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Lineamenti di storia della cucina

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Academic year: 2021

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Lineamenti di storia della cucina

Gli Egizi

Convinti che, dopo la morte, l’anima dovesse ancora nutrirsi, gli Egizi lasciavano tra i corredi funebri anche cibo e bevande con- servati in vasi e anfore che sono arrivati quasi intatti fino a oggi, insieme ad alcuni papiri dove sono riportate massime igieniche co- me “È gran lode dell’uomo saggio contenersi nel mangiare”.

Sulle terre inondate e fertilizzate annualmente dal Nilo cresce- vano molti cereali: il farro, un particolare tipo di frumento e l’orzo.

La farina ottenuta era utilizzata per pane di vario tipo (il lievito era sconosciuto) e la cottura avveniva su lastre di pietra arroventata o in piccoli forni.

Sulle pareti delle tombe dei faraoni sono dipinte vigne e scene di pigiatura dell’uva dentro grandi catini: il succo ottenuto, a cui po- tevano essere aggiunti ingredienti aromatizzanti, era lasciato fer- mentare in anfore successivamente tappate sulle quali veniva se- gnato l’anno e il luogo di produzione. Per condire e friggere si usa- va olio di sesamo e di lino, sale (non marino perché considerato im- puro) e alcune erbe aromatiche come ginepro, anice, coriandolo, cumino, prezzemolo e finocchio.

Si coltivavano cocomeri, meloni, fichi, palme da dattero, ma anche meli, melograni, olivi importati dai Paesi del Mediterraneo orientale.

Erano anche disponibili cipolle, porri, aglio, sedano, cetrioli. Ce- ci, fave e lenticchie facevano parte dell’alimentazione quotidiana, come una specie di lattuga di grandi dimensioni.

Oltre al pesce (anguille e carpe), si consumavano colombe, ana- tre, oche e gru (che non venivano soltanto allevate, ma anche fatte Un buon pasto soddisfa il bisogno di nutrirsi, rallegra, favorisce i rapporti tra le persone, consolida amicizie, aiuta a concludere un buon affare, consola.

Per questo motivo, la storia della cucina, dei suoi ingredienti e del modo di prepararli è anche quella dell’uomo, una storia condizionata, in ogni epoca, dalla disponibilità delle materie prime, dalle condizioni geografiche e da quelle economiche e sociali.

Il cibo che oggi mangiamo (e come lo prepariamo) è il risultato di una lunga evoluzione culturale iniziata nel periodo Neolitico (tra il 5000 e il 4000 a.C.), con forme elementari di agricoltura e di allevamento e, ancora prima (probabilmente oltre 1 milione di anni fa, in Africa), “addomesticando” il fuoco non solo per scaldarsi e allontanare gli animali predatori, ma anche per cuocere (in modo rudimentale) i cibi che non potevano essere mangiati crudi.

Donna egiziana che prepara la birra.

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ingrassare introducendo a forza nel becco speciali pastoni), uova di struzzo (il pollo compare in epoche successive), buoi (il grasso era usato per condire, il fegato per insaporire focacce e il sangue per preparare una specie di sanguinaccio), maiali, conigli e addirittura gazzelle e iene.

I Greci

Per i Greci il cibo era nutrimento non solo del corpo, ma anche del- lo spirito: la cucina era così importante da consacrarle la dea Ade- fagèa e, per diventare cuoco, bisognava frequentare due anni di

“scuola”. Le carni, considerate cibo destinato solo ai ricchi (il pe- sce era per i poveri), venivano cotte alla brace o su spiedi, mentre gli ortaggi e i legumi erano preparati come puree insaporite con er- be e semi aromatici. Molto usato era anche l’orzo, soprattutto bolli- to. Per condimento si utilizzava il grasso animale. La tecnica di pro- duzione del formaggio (in particolare di capra, che veniva fatto sta- gionare) era conosciuta fin dai tempi più antichi, come quella della preparazione di alcuni alcolici attraverso fermentazione del mosto:

l’idromele, per esempio, era ottenuto dalla fermentazione del mie- le mescolato con acqua. La coltivazione della vite veniva praticata nell’isola di Creta già dal 2000 a.C.: i vini, che raggiungevano anche i 18 gradi, aromatizzati con erbe, erano allungati con acqua e con- sumati con il pane come prima colazione. Nelle preparazioni, oltre all’olio, si usava aceto, miele e alcune spezie che giungevano con navi e carovane dal vicino Medio Oriente e dall’Africa.

