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Le caratteristiche cliniche dell’orbitopatia basedowiana sono: proptosi, edema e/o retrazione palpebrale, deficit dei muscoli estrinseci dell’occhio, talora deficit del visus dovuto a danno corneale o a stiramento o compressione del nervo ottico.

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RIASSUNTO

L’ orbitopatia basedowiana è una patologia autoimmune caratterizzata da una reazione infiammatoria nelle aree para- e retrobulbari, che coinvolge tessuto connettivo, adiposo e muscolare e che, nella maggior parte dei casi, si associa al morbo di Graves.

Le caratteristiche cliniche dell’orbitopatia basedowiana sono: proptosi, edema e/o retrazione palpebrale, deficit dei muscoli estrinseci dell’occhio, talora deficit del visus dovuto a danno corneale o a stiramento o compressione del nervo ottico.

Le terapie possibili sono quella medica, quella radiante e quella chirurgica.

La terapia chirurgica ha lo scopo di ridurre la proptosi e di eliminare eventuali compressioni sul nervo ottico ma è tuttora gravata da una significativa incidenza di diplopia postoperatoria.

Abbiamo condotto uno studio retrospettivo valutando i risultati dell’intervento di decompressione orbitaria ed abbiamo studiato con particolare attenzione i possibili fattori di rischio nello sviluppo di una diplopia primaria postoperatoria.

Abbiamo osservato che il principale fattore di rischio per lo sviluppo di una

diplopia postoperatoria dopo decompressione orbitaria è la funzionalità

preoperatoria della muscolatura extraoculare.

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INTRODUZIONE

L’orbitopatia basedowiana (OB) è la più comune patologia infiammatoria orbitaria dell’adulto. L’aumento di volume delle strutture intraorbitarie provoca un aumento della pressione intraorbitaria con il conseguente sviluppo di una proptosi di varia gravità. Altre manifestazioni sono edema palpebrale, iperemia congiuntivale, fotofobia, alterazioni funzionali dei muscoli extraoculari con conseguente diplopia e, in alcuni pazienti, strabismo e neuropatia ottica con calo del visus e difetti campimetrici.

Il trattamento dell’OB include terapia sistemica antinfiammatoria ed immunosoppressiva con glucocorticoidi, radioterapia e chirurgia (decompressione orbitaria, chirurgia dello strabismo e blefaroplastica) (Bartalena et al., 2000). Le classiche indicazioni alla decompressione orbitaria sono la compressione del nervo ottico e la proptosi grave con conseguente cheratopatia da esposizione, rischio di sublussazione del globo oculare e deturpazione estetica (McCord, 1985). La chirurgia orbitaria è eseguita anche con indicazioni estetiche e riabilitative in pazienti con OB inattiva.

Le tecniche chirurgiche che possono essere prese in considerazione sono molte.

La decompressione della parete mediale e del pavimento attraverso un approccio

transantrale è molto comune (Walsh and Ogura, 1957; Garrity et al., 1993) e, da

circa 20 anni, l’approccio endoscopico transnasale ha progressivamente

rimpiazzato la procedura tradizionale (Kennedy et al., 1990). Anche la

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decompressione della parete laterale, da sola o in associazione alla parete mediale, è stata proposta da vari autori (Mourits et al., 1990; Goldberg et al., 2000;

Graham et al., 2003; Sellari-Franceschini et al., 2005; Sellari-Franceschini et al., 2010). Inoltre, Olivari ha descritto una tecnica traspalpebrale che consiste nella rimozione del grasso orbitario (Olivari, 1991).

Nel nostro centro attualmente selezioniamo la tecnica chirurgica secondo la severità della proptosi, la presenza di compressione del nervo ottico e la presenza di una restrizione significativa di uno o più muscoli extraoculari. Come regola generale, la decompressione della parete mediale è effettuata in pazienti con proptosi modesta e assenza di significativa restrizione del muscolo retto mediale, la decompressione della parete laterale è utilizzata in pazienti con proptosi lieve o moderata, con o senza restrizione muscolare, mentre la decompressione bilanciata è frequentmente utilizzata in casi di proptosi maggiore. In pazienti con neuropatia ottica la parete mediale viene sempre rimossa, associandola alla parete laterale quando è necessaria una maggior riduzione di proptosi.

Sebbene non comuni, le complicanze della decompressione orbitaria sono potenzialmente pericolose ed includono: lacerazione meningea con fistola liquorale e/o pneumencefalo, danno iatrogeno al nervo ottico, emorragie retrobulbari, ipo-anestesia temporanea o permanente del nervo infraorbitario o sopraorbitario e comparsa o peggioramento di diplopia postoperatoria.

Quest’ultima rimane l’effetto avverso più comune della chirurgia decompressiva

ed ancora non è chiaro quale sia l’approccio chirurgico ideale per minimizzare

tale complicanza. Inoltre non sono ancora stati dimostrati fattori di rischio

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associati con una maggiore probabilità di diplopia postoperatoria in posizione primaria di sguardo. I muscoli retti inferiori e mediali sono i più coinvolti in corso di OB e la rimozione di pareti ossee a loro prossime sembra provocare con maggior frequenza la comparsa di diplopia postoperatoria (Abràmoff et al., 2002).

Inoltre le decompressioni orbitarie mediale e inferomediale sembrano essere gravate dal dislocamento del contenuto orbitario verso le pareti rimosse (Garrity et al., 1993; Abràmoff et al., 2002; Kasperbauer and Hinkley, 2005). La decompressione orbitaria bilanciata (mediale e laterale) ha diminuito il rischio di diplopia postoperatoria riducendo questo dislocamento (Graham et al., 2003;

Sellari-Franceschini et al., 2005). Sulla base di queste considerazioni la parete orbitaria laterale dovrebbe essere la più sicura da rimuovere poiché la demolizione ossea avviene pressoché posteriormente al cono muscolare, riducendo la possibilità di un dislocamento muscolare od oculare nel postoperatorio (Goldberg et al., 2000; Sellari-Franceschini et al., 2010).

La scelta della tecnica spesso è pesantemente condizionata dall’esperienza del chirurgo e talvolta non è adeguatamente preso in considerazione il rischio di diplopia postoperatoria associata ai differenti approcci chirurgici.

Lo scopo di questo studio retrospettivo è di identificare fattori di rischio

responsabili della maggiore incidenza di diplopia postoperatoria in alcune

categorie di pazienti. A questo proposito abbiamo analizzato 278 pazienti (543

orbite) affetti da OB ed operati tra il 1999 ed il 2009 con tre differenti tecniche di

decompressione orbitaria.

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ORBITOPATIA BASEDOWIANA:

Caratteristiche cliniche e possibilità diagnostico-terapeutiche

Il morbo di Graves è una malattia autoimmune caratterizzata dalla triade sintomatologica comprendente gozzo diffuso, ipertiroidismo e orbitopatia.

L’orbitopatia basedowiana (OB) è la principale manifestazione extratiroidea del morbo di Graves. Più raramente è associata alla tiroidite cronica autoimmune o si osserva come manifestazione clinica isolata, tuttavia in soggetti con modificazioni tiroidee subcliniche.

La OB è caratterizzata da una reazione infiammatoria nelle aree para- e retrobulbari che coinvolge tessuto connettivo, adiposo e muscolare.

L’entità delle manifestazioni cliniche è legata al grado di flogosi (ed al conseguente edema dei tessuti orbitari), alla congestione passiva, alla compliance del setto orbitario ed al grado di fibrosi (Rootman et al., 1995).

Considerazioni storiche

La più antica descrizione di gozzo con esoftalmo è riportata in testi medici persiani del XII secolo A.D. (Elgood, 1935).

Parry, nel 1786, fu il primo a mettere in evidenza l’associazione tra il gozzo

tossico e l’orbitopatia; Graves, nel 1835, attribuì alla tiroide un ruolo centrale

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nell’eziologia dell’orbitopatia e Von Basedow, nel 1840, descrisse le caratteristiche di tale patologia.

