), nonche' l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attivita' lavorativa, purche' l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
((2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonche' di maternita' o paternita', anche adottive, ovvero in ragione della titolarita' e dell'esercizio dei relativi diritti.))”.
Se la originaria previsione parrebbe incentrata, storicamente e certamente con valenza sempre attuale, nella contrapposizione tra i sessi,
“uomini e donne”, nella discriminazione di genere, sia per la discriminazione diretta che per quella indiretta, tuttavia lo specifico fattore era già stemperato nella legge delega, 2005/n. 246, cit., dedicato al “Riassetto normativo in materia di pari opportunità”) nell’evidenziare “il rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione, in particolare per cause direttamente o indirettamente fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'eta' e l'orientamento sessuale, anche al fine di realizzare uno strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di pari opportunita' previsti in sede di Unione europea e nel rispetto dell'articolo 117 della Costituzione”.
Ed oggi il co. 2-bis, dell’art. 25, introdotto con l. 2010/n. 5, cit., prevede con più ampio respiro che “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonche' di maternita' o paternita', anche adottive, ovvero in ragione della titolarita' e dell'esercizio dei relativi diritti”.
Del resto, aprendo ad altro, limitrofo settore (licenziamento discriminatorio), rileviamo da Cass. SL, 2015/n. 10834: “3.6.- Peraltro, va aggiunto che il canone preferenziale dell'interpretazione conforme a Costituzione, rinforzato dal concorrente canone dell'interpretazione non contrastante con la normativa comunitaria, la quale vincola l'ordinamento interno, porta a ritenere che, laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice nazionale non possa fare a meno di tenerne conto sia in base all'art. 3 Cost.
sia in considerazione degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Processo, che è poi proseguito in sede comunitaria e nazionale ed ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione - pur non necessaria, in presenza dell'art. 3 Cost. - (Corte cost.
sentenza n. 109 del 1993) - come discriminatorie (in modo diretto o indiretto), soprattutto a partire dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216 del 2003 con la previsione di un particolare regime dell'onere probatorio”, confermando la giurisprudenza nazionale, dunque, da tempo una nozione aperta, non tassativa, dei casi, fattori di discriminazione, “rivelandosi – si è osservato tra gli studiosi – strumento capace di assicurare la giusta protezione ai diritti fondamentali inoltre distinzione soggetti portatori del fattore di protezione di trattamenti favorevoli in concreto praticati in confronto di altri gruppi o soggetti”.
E già lo stesso d.lgs., 11 aprile 2006, n. 198, Codice delle pari opportunita', all’art. 27, nel Libro III, PARI OPPORTUNITA' TRA UOMO E DONNA NEI RAPPORTI ECONOMICI, Titolo I, PARI OPPORTUNITA' NEL LAVOR0 Capo I, aveva previsto:
“Art. 27. Divieti di Nozioni di discriminazione discriminazione nell'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (legge 9 dicembre 1977, n. 903, articolo 1, commi 1, 2, 3 e 4; legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 3)
1. E' vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonche' la promozione, indipendentemente dalle modalita' di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attivita', a tutti i livelli della gerarchia professionale ((, anche per quanto riguarda la creazione, la fornitura di attrezzature o l'ampliamento di un'impresa o l'avvio o l'ampliamento di ogni altra forma di attivita' autonoma)).
2. La discriminazione di cui al comma 1 e' vietata anche se attuata: a) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonche' di maternita' o paternita', anche adottive; b) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso.
3. Il divieto di cui ai commi 1 e 2 si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti, nonche' all'affiliazione e all'attivita' in un'organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.
4. Eventuali deroghe alle disposizioni dei commi 1, 2 e 3 sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva.
5. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev'essere accompagnata dalle parole "dell'uno o dell'altro sesso", fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione.
6. Non costituisce discriminazione condizionare all'appartenenza ad un determinato sesso l'assunzione in attivita' della moda, dell'arte e dello spettacolo, quando cio' sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione”.
L’intervento della Consigliera di Parità procede ai sensi del 2° co. dell’art.
36: “Legittimazione processuale (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 4 e 5)
1. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni poste in essere in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo, o di qualunque discriminazione nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione,
nonche' in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, puo' promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, anche tramite la consigliera o il consigliere di parita' ((della citta' metropolitana e dell'ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56)) o regionale territorialmente competente.
2. Ferme restando le azioni in giudizio di cui all'articolo 37, commi 2 e 4, le consigliere o i consiglieri di parita' ((delle citta' metropolitane e degli enti di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56)) e regionali competenti per territorio hanno facolta' di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima”.
In ordine all’onere della prova (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6))”, l’art. 40 Codice cit: “1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione”.
La Consigliera di Parità richiama ad es. la sent. 30/9/2010, della Corte di Giustizia, in causa C-104/09, che ripercorriamo (da qui fino a p. 26) ad uso documentario:
“Causa principale e questione pregiudiziale
11 Il sig. Roca Álvarez lavora alle dipendenze della società Sesa Start España ETT SA sin dal mese di luglio 2004.
Il 7 marzo 2005 ha chiesto al proprio datore di lavoro che gli fosse riconosciuto il diritto di fruire del permesso di cui all’art. 37, n. 4, dello Statuto dei lavoratori per il periodo compreso tra il 4 gennaio 2005 ed il 4 ottobre 2005. Tale permesso gli è stato negato per il motivo che la madre del bambino del sig. Roca Álvarez non era una lavoratrice subordinata, bensì autonoma.
Orbene, l’attività subordinata della madre sarebbe indispensabile per poter fruire di tale permesso.
12 Il sig. Roca Álvarez adiva il Juzgado de lo Social de La Coruña (Tribunale per la legislazione in materia sociale di La Coruña) al fine di contestare la decisione del proprio datore di lavoro. Tale organo giurisdizionale ha ritenuto che, dal momento che il permesso richiesto è riservato alle
«lavoratrici», esso sia concesso esclusivamente alle madri. D’altra parte, tale diritto al permesso è a beneficio delle madri che hanno la qualità di lavoratrici subordinate, condizione che non è soddisfatta dalla madre del bambino del sig.
Roca Álvarez. Di conseguenza, la richiesta di quest’ultimo è stata respinta.