Greca è anche l’origine del tipico cappello da cuoco, così come lo conosciamo, che sembra risalire al Medioevo quando, per distin- guersi dai monaci che li portavano neri, i cuochi dei monasteri greci indossavano alti cappelli di colore bianco.

I Romani

La civiltà romana aveva, all’inizio, abitudini molto parche (era na- ta come piccola comunità rurale): il pranzo poteva esser costitui- to solo da pane (la professione di “panettiere” era molto diffusa) al quale successivamente si aggiunsero vino, uova, latte e frutta. Le mense erano ricche di verdure (cipolle, zucche e zucchine, cavo- li, carote, insalate, carciofi) che venivano semplicemente lessate o consumate crude o in purea per accompagnare polente e focacce di fave e ceci. Spesso le preparazioni erano condite con una salsa molto diffusa (garum) a base di interiora e scarti di pesce, vino, aro- mi e sale (poco usato perché prezioso: alcuni cibi venivano insapo- riti cuocendoli con acqua di mare).

Affresco di Akrotiri del 1500 a.C. raffigurante un giovane pescatore.

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Comune era anche il puls, una specie di polenta di farina di farro piuttosto insipida.

La letteratura latina di Lucullo e Petronio è ricca di descrizioni di banchetti a base di raffinate preparazioni di cacciagione, capretti, maiali, ma anche ghiri, pappagalli e fenicotteri, a discapito di carni bovine considerate di scarto e destinate alla plebe. Ai Romani va il merito di aver introdotto la cottura dei pesci e i primi dolci a base di uvetta, noci e miele, oltre a tecniche di conservazione della carne e alla produzione di insaccati lavorati con spezie. Ma anche il primo gelato, realizzato con ghiaccio mescolato a miele.

La fantasia e la bravura dei cucinieri che lavoravano nelle case dei nobili era tale che, come racconta Petronio, il cuoco del ricco Trimalcione era in grado di “trasformare in piccione un lardo, in tor- tora un prosciutto e in gallina uno zampone”, e quello di Marco Api- cio, il più famoso buongustaio dell’Età imperiale, preparava piatti come utero di scrofa ripieno, pappagallo arrosto, ghiri farciti. A lui si dovrebbe la tecnica del foie gras, il fegato di oca ingrassata con fichi.

Fu proprio nell’Età imperiale che comparvero i migliori vini, mol- ti dei quali importati dalla Grecia, trattati con l’argilla o con il sale per ravvivarne il gusto troppo delicato, bevuti mescolati con acqua fredda o con neve in estate, con acqua calda in inverno.

Ancora oggi, per indicare un pranzo particolarmente ricco, si usa l’aggettivo “luculliano”, con riferimento al pretore Lucio Licinio Lu- cullo, famoso per l’opulenza dei banchetti che offriva ai suoi ospiti.

Il Medioevo e il Rinascimento

Con il declino dell’Impero romano, scompare in gran parte anche la sua tradizione gastronomica. I pasti sono più poveri, a base di verdure e cereali e qualche animale da cortile.

Il gusto per la buona tavola ritorna con Carlo Magno, il mona- chesimo e, dopo l’anno Mille, con la rinascita delle città. Genovesi e veneziani iniziano a importare piccole quantità di zucchero, co- nosciuto già da Alessandro Magno che, nel 325 a.C., lo aveva de- scritto come un “miele dei territori orientali che non aveva bisogno di api”. Grazie a Federico II di Svevia vengono avviate in Sicilia le pri- me coltivazioni di canna da zucchero (molto prezioso, però, e usa- to solo per sciroppi e impacchi medicinali).