Graves e Von Basedow misero in evidenza i sintomi ancora considerati caratteristici della patologia: esoftalmo, gozzo e tachicardia.

Epidemiologia

L’interessamento oculare nel morbo di Graves è clinicamente evidente nel 25- 50% dei soggetti affetti, ma studi diagnostici con TC, RMN o US identificano un coinvolgimento oculare asintomatico fino nel 90% dei soggetti studiati (Werner et al., 1974; Enzmann et al., 1976; Forrester et al., 1977; Marcocci et al., 1989). Il coinvolgimento oculare è solitamente modesto, ma può diventare severo nel 3-5%

dei soggetti affetti (Bartalena et al., 2000).

L’orbitopatia basedowiana può essere presente anche in associazione con una tiroidite cronica autoimmune (<10%) o costituire un fenomeno isolato in assenza di alterazioni della funzione tiroidea clinicamente manifeste (Euthyroid Graves’

Disease) (Burch and Wartofsky, 1993).

Raramente l’orbitopatia può precedere la comparsa dell’ipertiroidismo, ma nella

maggioranza dei casi compare in contemporanea o in seguito allo sviluppo

dell’ipertiroidismo (Marcocci et al., 1989).

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Alcuni autori hanno analizzato i dati disponibili in letteratura riguardo i principali fattori di rischio che sembrano essere coinvolti nello sviluppo e nella progressione dell’OB (Bartalena et al., 2002a).

Fattori genetici. La malattia di Graves sembra essere una patologia multifattoriale, dipendente sia da fattori genetici che da fattori ambientali (Tomer and Davies, 1997). Un contributo genetico allo sviluppo dell’OB probabilmente esiste, ma rimane tuttora indefinito.

Età. Uno studio ha dimostrato che l’incidenza in base all’età è bimodale sia nelle donne che negli uomini, con due picchi: 40-44 e 60-64 anni nelle donne, 45-50 e 65-70 anni negli uomini (Bartley, 1994).

Sesso. Sebbene la patologia tiroidea autoimmune abbia una prevalenza maggiore nel sesso femminile, gli uomini tendono ad essere maggiormente colpiti dalla OB rispetto alle donne e tendono ad avere un decorso più severo (soprattutto in età avanzata).

Fumo. Molti AA. hanno dimostrato una forte associazione tra fumo di sigaretta e

OB. Bartalena e coll. hanno riportato una prevalenza di fumatori del 48% tra

pazienti con malattia di Graves senza un apparente coinvolgimento oculare, e del

68% tra quelli con orbitopatia associata (Tab. 1) (Bartalena et al., 1989a). Inoltre i

fumatori tendono ad avere un coinvolgimento oculare più grave rispetto ai non

fumatori, sebbene non ci sia una significativa associazione tra quantità di sigarette

fumate e gravità dell’orbitopatia (Prummel and Wiersinga, 1993). L’aumento del

rischio è associato con l’abitudine al fumo attuale piuttosto che con il consumo di

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tabacco durante la vita, e gli ex-fumatori hanno un rischio più basso di sviluppare OB rispetto ai fumatori correnti a parità di consumo totale di tabacco (Pfeilshifter and Ziegler, 1996). Bartalena e coll. hanno inoltre dimostrato che il fumo riduce l’efficacia della terapia steroidea e della terapia radiante orbitaria (Bartalena et al., 1998a).

prevalenza di fumatori in soggetti affetti da morbo di Graves

0 10 20 30 40 50 60 70 80

soggetti senza oftalmopatia soggetti con oftalmopatia

Tabella 1. Prevalenza di fumatori in soggetti affetti da morbo di Graves con o senza orbitopatia associata.

Disfunzione tiroidea. Alcuni studi hanno suggerito che un adeguato controllo

dell’ipertiroidismo può essere associato ad un decorso più favorevole

dell’orbitopatia (Prummel et al., 1989; Prummel et al., 1990). Altri AA. hanno

ipotizzato che anche l’ipotiroidismo possa influenzare negativamente il decorso

dell’orbitopatia (Karlsson et al., 1989).

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Terapia radiometabolica. È ormai ampiamente accettato che il trattamento con farmaci antitiroidei (Bartalena et al., 1998b) e la tiroidectomia quasi-totale (Marcocci et al., 1999) non influenzano il decorso dell’orbitopatia, mentre il trattamento con radioiodio porta con se un modesto ma definito rischio di causare progressione della OB (Wiersinga, 1998). Alcuni AA. hanno dimostrato che l’utilizzo di glucocorticoidi (prednisone) associati alla terapia radiometabolica riduce significativamente il rischio di progressione della orbitopatia (Bartalena et al 1989b).

Patogenesi

Sebbene l’esatta patogenesi sia sconosciuta, evidenze cliniche, istopatologiche e sierologiche suggeriscono che si tratti di una malattia autoimmune.

Tra le varie ipotesi (Tab. 2), la più accreditata è che l’OB sia dovuta ad una

reazione autoimmune diretta contro un antigene condiviso dalla tiroide e dai

tessuti orbitari. Rimane una considerevole incertezza riguardo la natura

dell’antigene in questione (Bartalena et al., 2004). Come affermato da Bahn

(Bahn, 2004), il recettore del TSH (TSHr) è rintracciabile, sia come livelli di

mRNA che come proteina, nei tessuti orbitari dei soggetti affetti. Le cellule

infiammatorie, in particolare i linfociti T, potrebbero riconoscere tale recettore, e

gli anticorpi prodotti di conseguenza potrebbero non avere un ruolo patogenetico

diretto, ma riflettere l’intensità della risposta autoimmune orbitaria.

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Altri autori hanno dimostrato che il TSHr può essere presente anche in altri tessuti, non correlati alla malattia di Graves e alla OB (Davies, 1994); questo, comunque, non implica necessariamente che l’espressione del TSHr nei tessuti orbitari non possa avere un ruolo rilevante nella comparsa o nella progressione della OB.

Secondo un’altra ipotesi antigeni solubili rilasciati dalla tiroide raggiungerebbero i tessuti orbitari e diventerebbero in quella sede bersaglio di una reazione autoimmune (Marinò et al., 2004). L’osservazione che la tireoglobulina (Tg) orbitaria contiene T4 indica chiaramente che la proteina è sintetizzata nella tiroide e raggiunge l’orbita in un secondo momento (Lisi et al., 2002). Tg è stata trovata nel tessuto fibroadiposo, ma non nei muscoli extraoculari (Lisi et al., 2002).

Una differente linea di pensiero ritiene che alcuni antigeni dei muscoli extraoculari possano essere rilevanti per la comparsa di OB (Mikozami et al., 2004). Molti di questi antigeni sono stati recentemente descritti, ma anticorpi contro di essi sono presenti sia nel siero di pazienti affetti da OB sia in quello di soggetti normali. Inoltre questi anticorpi non sono specifici contro i muscoli extraoculari (Mikozami et al., 2004). Poiché molti degli antigeni descritti sono intracellulari, sembra che i livelli di anticorpi circolanti riflettano il danno oculare.

In altre parole essi non sembrano essere patogenetici, ma possono essere indice

dell’attività di malattia a livello oculare (Kubota et al., 1998).

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Tabella 2. Ipotesi eziopatogenetiche della orbitopatia basedowiana.

Nello sviluppo e nella progressione dell’orbitopatia basedowiana un ruolo importante è giocato dalle citochine (Ajjan and Wetman, 2004). Esse sono prodotte dalle cellule infiammatorie presenti nell’orbita e dai fibroblasti orbitari.

L’analisi fenotipica di cloni cellulari T prelevati da tessuti orbitari di pazienti affetti da OB hanno mostrato in differenti studi una predominanza di profili Th1- like (IL-2, IFN-γ, TNF-γ) o Th2-like (IL-4, IL-5, IL-10) (Heufelder and Bahn, 1993; McLachlan et al., 1994). Frequentemente si riscontra una risposta mista Th1/Th2. Questo potrebbe essere collegato a differenti stadi ed attività di malattia.

Secondo alcuni autori, infatti, la risposta cellulare Th1 predomina precocemente mentre le cellule Th2 sono predominanti tardivamente durante la progressione della malattia (Aniszewski et al., 2000). Anche IL-6 sembra avere un ruolo nell’orbitopatia poiché è rintracciabile nella maggioranza dei cloni cellulari T della OB (Hiromatsu et al., 2000); IL-4 e IL-10 potrebbero essere associate con

 Antigene condiviso da tiroide e tessuti orbitari

 Antigeni solubili rilasciati dalla tiroide che raggiungono i tessuti orbitari

 Antigeni dei muscoli extraoculari

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una remissione di malattia, vista la relazione inversa tra i loro livelli di espressione ed il volume dei tessuti orbitari (Hiromatsu et al., 2000).

Le citochine inducono in vitro l’espressione di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (HLA) di classe II (Heufelder et al., 1991) e di HSP-72 (Heufelder, 1995), coinvolte nel riconoscimento dell’antigene, e di ICAM-1 (Heufelder and Bahn, 1992), coinvolte nel reclutamento delle cellule T; stimolano i fibroblasti a proliferare ed a secernere glicosaminoglicani (Heufelder and Bahn, 1994); prevengono l’apoptosi delle cellule T (Ajjan and Weetman, 2000). Inoltre, alle citochine si deve l’aumento dell’espressione di CD40 da parte dei fibroblasti, una molecola co-stimolatoria importante per l’aumento del processo infiammatorio (Ajjan and Weetman, 2004), e della prostaglandina E2, un modulatore della risposta immune (Cao and Smith, 1999). Inoltre IL-1 può indurre l’espressione di due potenti chemoattrattanti per le cellule T, come l’IL-16 e RANTES (regulated on activation normal T cell expressed and secreted) (Ajjan and Weetman, 2004).

Un argomento rilevante collegato alla patogenesi della OB riguarda le cellule

bersaglio del processo autoimmune. Attualmente si ritiene che i fibroblasti e gli

adipociti siano i primi ad essere coinvolti, mentre i miociti sembrano essere un

bersaglio secondario, rilevante per il perpetuarsi della reazione autoimmune. I

fibroblasti orbitari contengono una subpopolazione di cellule (preadipociti) che, in

particolari condizioni, si differenziano in adipociti, contribuendo all’espansione

volumetrica del grasso orbitario (Sorisky et al., 1996). I fibroblasti orbitari hanno

una risposta alle citochine proinfiammatorie più intensa rispetto a quella dei

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fibroblasti cutanei (Smith, 2004): questo può, in parte, spiegare il selettivo coinvolgimento dei tessuti orbitari nella malattia di Graves.

Anche il tessuto adiposo contribuisce alla patogenesi della OB. L’adipogenesi è regolata dal PPARγ (peroxisome proliferator activator receptor γ). Alcuni recenti studi hanno dimostrato che, in vitro, agonisti recettoriali del PPARγ stimolano la differenziazione da preadipociti ad adipociti, mentre gli antagonisti la inibiscono (Valyasevi et al., 2002; Ludgate and Baker, 2004). L’osservazione clinica di progressione dell’orbitopatia dopo trattamento del diabete tipo 2 con pioglitazone (agonista PPARγ) supporta i precedenti meccanismi patogenetici (Starkey et al., 2003).

Come precedentemente riportato, il fumo di sigaretta ha un ruolo importante nell’insorgenza e nella progressione dell’orbitopatia basedowiana. Il meccanismo mediante il quale il fumo esercita i suoi effetti non è completamente compreso, ma sembra in parte correlato allo stress ossidativo. Il fumo aumenta la sintesi di radicali superossido e riduce la formazione di antiossidanti (Bartalena et al., 2003). Alcuni studi hanno dimostrato che il radicale superossido induce una stimolazione dose dipendente dei fibroblasti orbitari (Burch et al., 1997;

Hiromatsu et al., 1998): questo effetto può essere inibito dall’allopurinolo, un

inibitore della xantina ossidasi (Burch et al., 1997), e dalla nicotinamide (Burch et

al., 1997; Hiromatsu et al., 1998). Si è osservato inoltre che l’IL-1β causa un

incremento nella produzione di radicali liberi dell’ossigeno da parte dei fibroblasti

orbitari, un effetto che può essere prevenuto dalla superossido dismutasi (Lu et al.,

1999). In più, l’idrogeno perossido ha indotto l’espressione di HSP-72 da parte dei

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fibroblasti orbitari, un effetto ostacolato dalla coincubazione con diaminobenzamina o nicotinamide (Heufelder et al., 1992). La nicotinamide inibisce anche l’espressione di HLA-DR e ICAM-1 indotta dalle citochine proinfiammatorie (Hiromatsu et al., 1992; Hiromatsu et al., 1993). Così, oltre all’effetto irritativo diretto e all’aumentata produzione di citochine correlata all’ipossia, il fumo sembra agire attraverso un aumento della sintesi di radicali liberi dell’ossigeno.

Anatomia Patologica

Le caratteristiche dell’orbitopatia basedowiana sono l’infiltrazione dei tessuti orbitari da parte di linfociti e cellule mononucleate e la proliferazione di tessuto connettivo. Sono coinvolte tutte le strutture orbitarie, comprese le ghiandole lacrimali.

Un evento comune è l’ingrandimento dei muscoli estrinseci dell’occhio, fino a 8- 10 volte il loro volume normale. In tali muscoli, istologicamente, vi è un marcato edema ed un’infiltrazione focale. La struttura miofibrillare rimane intatta, ma in fase avanzata vi può essere la perdita e la disintegrazione delle striature.

Quando è presente tireotossicosi, vi può essere un aumento del grasso orbitario e l’interposizione di cellule adipose tra gli strati di fibre muscolari. Se non c’è tireotossicosi, il grasso invece diminuisce e viene sostituito da connettivo.

Aumenta il contenuto di polisaccaridi ed acqua e, nelle aree perivascolari, vi è un

infiltrato mastocitario.

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L’aumento del volume dei tessuti orbitari è causa di proptosi; i muscoli ingrossati diventano sempre meno mobili e il bulbo oculare può deviare, per lo più verso il basso. Quando infine i muscoli diventano fibrotici, si ha una definitiva limitazione dei movimenti oculari. Con l’aumento della proptosi si può avere una cheratopatia da esposizione, fino ad una possibile ulcerazione.

Talora l’aumento della pressione nella regione posteriore dell’orbita limita il drenaggio venoso, con conseguente iniezione congiuntivale, chemosi, ed ingrandimento del disco ottico, fino all’occlusione della vena e dell’arteria centrali della retina.

La neuropatia ottica con perdita della visione centrale può comparire in ogni stadio della malattia, anche senza proptosi e alterazioni del disco ottico: questo per il ruolo svolto dalla compressione da parte dei muscoli extra-oculari ingrossati sul nervo ottico a livello dell’apice dell’orbita e per il probabile ruolo del fattore vascolare.

Presentazione clinica

L’esordio dell’orbitopatia basedowiana avviene nel 75% dei casi in un intervallo di tempo compreso tra un anno prima e un anno dopo la diagnosi di tireotossicosi, ma può talvolta precedere o seguire la tireotossicosi di diversi anni; si parla, in questi casi, di orbitopatia eutiroidea (Jameson and Weetman, 2005).

La gravità delle anomalie oculari nella OB varia da un leggero interessamento,

rilevabile solo con metodiche sofisticate, a quadri drammatici che compromettono

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la funzione visiva e l’aspetto esteriore, mettendo così in secondo piano le manifestazioni tiroidee della patologia.

La maggior parte dei pazienti ha soltanto lievi alterazioni oculari, spesso trattabili con le sole misure locali; il 3-5% dei pazienti (Tab. 3) andrà incontro ad alterazioni più gravi (Bartalena et al., 2000) e per questi saranno necessari provvedimenti terapeutici più aggressivi, tra i quali la decompressione chirurgica.

Tabella 3. Coinvolgimento oculare nei pazienti con malattia di Graves.