Con le Crociate e i commerci sempre più frequenti con l’Orien- te, in Europa diventano di uso comune molte spezie (cannella, noce moscata e zafferano), mentre lo sviluppo delle coltivazioni di cereali favorisce la diffusione del pane (bianco per le classi più ricche e nero

Pompei: locanda con banconi.

Caravaggio: “Ragazzo che sbuccia un frutto”.

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per il popolo). La pasta (maccheroni e paste ripiene che venivano conditi con burro e uvette o sempli- ci salse) fa la sua comparsa in Italia nel XIII secolo, insieme alle prime pastine secche. La letteratura del tempo riporta che era molto usata anche la mine- stra, asciutta o in brodo (di cappone).

Al periodo medioevale risalgono ricette come l’agliata (una salsa a base di aglio, brodo, noci e mandorle tritate e pane raffermo) che accompa- gnava le carni arrosto, l’uso sistematico di spezie e aromi freschi e la nascita del soffritto (cipolla, aro- mi e grasso di cottura).

Con la scoperta del Nuovo Mondo, arrivano in Europa la patata (fino al Settecento destinata solo all’alimentazione animale), il mais, i pomodori, il ca-

cao (all’inizio cibo esclusivo dei re e della nobiltà) e i fagioli. Si diffon- de il consumo di carne di maiale (per la facilità del suo allevamento) e la coltivazione del riso: le prime risaie sono nelle terre fertili e ricche di fiumi che oggi corrispondono a Piemonte e Lombardia.

Nel Quattrocento e Cinquecento sulle tavole sono presenti sel- vaggina, pollame, minestre elaborate a base di latte e brodo, cereali e riso.

Sul desco quotidiano sono frequenti polente di farina di casta- gne, zuppe con pane, ceci o fagioli e, nei giorni di festa, la maricon- da a base di brodo in cui veniva fatto sciogliere un impasto di uova, formaggio e pane sminuzzato.

L’origine del mais è americana ma, invece di arrivare in Europa solcando l’Oceano Atlantico, fa un giro molto più lungo e in tempi molto più antichi: si presume sia passato dalle Americhe attraverso le regioni artiche fino in Asia, e da qui in Asia Mi-

nore (Persia) dove gli europei lo scoprono, battez- zandolo “granoturco”, e lo portano in Francia.

Nel 1495 viene stampato in Germania il primo libro di cucina, segno che anche la tecnica culi- naria sta cambiando. E infatti, nel Rinascimento, ispirati alla tradizione classica greca e latina, com- paiono i banchetti a tema, come quello preparato nel 1565 a Ferrara per il matrimonio di Alfonso II d’Este, dedicato a Nettuno e all’Oceano: il salone era addobbato in modo da somigliare a fondali ma- rini, con una grotta artificiale utilizzata come bot- tiglieria, tovaglie disposte imitando il movimento

delle onde, piatti e tovaglioli a forma di pesce, por-

Floris van Dyck: “Natura morta con formaggi”.

Annibale Carracci: “Il mangiafagioli”.

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tate (un centinaio) a base di prodotti della pesca e, per stupire mag- giormente gli ospiti, un corteo di novanta statue a forma di pesci e animali marini realizzate con marzapane e zucchero. La cucina del Rinascimento ha anche il merito di aver creato nuove cotture, con trionfi di marmellate e pasticcini e di aver valorizzato gli ortaggi.

Circa un secolo dopo, in seguito all’espansione turca, arriva in Europa il caffè (a Venezia viene aperta in quegli anni la prima

“bottega del caffè”) e il tè (nel 1632). Papi e principi dispongono di cuochi personali e nascono le prime figure “professionali”, co- me quella di Domenico Romoli, scalco (cioè addetto al taglio delle carni di macelleria per le tavole nobiliari) e direttore del servizio di mensa.