L’interessamento orbitario è bilaterale nella maggioranza dei casi, ma può essere monolaterale fin nel 10% dei casi (Jameson and Weetman, 2005); l’OB risulta comunque la causa più frequente di proptosi monolaterale (Fledelius and Glydensted, 1978).

La gravità del coinvolgimento delle due orbite è spesso differente (De Santo, 1980), nonostante una differenza nella entità della proptosi nelle due orbite maggiore di 6 mm sia infrequente; il riscontro di una differenza della proptosi tra i due occhi maggiore di tale valore deve far sospettare la presenza di una massa occupante spazio.

0 25 50 75 100

Absent Nonsevere Severe

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Con tecniche di imaging è stato osservato che la maggior parte dei pazienti con orbitopatia clinicamente monolaterale presenta invece un coinvolgimento bilaterale. Con la TC si è visto che il 50-90% dei pazienti con manifestazioni cliniche monolaterali ha anche un interessamento dei muscoli estrinseci controlaterali (Wiersinga et al., 1989). Molti pazienti con interessamento monolaterale, d’altronde, hanno una storia clinica recente e questo può far pensare ad una fase precoce di malattia (Wiersinga et al., 1989). Weetman, nel 1992, ha ipotizzato che un meccanismo compatibile con un’orbitopatia monolaterale potrebbe essere l’ostruzione venosa con conseguente ostacolato drenaggio (Weetman, 1992).

Le caratteristiche cliniche dell’OB sono: la proptosi, la retrazione palpebrale, la flogosi dei tessuti molli, il coinvolgimento dei muscoli estrinseci dell’occhio, il danno corneale e del nervo ottico.

La proptosi (Fig. 1) si presenta nel 40-70% dei pazienti con OB, in circa il 90%

dei casi è bilaterale e, tra i pazienti con malattia di Graves, il 20-30% va incontro

a tale manifestazione. Per proptosi si intende una protrusione del bulbo oculare

oltre i 2 mm rispetto ai limiti di normalità (18 mm), prendendo come riferimenti

l’apice corneale e la rima anteriore della parete laterale dell’orbita

(esoftalmometria secondo Hertel). Tale protrusione può variare da gradi

estremamente lievi fino a casi nei quali è impossibilitata la chiusura delle palpebre

(lagoftalmo) o addirittura fino alla lussazione del bulbo oculare. È in genere

asimmetrica e, come già detto, può essere monolaterale.

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Figura 1. Proptosi.

Per la valutazione della proptosi si può utilizzare l’esoftalmometro di Hertel oppure tecniche più accurate come l’ecografia e la TC (Fig. 2 e 3).

Figura 2. Misurazione della proptosi mediante esoftalmometro di Hertel.

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Figura 3. Misurazione della proptosi mediante TC.

Variazioni della proptosi minori di 2 mm non vengono considerate significative per la variabilità che si può avere tra due diversi osservatori o nello stesso osservatore in momenti e con pazienti diversi.

È importante non solo valutare l’entità della proptosi, ma anche confrontarla con lo stato precedente all’insorgenza della malattia: può infatti essere erroneamente classificato normale un paziente con proptosi ai limiti alti della norma che prima della malattia aveva valori molto più bassi, così come talora si possono riscontrare alti valori di proptosi in soggetti non affetti da OB (ad es. miopia).

La retrazione della palpebra superiore è una frequente manifestazione della OB e

causa aumento dell’ampiezza della fessura palpebrale, diminuzione della

frequenza dell’ammiccamento e asinergia oculo-palpebrale, evidenziata dal segno

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di Graefe (la palpebra superiore non segue il globo oculare nello sguardo verso il basso) (Fig. 4 e 5).

La retrazione della palpebra superiore può prodursi con diversi meccanismi:

aumento della stimolazione simpatica del muscolo di Müller, fibrosi dell’elevatore della palpebra superiore, iperattività e ipertono dei muscoli elevatore della palpebra superiore e retto superiore, in risposta alla fibrosi del retto inferiore.

Figura 4. Retrazione palpebrale.

La retrazione dovuta ad un aumentato tono simpatico è rapidamente reversibile

dopo la correzione dell’ipertiroidismo, quella dovuta a fibrosi dell’elevatore della

palpebra superiore, invece, migliora solo gradualmente.

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Figura 5. Segno di Graefe.

Figura 6. Segni di flogosi orbitaria.

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Occasionalmente, in casi di grave proptosi, si verifica una vera e propria disinserzione dell’elevatore della palpebra, con conseguente ptosi palpebrale.

L’interessamento flogistico dei tessuti molli è spesso fonte di notevole fastidio e di alterazioni estetiche in questi pazienti. I sintomi ad esso correlati sono: epifora, sensazione di “sabbia negli occhi”, fotofobia, dolore retroorbitario (la sensazione di “sabbia negli occhi”, l’eccessiva lacrimazione ed il fastidio oculare sono generalmente le manifestazioni più precoci dell’orbitopatia (Jameson and Weetman, 2005); i segni obiettivi sono: arrossamento ed edema palpebrale, iniezione e chemosi congiuntivale, lagoftalmo, aumento del volume delle ghiandole lacrimali, che possono diventare palpabili, prolasso del grasso orbitario a livello della palpebra superiore, infiammazione nei siti di inserzione dei muscoli retti orizzontali (Fig. 6).

Un ruolo importante nella congestione dei tessuti orbitari può essere talora svolto dall’ostacolato ritorno venoso, dovuto all’ingrossamento del muscolo retto superiore e/o all’aumento del grasso orbitario (Hudson et al., 1991). Questo spiegherebbe il rapido miglioramento, che si ha in questi casi, dopo la decompressione orbitaria (De Santo, 1980).

Il coinvolgimento dei muscoli estrinseci dell’occhio è un’altra frequente

manifestazione della OB; colpisce circa il 10-15% dei pazienti affetti da malattia

di Graves e tireotossicosi ed è presente nel 60% dei pazienti con OB. Consiste in

un progressivo aumento di volume dei ventri muscolari e talora può essere

interessato anche il tratto anteriore in prossimità della loro inserzione sul globo

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oculare. La gravità di questa manifestazione può essere variabile. I muscoli più coinvolti, per frequenza ed intensità, sono il retto inferiore ed il retto mediale.

Nel 5-10% dei pazienti si ha quindi diplopia, tipicamente (ma non esclusivamente) quando il soggetto volge lo sguardo verso l’alto o lateralmente (Jameson and Weetman, 2005). Essa è determinata dalla più o meno grave limitazione dei movimenti oculari che consegue al processo di rigonfiamento dei ventri muscolari (Fig. 7 e 8). Questi pazienti lamentano visione indistinta con lo sguardo binoculare, franca diplopia, continua o intermittente, dello sguardo estremo e/o dello sguardo primario, e sensazione di tensione nello sguardo verso l’alto.

L’interessamento della muscolatura estrinseca dell’occhio può essere evidenziato con TC, RMN e tecniche ultrasonografiche nel 60-98% dei pazienti con malattia di Graves.

Figura 7. Strabismo.

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24

Figura 8. Alterazione della motilità oculare.

Il danno corneale è caratterizzato da una cheratopatia da esposizione e da un difetto di mantenimento del film lacrimale. Tale danno è valutabile con i test al rosa bengala e alla fluoresceina.

Lievi anomalie corneali sono presenti frequentemente, mentre l’ulcerazione e la

perforazione sono molto rare. La proptosi ed il conseguente lagoftalmo,

unitamente alla retrazione palpebrale, sono i maggiori responsabili del danno

corneale, poiché causano l’essiccamento del film lacrimale, specialmente durante

il sonno.

(25)

25

Misure terapeutiche locali quali l’uso di gocce di metilcellulosa e di lacrime artificiali ed interventi quali la tarsorrafia hanno diminuito la frequenza del danno corneale.

Il coinvolgimento del nervo ottico può presentarsi in una minoranza dei pazienti con orbitopatia basedowiana ed è dovuto alla compressione o allo stiramento di tale nervo. La compressione è operata dai muscoli estrinseci ingrossati e dal tessuto connettivo, a livello dell’apice dell’orbita.