Il Settecento

Nel Seicento inizia l’era dei grandi cuochi, la carne viene cotta per molte ore e i sapori delle vivande sono valorizzati con un uso at- tento di erbe. Nelle regioni settentrionali italiane si usa il grasso di maiale, in quelle meridionali l’olio, mentre il burro è riservato sol- tanto ai nobili.

In Francia si affinano le tecniche e i piatti, si stampano i primi menu e, nel 1688, Dom Perignon scopre un metodo innovativo (champenoise) per produrre vino: nasce lo Champagne. Si conso- lida l’egemonia della cucina francese sul mondo civilizzato ed è il secolo dei grandi cuochi che, presso re e nobili signori, acquistano sempre maggiore influenza.

Alla corte di Luigi XIV (1638-1715), il Re Sole, il pasto quotidia- no divenne un rito solenne: il “Grand Souper”. A mezzogiorno il re, in presenza di un pubblico di cortigiani, gustava quattro minestre, un fagiano, una pernice, insalata di legumi, castrato in umido, pro- sciutto, dolci, frutta e uova sode per concludere. Tutto presentato

Vatel, che fu artefice di banchetti spettacolari e raffinatissimi, è ricordato soprattutto (e ingiustamente) per il suo suicidio, avvenuto nel 1671 in occasione della visita di Luigi XIV alla residenza di Chantilly. Il tragico gesto, secondo le cronache di allora, fu determinato dagli inconvenienti che si verificarono durante il banchetto: l’arrosto, per esempio, non era sufficiente per tutti e Vatel visse l’episodio come un disonore.

A peggiorare la situazione, il cielo nuvoloso aveva compromesso lo svolgimento dello spettacolo dei fuochi d’artificio, e la fornitura di pesce per i successivi banchetti, richiesta a tutti i porti, tardava ad arrivare. Così Vatel, temendo di perdere sia la reputazione che l’onore, salì in camera sua, appoggiò la spada alla porta e si trapassò il petto.

Le cronache riportano che, proprio mentre Vatel moriva, alle porte cominciavano ad arrivare, in abbondanza, i carichi del pesce ordinato...

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in piatti di finissima porcellana. Decine di esperti erano incaricati di sovrintendere ai lavori di cucina che raggiungevano l’apice durante le grandi feste.

Tra questi va ricordato il maître d’hotel Louis de Béchamel (1630-1703). Di famiglia aristocratica, gli si attribuisce l’invenzione della famosa salsa, anche se in realtà pare che la bechamelle sia di origine più antica, perfezionata da un cuoco personale del re e de- dicata al maître.

Un altro nome famoso all’epoca è quello di François Vatel, orga- nizzatore e amministratore di cucina al servizio del sovrintendente alle finanze del regno di Francia, Fouquet, e del Principe di Condé.

A lui si deve la prima crema Chantilly, così chiamata in onore del castello omonimo del Principe di Condé.

In Italia, Antonio Latini, di professione scalco, ovvero primo chef nelle corti papaline, e poi sovrintendente alla corte spagnola di Napoli, ha il merito di aver elevato il pomodoro da elemento de- corativo delle tavole a ingrediente protagonista delle pietanze. Nel suo Lo scalco alla moderna, ovvero l’arte di ben disporre i conviti del 1694, oltre a dare indicazioni sulla cottura e disposizione dei cibi, illustra le regole e la dignità della scalcheria e la sua personale asce- sa, da mendicante nelle Marche a servo cardinalizio a Roma. Se questa era la condizione dei re e dell’aristocrazia, ben diversa era la situazione per i ceti inferiori. Tra il XVII e il XVIII secolo, l’Europa fu colpita, a più riprese, da carestie ed epidemie che, letteralmente, decimarono la popolazione.

Vennero allora estese le coltivazioni nei territori ancora allo sta- to naturale, in particolare di quelle maggiormente produttive, co- me mais, riso e patate, che rappresentarono il principale sostenta- mento delle popolazioni più povere, ma con conseguenze dramma- tiche dovute alle malattie per carenze alimentari e alla morte per

“mononutrizione” (la pellagra era diffusa tra coloro che si nutriva- no quasi esclusivamente di polenta di mais).

Così, mentre nelle corti reali si scoprivano le dolcezze della pa- sticceria (è del XVIII secolo il metodo per ottenere zucchero in forma solida dalla barbabietola) e facevano la loro comparsa mar- ron glacé, dragée e praline, il mondo si avviava verso la fine del- l’Ancien Régime.

Progressivamente si andavano affermando le rivoluzioni econo- miche fondamentali dell’era moderna: la rivoluzione agraria, con la rotazione delle colture per non impoverire il terreno, e la rivoluzio- ne industriale.

Nel 1795, Nicholas Appert inventa un metodo per conservare il pesce in piccoli recipienti attraverso un processo di sterilizzazio-

“Lo scalco alla moderna” di Antonio Latini.

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ne ottenuto immergendoli nell’acqua bollente. È l’invenzione della

“scatoletta”: durevole, facilmente trasportabile e perfetta per nu- trire il marinaio o il soldato. Nel frattempo, mentre in Francia la storia prepara la Rivoluzione del 1789, la cucina francese continua a dettare legge, dando origine alla ristorazione moderna.

E infatti il ristorante, come inteso oggi, può essere considerato un’invenzione parigina della seconda metà del Settecento, diffu- sa, pochi decenni dopo, in tutta Europa. Secondo le cronache del tempo, fu un certo Boulanger che, nel 1765, iniziò a vendere nel suo locale cibi cotti e un ottimo brodo “ristoratore” ( da cui sembra essere derivato il termine ristorante). La novità, semplice e straor- dinaria, è l’offerta di pasti da consumarsi sul posto, seduti ai tavoli.

Fino ad allora, infatti, i viandanti potevano farsi servire un pasto soltanto nelle locande per viaggiatori e negli spacci di vino e birra.

In realtà, già da circa un secolo esistevano caffè, pochi e raffinati, dove la borghesia e i più mondani potevano gustare dolci elaborati, cioccolata e tè.

Più diffuse, alla fine del Settecento, erano le londinesi tavern che, contrariamente a quanto può far pensare il nome, erano fre- quentate anche dall’aristocrazia e, spesso, gestite con bravura da cuochi francesi. Molti di loro, infatti, erano rimasti senza occupa- zione dopo che la Rivoluzione francese aveva fatto scappare i no- bili, loro padroni.

Jan Steen: “Leaving the Tavern”.

Quelli a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento sono anni di gran-

di trasformazioni, politiche e sociali, i cui effetti si ripercuoteranno

per tutto il secolo successivo, anche nella storia della cucina.

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Sono gli anni di cuochi che proseguono – aggiornandola – la tra- dizione di Vatel nelle più ricche corti europee, come Carême, e di

“uomini nuovi” come Ritz ed Escoffier, i padri del nascente turismo alberghiero d’élite.

Marie-Antoine Carême (1783-1833) è forse il più celebre cuoco di tutti i tempi: le sue salse sono ancora usate in quasi ogni parte del mondo e ha contribuito in modo sostanziale all’affermarsi del servizio alla russa (che prevede la successione delle portate secon- do un preciso ordine).

Apprendista dal migliore pasticciere di Parigi, si fa strada fino a diventare il cuoco del potentissimo ministro degli esteri di Na- poleone, Talleyrand. Per 12 anni Carême è al suo servizio e Tal- leyrand lo porta con sé nelle più ricche corti d’Europa. A servizio poi dello zar Alessandro I di Russia (secondo alcuni come spia di Talleyrand), del Principe Reggente d’Inghilterra, a Brighton, e dei Rothschild, i più potenti banchieri d’Europa, lasciò molti scritti tra cui Le patissier royal parisien, Le maître d’hôtel français e, so- prattutto, L’art de la cuisine française au XIX siècle in cinque vo- lumi.