L’età media dei pazienti con OB e neuropatia ottica è maggiore di quella dei pazienti con OB ma senza neuropatia. Frequentemente i pazienti che presentano neuropatia sono diabetici e questo suggerisce il probabile ruolo del fattore vascolare nello sviluppo del danno nervoso. L’interessamento del nervo è bilaterale nel 65-85% dei casi, in molti dei quali è però asimmetrico. I pazienti con neuropatia monolaterale hanno una forma generalmente lieve, forse perché ad uno stadio ancora precoce della malattia.

Le conseguenze cliniche possono essere una diminuzione dell’acuità visiva, che

sopraggiunge insidiosamente o rapidamente, visione confusa, difetti campimetrici

e desaturazione dei colori. La visione confusa non è specifica della neuropatia

ottica, ma se persiste anche dopo aver fatto chiudere un occhio al paziente deve

far pensare ad una disfunzione del nervo ottico. Talora pazienti con segni di danno

al nervo ottico quali desaturazione dei colori o alterazione del fundus oculi hanno

una normale acuità visiva. Raramente la neuropatia ottica si verifica in assenza di

altri segni di OB, anche se la correlazione tra questi e il decorso della neuropatia è

debole.

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26

La diagnosi precoce di tale manifestazione è importante, perchè se non trattata può condurre ad un deficit visivo irreversibile circa il 21% dei pazienti (Trobe, 1981). Per una diagnosi tempestiva sono utili rilievi TC quali un affollamento dell’apice dell’orbita, l’aumento del diametro dei muscoli estrinseci, marcata proptosi, dilatazione della vena oftalmica superiore, dislocamento anteriore della ghiandola lacrimale. Indizi ulteriori di neuropatia ottica rilevabili sempre con la TC sono la misurazione del volume totale dei muscoli ed il rapporto tra il volume orbitario e il volume del grasso orbitario.

Diagnosi

La valutazione clinica nel sospetto di orbitopatia basedowiana prevede un esame del campo visivo, dell’acuità visiva, del fundus oculi e della visione dei colori, la misurazione della pressione intraoculare, l’osservazione della motilità oculare (per valutare il coinvolgimento dei muscoli estrinseci dell’occhio) e la misurazione dell’esoftalmo.

La diagnosi di OB è presa in considerazione se la retrazione palpebrale (margine

della palpebra superiore a livello o sopra al limbus corneosclerale in posizione

primaria dello sguardo senza contrazione del muscolo frontale) è presente in

associazione ad evidenza di disfunzione o anormale regolazione tiroidea (aumento

dei livelli sierici di T3 o T4, assenza di soppressione della captazione del

radioiodio dopo somministrazione di triiodiotironina, diminuzione dei livelli

sierici di TSH, presenza di immunoglobuline tiroidostimolanti), esoftalmo,

(27)

27

disfunzione del nervo ottico (diminuzione dell’acuità visiva, alterazioni del riflesso pupillare, difetti campimetrici o della visione dei colori non attribuibili ad altre cause), o coinvolgimento dei muscoli extraoculari (Bartley and Gorman, 1995) (Tab. 4). Tali caratteristiche possono essere sia monolaterali che bilaterali.

Se la retrazione palpebrale è assente l’OB può essere diagnosticata se esoftalmo, neuropatia ottica o coinvolgimento dei muscoli extraoculari sono associati a disfunzione tiroidea, e non sono presenti altre possibili cause per il coinvolgimento oculare (Bartley and Gorman, 1995).

Sebbene molti pazienti con OB siano clinicamente ipertiroidei e si presentino con gozzo diffuso, alcuni pazienti possono presentarsi con tiroidite di Hashimoto mentre altri avranno l’OB come unica manifestazione del morbo di Graves. Se non ci sono altre cause possibili per l’orbitopatia e la diagnostica per immagini è compatibile con OB si può porre diagnosi nonostante l’assenza di evidenze cliniche, anatomiche o laboratoristiche di disfunzione tiroidea.

 Retrazione palpebrale

 Disfunzione tiroidea

 Esoftalmo

 Disfunzione del nervo ottico

 Coinvolgimento dei muscoli extraoculari

Tabella 4. Criteri diagnostici per l’orbitopatia basedowiana.

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28

Dopo che la diagnosi di OB è stata confermata, rimane da stabilire qual’è la gravità (severity) della patologia e in quale fase di essa il paziente si trova.

Per stadiare la gravità della malattia viene utilizzato il sistema NOSPECS (Mourits, 2006):

0 = No signs or symptoms

1 = Only signs, no symptoms

2 = Soft tissues involvement

3 = Proptosis

4 = Extraocular muscles involvement

5 = Corneal involvement

6 = Sight loss

Con tale sistema si identificano tre condizioni cliniche: orbitopatia lieve (NOSPECS 2a-b, e/o 3a, e/o 4a, e/o 5a), moderata (2c, e/o 3b-c, e/o 4b, e/o 5b) e severa (4c, e/o 5c, e/o 6a-b-c). Sebbene utile, il sistema NOSPECS non è sufficiente per definire completamente la malattia oculare e i pazienti non progrediscono necessariamente da una classe all’altra (Jameson and Weetman, 2005).

Per valutare l’attività della malattia sono stati proposti vari sistemi di scoring, tra

cui il CAS (Clinical Activity Score) (Mourits et al., 1989; Mourits, 2006) (Tab. 5).

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Tabella 5. Clinical Activity Score (CAS).

In uno studio retrospettivo per testare l’efficacia di questa classificazione, Mourits e coll. hanno ossevato che pazienti con un activity score di 3 o più all’inizio della terapia rispondono bene ai farmaci anti-infiammatori, mentre pazienti con punteggi inferiori hanno una scarsa risposta. Inoltre c’è una correlazione

Clinical Activity Score (amended from Mourits et al. Br J Ophthalmol, 73, 639-644.)

1.

Spontaneous orbital pain.

2.

Gaze evoked orbital pain.

3.

Eyelid swelling that is considered to be due to active (inflammatory phase) GO.

4.

Eyelid erythema.

5.

Conjunctival redness that is considered to be due to active (inflammatory phase) GO (ignore “equivocal” redness).

6.

Chemosis.

7.

Inflammation of caruncle or plica.

8.

Increase of > 2mm in proptosis.

9.

Decrease in uniocular ocular excursion in any one direction of > 8º.

10.

Decrease of acuity equivalent to 1 Snellen line.

(30)

30

significativa tra l’activity score e l’ingrandimento dei muscoli extraoculari (maggiore l’activity score, maggiore l’ingrandimento) (Mourits et al., 1989).

Questo dimostra l’importanza del CAS per programmare un trattamento.

L’orbitopatia può trovarsi in fase attiva (di deterioramento, stabile ma attiva, di miglioramento) o inattiva, quando il processo infiammatorio si è spento. Queste informazioni sono importanti per la pianificazione del trattamento: alcuni interventi terapeutici sono efficaci solamente nella fase attiva della malattia, mentre altri, come la terapia chirurgica riabilitativa, dovrebbero essere considerati solo una volta raggiunta la fase inattiva.

Storia naturale

Nella maggior parte dei pazienti con morbo di Graves l’OB compare all’inizio dell’ipertiroidismo, ma può anche precedere o seguire la diagnosi di ipertiroidismo (Wiersinga and Bartalena, 2002). Come precedentemente riportato, l’esordio dell’orbitopatia basedowiana avviene nel 75% dei casi in un intervallo di tempo compreso tra un anno prima e un anno dopo la diagnosi di tireotossicosi.

L’orbitopatia inizialmente è in fase attiva, e si possono evidenziare una fase di

progressione, una di plateau ed una di parziale regressione; quest’ultima è seguita

dalla fase inattiva (burnt out), in cui le manifestazioni residue di malattia

(proptosi, strabismo, ecc.) sembrano non poter mostrare ulteriori cambiamenti

sostanziali (Bartalena et al., 2000). L’iniziale fase infiammatoria si protrae

usualmente per 6-24 mesi, ma in alcuni casi può persistere fino a 5 anni;

(31)

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successivamente viene raggiunta la fase di plateau che dura circa 1-3 anni (El- Kaissi et al., 2004). Questa è seguita da una risoluzione dell’infiammazione e dalla fase di inattività finale (Dickinson and Perros, 2001).

Globalmente, l’OB migliora spontaneamente in circa il 60% dei casi, rimane stabile nel 25% e peggiora nel 15% (Perros et al., 1995) (Tab. 6).

Il decorso dell’OB è largamente indipendente dallo stato tiroideo, sebbene tenda ad essere peggiore nei pazienti in cui l’ipertiroidismo o l’ipotiroidismo sono scarsamente controllati (Bartalena et al., 2000; Prummel et al., 1990).

Imprevedibili ed improvvise recrudescenze dell’orbitopatia possono manifestarsi in ogni momento, indipendentemente dalla terapia antitiroidea o dallo stato metabolico dell’individuo.

Evoluzione dell'oftalmopatia basedowiana

25% 60%

15%

miglioramento stabile peggioramento

Tabella 6. Evoluzione spontanea dell’orbitopatia basedowiana.

Come precedentemente riportato, è ormai ampiamente accettato che il trattamento

con farmaci antitiroidei (Bartalena et al., 1998b) e la tiroidectomia quasi-totale

(Marcocci et al., 1999) non influenzano il decorso dell’orbitopatia, mentre il

(32)

32

trattamento con radioiodio porta con se un modesto ma definito rischio di causare progressione della OB (Wiersinga, 1998). La terapia con radioiodio è seguita dall’aggravamento dell’orbitopatia in circa il 15% dei casi, più spesso rispetto alla terapia con metimazolo (Bartalena et al., 1998b). La comparsa di peggioramento dell’orbitopatia dopo terapia radiometabolica è più frequente nei fumatori, in pazienti con OB preesistente o ipertiroidismo severo e in pazienti nei quali l’ipotiroidismo iatrogeno seguente alla terapia radiometabolica non è prontamente corretto con L-tiroxina. Il peggioramento dell’orbitopatia dopo terapia con radioiodio è usualmente transitorio e può essere prevenuto dalla somministrazione di prednisone (Bartalena et al., 1998b).

Sebbene con la terapia solo pochi pazienti presentino alterazioni funzionali a lungo termine dovuti all’OB, più di 1/3 dei soggetti affetti sono insoddisfatti del loro aspetto finale, alcuni dei quali marcatamente (Bartley et al., 1996a).

Terapia

Principi generali.

Fino ai 2/3 dei casi di OB vanno incontro a regressione spontanea (Perros et al.,

1995). La maggior parte (74%) dei pazienti presenta un coinvolgimento orbitario

lieve e non richiede trattamento oppure può essere trattato con misure locali di

supporto (Bartley et al., 1996b). La decisione di trattare l’orbitopatia in maniera

più aggressiva dipende sia dalla severità dell’OB che dalla fase di malattia

(Bartalena et al., 2000).

(33)

33

La fase di malattia determina la scelta terapeutica. Nella fase attiva è presumibile l’efficacia della terapia immunosoppressiva, consistente in corticosteroidi per via sistemica o nell’irradiazione retro bulbare (Asman, 2003). Questi provvedimenti non hanno effetto nella fase inattiva di malattia, quando invece deve essere considerato il ruolo della terapia chirurgica riabilitativa. La durata della malattia non correla in maniera rilevante con il successo della terapia immunosoppressiva.

In conclusione, se l’orbitopatia non è severa, non è richiesto un trattamento medico o chirurgico aggressivo. Se il paziente ha un coinvolgimento oculare grave, la determinazione del grado di attività aiuta a determinare il trattamento più appropriato.

Molto importante è correggere quei fattori ambientali che possono favorire

l’insorgenza o l’aggravamento dell’OB come fumo di sigaretta, disfunzione

tiroidea, terapia radiometabolica per l’ipertiroidismo (Bartalena et al., 2005). La

sospensione del fumo apparentemente rappresenta la misura preventiva più

importante nei pazienti con OB (Bartalena et al., 2005). Condizioni di

ipertiroidismo o ipotiroidismo dovrebbero essere prontamente corrette con un

trattamento adeguato. In pazienti a rischio di progressione dopo terapia

radiometabolica, un breve ciclo di terapia steroidea (basse dosi di glucocorticoidi

per os) previene il rischio di aggravamento dell’OB dovuto al radioiodio

(Bartalena et al., 2000). L’OB non deve quindi essere considerata una

controindicazione all’uso del radioiodio per il trattamento dell’ipertiroidismo.

(34)

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Misure di trattamento locale.

Il trattamento locale può essere utilizzato nell’orbitopatia lieve o come misura aggiuntiva da associare al trattamento definitivo (Dallow and Netland, 1994).

Misure locali utili sono l’utilizzo di occhiali da sole, l’applicazione di lacrime artificiali e/o il bendaggio oculare notturno per proteggere la cornea , il riposo con 2 cuscini o con la testa del letto elevata per ridurre l’edema dei tessuti molli periorbitari (spesso più marcato al mattino).

Terapia medica.

I glucocorticoidi sono una efficace terapia immunosoppressiva per trattare l’OB (Boulos and Hardy, 2004). Sono stati usati con differenti vie di somministrazione:

orale, locale (retrobulbare o sottocongiuntivale) e più recentemente, endovenosa.

Molti autori preferiscono boli ev. di metilprednisolone (15 mg/kg per 4 cicli, poi 7,5 mg/kg per 4 cicli, 2 infusioni a giorni alterni con 2 settimane di intervallo) piuttosto che alte dosi orali di prednisolone (60-100 mg/die). Questo regime sembra essere più efficace e meglio tollerato (Kendall-Taylor, 1989). Effetti favorevoli sono stati osservati per quanto riguarda i segni infiammatori ed il coinvolgimento del nervo ottico, con rapido miglioramento che segue di 1 o 2 giorni il trattamento. Gli effetti degli steroidi sulle alterazioni dei muscoli extraoculari e sulla proptosi non sono stati soddisfacenti.

Una porzione importante (20-40%) di pazienti risponde solo in maniera parziale o

non risponde affatto al trattamento con glucocorticoidi. Dal momento che le

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35

recidive non sono infrequenti quando il farmaco viene ridotto o sospeso, il trattamento (boli ev. e steroidi orali a basse dosi in maniera continua) deve essere continuato per molti mesi.

Un problema rilevante sono gli effetti collaterali della terapia steroidea. Alcuni pazienti sviluppano una sindrome cushingoide anche con basse dosi di farmaci, e questi effetti sono lenti a risolversi. Altri effetti collaterali ben noti sono il peggioramento del diabete, insonnia, disturbi psichiatrici, osteoporosi, riattivazione di focolai tubercolotici, ipopotassemia. Dopotutto, l’uso a lungo termine della terapia steroidea è inusuale, ed i rischi superano i benefici (Dallow and Netland, 1994). Sebbene gli steroidi abbiano un debole effetto su proptosi e strabismo, sono utili nel prevenire un aggravamento dell’OB conseguente a terapia radiometabolica o a limitare la risposta infiammatoria al trauma chirurgico in pazienti sottoposti a decompressione orbitaria.

Nei tessuti orbitari di pazienti con OB è stata dimostrata in vitro l’espressione di recettori per la somatostatina (Bartalena et al., 2000). Alcuni studi sembravano dimostrare l’efficacia di analoghi della somatostatina (octreotide o lanreotide) nella terapia della OB. Due studi successivi hanno invece smentito tale efficacia, che risulta essere limitata o scarsa per quanto riguarda l’impiego degli analoghi della somatostatina attualmente disponibili.

Prospettive future includono l’impiego di nuovi analoghi della somatostatina,

antagonisti citochinici, antiossidanti, antagonisti PPAR-γ che al momento non

hanno ancora chiare indicazioni all’utilizzo clinico e necessitano di ulteriori studi

per confermarne l’efficacia.

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Radioterapia.

Il razionale per l’utilizzo della radioterapia è basato sia sul suo effetto antiinfiammatorio aspecifico che sull’alta radiosensibilità dei linfociti che infiltrano lo spazio orbitario (Bartalena et al., 2002b). Inoltre, l’irradiazione orbitaria può ridurre la proliferazione dei fibroblasti orbitari e la loro produzione di glicosaminoglicani. La radioterapia è probabilmente efficace solo nei pazienti che si presentano nella fase attiva di malattia, caratterizzata da coinvolgimento dei tessuti molli e neuropatia ottica (Behbehani et al., 2004). Ci sono molti studi non controllati che mostrano un tasso di risposta alla radioterapia orbitaria del 60%. In presenza di OB progressiva, soprattutto se associata con neuropatia ottica, la radioterapia orbitaria è una possibile opzione nei pazienti non candidati alla chirurgia a causa di comorbidità importanti o per guadagnare tempo fino a quando la decompressione orbitaria non può essere fatta, se non immediatamente disponibile (Behbehani et al., 2004). La radioterapia orbitaria non è utile per pazienti con OB in fase inattiva, ad esempio per trattare le sequele della fibrosi, come la proptosi cronica e i problemi cronici di motilità oculare.

La maggior parte dei centri effettua il trattamento utilizzando dieci dosi giornaliere di 2 Gy (200 rads) somministrate in un periodo di due settimane, con dose cumulativa di 20 Gy (Bartalena et al., 1998c).

Una transitoria esacerbazione dei segni infiammatori, come edema orbitario ed

iperemia e chemosi congiuntivali, può comparire durante la prima settimana di

trattamento; queste manifestazioni possono essere efficacemete prevenute con

l’uso concomitante di glucocorticoidi (Bartalena et al., 2002b). Effetti collaterali

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37

dell’irradiazione orbitaria sono cataratta, retinopatia radio-indotta e il possibile sviluppo, dopo molti anni dal trattamento, di tumori della regione testa-collo.

Negli ultimi anni, molti autori hanno dichiarato sicura ed efficace la radioterapia orbitaria, mentre altri hanno concluso che la radioterapia orbitaria non è innocua né efficace.

Due studi prospettici randomizzati hanno dimostrato che l’associazione di radioterapia orbitaria ad alte dosi di glucocorticoidi orali è più efficace rispetto ad entrambi i trattamenti usati da soli (Bartalena et al., 1983; Marcocci et al., 1991).

Il razionale di questo approccio è che gli steroidi hanno azione a breve termine, mentre la radioterapia ha un’azione più prolungata. Gli steroidi possono inoltre prevenire l’esacerbazione delle manifestazioni oculari legata alla radioterapia, mentre la radioterapia può ridurre la comparsa di recidive della malattia oculare, osservate non infrequentemente quando i glucocorticoidi vengono sospesi.

Terapia chirurgica.

La terapia chirurgica decompressiva si impone qualora quella medica fallisca o

debba essere interrotta a causa di complicanze, quando sono presenti neuropatia

ottica rapidamente progressiva, grave flogosi orbitaria, grave proptosi fino a

lussazione o sublussazione dei globi oculari, cheratopatia da esposizione. Altre

indicazioni sono di natura estetica ed altre ancora costituite da sintomi soggettivi

particolarmente pronunciati, quali dolore o senso di tensione, fotofobia, eccessiva

lacrimazione. La chirurgia decompressiva può inoltre precedere l’esecuzione di

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interventi chirurgici sui muscoli oculari e/o sulle palpebre. Oltre alla decompressione orbitaria, l’OB può richiedere infatti interventi sui muscoli extraoculari (chirurgia dello strabismo) o sulle palpebre (blefaroplastica).

I due principali tipi di intervento sono:

 Rimozione del grasso orbitario (lipectomia)

 Rimozione di una o più pareti orbitarie (con o senza contemporanea lipectomia)

La decompressione orbitaria mediante rimozione del grasso è un procedimento che fu impiegato per la prima volta da Moore (Moore, 1920); è di grande semplicità esecutiva, ma, per i modesti risultati che permette di conseguire, non ha trovato seguito. Questa tecnica consiste nell’asportazione del grasso orbitario dopo un’incisone lungo il fornice palpebrale inferiore. Un approccio simile è stato successivamente proposto con successo nel 1991 dal chirurgo plastico tedesco Olivari (Olivari, 1991), il quale ha descritto la rimozione del grasso orbitario attraverso due incisioni palpebrali (una superiore ed una inferiore).

L’intervento di decompressione orbitaria più frequentemente utilizzato è

comunque quello in cui si ottiene l’espansione della cavità orbitaria mediante

l’ostectomia di una o più pareti dell’orbita. In ordine cronologico è stata prima

effettuata l’ostectomia della parete laterale, poi di quella inferiore, poi di quella

superiore ed infine di quella mediale (Fig. 9).

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Ostectomia della parete laterale dell’orbita: l’accesso laterale all’orbita fu ideato nel 1989 da Krönlein per rimuovere una cisti dermoide intraorbitaria (Krönlein, 1989).

Figura 9. Opzioni chirurgiche possibili per l’espansione della cavità orbitaria.

Il primo ad utilizzare questo accesso per la decompressione orbitaria

nell’esoftalmo endocrino fu Döllinger (Döllinger, 1911). Questi, attraverso

un’incisione cutanea in regione temporale, ha proposto l’asportazione della

porzione profonda della parete laterale dell’orbita, rispettando il margine

orbitario; dopo aver asportato la periorbita sottostante all’ostectomia, parte del

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40

contenuto orbitario può erniare in fossa temporale. Questo approccio è stato ampiamente utilizzato e modificato nel corso degli anni, e attualmente la rimozione della parete orbitaria laterale viene effettuata con approcci molto meno invasivi (Sellari-Franceschini et al., 2010). Nel 1969 è stata proposta da Tessier la fenestrazione della parete orbitaria esterna con valgizzazione del pilastro orbitario esterno (Tessier, 1969). Tale procedura consente di ottenere un’ottima riduzione della proptosi ma presenta comunque il rischio di un risultato estetico insoddisfacente.

La rimozione della parete orbitaria laterale fornisce una buona riduzione della proptosi ed una relativa sicurezza nei confronti della diplopia postoperatoria.

Ostectomia del tetto dell’orbita: la decompressione del contenuto orbitario

mediante rimozione del tetto dell’orbita è stata la via più seguita da quei

neurochirurghi che si sono interessati alla chirurgia dell’esoftalmo nell’orbitopatia

basedowiana. Il primo che utilizzò questa via fu Naffziger (1931) (Naffziger,

1931). La procedura prevedeva un’incisione coronale e l’allestimento di un lembo

osseo in regione temporale, risultando quindi piuttosto invasiva. L’autore ha

successivamente modificato la propria tecnica estendendo l’area di ostectomia alla

parete laterale dell’orbita sfruttando così, a fini decompressivi, anche la fossa

temporale. Questa via neurochirurgica classica ha subito varie modificazioni, di

cui riportiamo quella di Poppen (Poppen, 1944), il quale ha proposto di sfruttare

anche i seni frontali per l’espansione del contenuto orbitario previa asportazione

del tetto, pavimento e rivestimento della cavità sinusale. Welti e Offret (Welti and

Offret, 1942) hanno praticato una decompressione orbitaria endocranica, condotta

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41

per via temporale, a livello dello pterion. Questa via sembra essere, per la sua relativa semplicità, la via neurochirurgica oggi preferita per il trattamento decompressivo dell’esoftalmo endocrino. Secondo questa tecnica l’incisione cutanea viene praticata in regione temporale, dietro all’attaccatura dei capelli.

La via neurochirurgica, sebbene efficace, è di notevole impegno. I rischi infettivi meningei e del lembo osseo, dovuti alla accidentale apertura dei seni paranasali, in era antibiotica sono estremamente ridotti, in ogni caso è necessario spatolare il lobo frontale per accedere al tetto orbitario. Alcuni autori hanno descritto una pulsazione del globo oculare come conseguenza della procedura (Naffziger and Jones, 1932; Kistner, 1939).

Ostectomia delle pareti orbitarie confinanti con i seni paranasali: la possibilità di decomprimere il contenuto orbitario sfruttando gli spazi dei seni paranasali è stata per la prima volta intuita ed attuata da Hirsch e Urbanek nel 1930 (Hirsch and Urbanek, 1930). Questi autori hanno decompresso il contenuto orbitario rimuovendo il pavimento dell’orbita per via transinusale. L’intervento, che può essere fatto anche in anestesia locale, comporta un’incisione a livello del fornice gengivale superiore e la successiva apertura della parete antero-laterale del seno mascellare; quindi viene rimosso il pavimento dell’orbita medialmente e lateralmente al fascio vascolo-nervoso infraorbitario, facendo attenzione a lasciare sotto di esso un sottile listello osseo che, proteggendo il nervo infraorbitario, evita l’anestesia della guancia e del naso e serve anche da supporto al bulbo oculare.

Terminata l’ostectomia, si incide la periorbita longitudinalmente e

trasversalmente, in modo che il contenuto orbitario possa erniare nel seno

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42

mascellare. È anche possibile a questo punto rimuovere il grasso orbitario. La rimozione della parete inferiore offre una buona riduzione della proptosi ma presenta un alto rischio di lesione del nervo infraorbitario e di diplopia postoperatoria.

Sewall (Sewall, 1936) ideò e sperimentò, ma solo su cadaveri, una metodica che utilizzava, a fini decompressivi, sia il seno mascellare che quelli frontale ed etmoidali usando come via di accesso la stessa via percutanea impiegata per l’etmoidectomia trans-frontale e rimuovendo le pareti orbitarie in corrispondenza dei seni frontale ed etmoidali e il pavimento dell’orbita medialmente al fascio infraorbitario. Incidendo a questo punto la periorbita, il contenuto orbitario può occupare i tre seni paranasali; l’intervento termina con la sutura della via di accesso.

Più recentemente Walsh e Ogura (Walsh and Ogura, 1957) hanno proposto una decompressione infero-mediale trans- antrale.

L’intervento (Fig. 10) viene eseguito in anestesia locale o generale con accesso vestibolare. L’apertura ossea deve essere particolarmente ampia, estesa in corrispondenza dell’angolo supero-

mediale.

Figura 10. Intervento di Walsh-Ogura

(43)

43

Si penetra quindi nel contesto delle cellule etmoidali e si pratica un completo courettage del labirinto etmoidale. Si rimuovono quindi il pavimento dell’orbita e la lamina papiracea fino al confine con lo sfenoide, dopo averla scollata dalla periorbita ed averla fratturata medialmente. Da ultimo viene incisa la periorbita.

Nel 1969 Tessier ha proposto un intervento di abbassamento del pavimento ed infossamento della parete mediale dell’orbita con accesso sottopalpebrale, con un’incisione a decorso parallelo rispetto alle pieghe cutanee e quindi con un risultato estetico particolarmente brillante (Tessier, 1969). Recentemente l’evoluzione della chirurgia endoscopica naso-sinusale ha portato allo sviluppo della decompressione orbitaria endoscopica (Kennedy et al., 1990); con approccio endoscopico si può rimuovere la papiracea, il pavimento orbitario mediale al fascio infraorbitario e si può incidere ampiamente la periorbita per permettere il prolasso del tessuto adiposo.

Il timore di infezioni del contenuto orbitario, una volta che questo sia stato messo in comunicazione con i seni paranasali, si è dimostrato infondato. In letteratura infatti non vi sono evidenze significative di complicanze orbitarie infettive in seguito ad interventi di questo tipo.

Le tecniche precedentemente descritte possono essere variamente associate per

personalizzare gli approcci chirurgici alle necessità del singolo paziente. Da

segnalare è la decompressione orbitaria delle pareti mediale e laterale, effettuata

inizialmente mediante accesso coronale, secondo Koorneef (Sellari-Franceschini

et al., 1999) (Fig. 11). Dopo aver liberato e rimosso le pareti orbitarie laterale e

mediale si può rimuovere parzialmente il pavimento orbitario (medialmente e

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44

lateralmente al nervo infraorbitario. Una ulteriore tecnica chirurgica, da noi utilizzata a partire dal 1998, è il risultato di una fusione ed evoluzione delle tecniche in passato descritte da Krönlein e da Sewall. L’intervento viene condotto in anestesia generale e prevede un approccio sia transnasale che trans-palpebrale superiore (Fig. 12). La procedura consente la rimozione delle pareti mediale e laterale dell’orbita insieme alla parte laterale del tetto, alla parte laterale del pavimento e, se necessario, alla parte posteriore del pavimento ed ha lo scopo di bilanciare la decompressione ed adattarla alle necessità del paziente (Sellari- Franceschini et al., 2005).

Figura 11. Decompressione orbitaria con accesso coronale.

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45

Figura 12. Decompressione orbitaria con accesso trans-palpebrale superiore.

Esiste infine un ultimo tipo di intervento di decompressione orbitaria, effettuato mediante osteotomia di avanzamento della cornice orbitaria e del settore orbito- nasale. Con questa tecnica si ottiene un approfondimento dell’orbita tramite un’osteotomia tipo Le Fort III. Secondo le ricerche di Wolfe (Wolfe, 1977), con questo intervento si ottiene un incremento del volume orbitario del 73% con un avanzamento di soli 5 mm.

In conclusione, una volta poste le indicazioni ed attuata correttamente una delle

tecniche di decompressione orbitaria, si ha quasi sempre una buona riduzione

dell’esoftalmo e dei disturbi funzionali e soggettivi ad esso correlati. In particolare

risente favorevolmente del trattamento la funzione visiva, il cui progressivo

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decadimento si arresta, ottenendosi addirittura un graduale miglioramento in una notevole percentuale di casi.

Meno prevedibili sono invece i risultati per quanto riguarda la motilità oculare e questo perché i deficit muscolari pare siano in relazione con reazioni flogistiche e fibrotiche dei muscoli stessi e non con l’esoftalmo.

Infine, vista la scarsità di complicanze, specialmente per alcuni tipi di intervento

(ostectomia della parete laterale o infero-mediale) appare giustificato consigliare

tali interventi anche solo per motivi estetici.

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MATERIALI E METODI

Abbiamo valutato retrospettivamente una casistica di 488 pazienti sottoposti a decompressione orbitaria nel nostro reparto tra il 1999 ed il 2009. I pazienti inclusi nello studio erano stati sottoposti a valutazione oftalmologica preoperatoria e postoperatoria (comprendente esoftalmometria con esoftalmometro di Hertel e/o studio TC delle orbite, analisi della muscolatura extraoculare mediante tavole di Hess e valutazione soggettiva semiquantitativa della diplopia) ed erano stati sottoposti a decompressione orbitaria con due differenti tecniche chirurgiche:

decompressione della parete laterale (accesso trans-palpebrale superiore) o decompressione bilanciata (pareti laterale e mediale associando l’accesso trans- palpebrale superiore al trans-nasale endoscopico).

Criteri di esclusione erano: chirurgia di revisione, diplopia primaria preoperatoria, dati preoperatori e/o postoperatori incompleti, calo del visus connesso alla neuropatia ottica (diplopia non valutabile), follow-up postoperatorio minore di 3 mesi, variazioni nella tecnica chirurgica di seguito descritta.

Sono stati quindi inclusi nello studio 278 pazienti (543 orbite).

Abbiamo raccolto ed analizzato retrospettivamente dati demografici, tecnica

chirurgica, valori di proptosi preoperatori e postoperatori, funzionalità

preoperatoria dei muscoli extraoculari (valutazione della diplopia e delle versioni

oculari), riduzione della proptosi, comparsa di diplopia postoperatoria o

peggioramento di una diplopia preesistente, complicanze chirurgiche.

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