Marie-Antoine Carême ha codificato e semplificato lo stile de- finito “alta cucina”, caratteristico dei grandi ristoranti e hotel del mondo occidentale. A lui dobbiamo, tra le altre cose, l’invenzione dei vol au vent.

Prima di Boulanger, a causa delle corporazioni risalenti al Me- dioevo, ciascun bottegaio poteva vendere un alimento specifico (pane o vino o carne...) e l’acquirente faceva il giro dei negozi e consumava a casa propria quanto acquistato.

Nel 1782 viene aperta La grande taverne de Londres, il primo ve- ro ristorante di Parigi. Antoine Beauvilliers, dopo essere stato chef di cucina del Conte di Provenza, si lancia in questa avventura che riscuote un enorme successo fino al 1825. Come Beauvilliers, mol- ti cuochi, professionisti ma senza lavoro, affiggono le loro insegne alla porta di nuovi locali. I ristoranti nascono e prosperano perché esiste già una potenziale clientela: è la nuova borghesia fatta di commercianti, piccoli produttori agricoli e industriali.

Gli ultimi secoli

Il XVIII secolo è caratterizzato da viaggiatori incuriositi non solo dalle bellezze dell’arte e dei panorami dei Paesi visitati, ma anche dalla loro cucina, che diffondono esperienze e conoscenze gastro- nomiche. L’epoca coloniale fa scoprire nuovi alimenti come mango, arachidi, ananas. Sulle tavole più raffinate compaiono le prime sal-

Tissot: “The artist’s ladies”.

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se, si sperimentano nuovi abbinamenti (il vino per insaporire le cot- ture), vengono realizzati gelatine e ragù. I piatti delle famiglie con- tadine, preparati secondo le tradizioni locali e con gli ingredienti del territorio, diventano la base di quella che, molti anni dopo, pren- derà il nome di “cucina locale” (o tipica).

Nascono le prime forme di ospitalità, all’inizio in semplici locan- de. Mangiare lontano dalla propria abitazione era allora una neces- sità per artigiani, e anche semplici contadini, che dovevano rag- giungere mercati e fiere per vendere o scambiare le proprie merci e instaurare rapporti d’affari. E gli affari si concludevano spesso seduti a tavola, dove non era difficile fare nuove conoscenze, per- ché “plures amicos mensa quam mens concipit”, “cattura più amici la mensa che la mente” ricorda una massima latina.

Nell’Ottocento, con lo sviluppo delle attività industriali, compaio- no le prime cucine a gas, si scoprono e applicano nuovi metodi di conservazione e refrigerazione e si inizia a produrre la margarina.

Pellegrino Artusi (1820-1911) scrive un “manuale pratico per le fami- glie” che diventerà famosissimo con il titolo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, con ricette raccolte soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna, integrate con quelle di altre regioni, divulgando così in Italia l’arte dei piatti regionali in un tentativo (il primo in asso- luto) di proporre una cucina nazionale. In Francia, intanto, Auguste Escoffier (1846-1935), grande innovatore delle cucine d’albergo, po- ne le basi della cucina moderna. Escoffier, nel 1865, comincia a la- vorare al Petit Moulin Rouge di Parigi. La sua storia, in realtà, inizia quando il cuoco ha già 34 anni e una buona carriera alle spalle.

Nel 1880, infatti, incontra César Ritz, il grande hôtelier il cui no- me diventerà sinonimo di lusso ed eleganza. Qualche anno dopo, abbandonato dallo chef del Grand Hôtel di Montecarlo, Ritz chia- ma Escoffier in aiuto. Nel 1889, i due sono al Ritz di Londra e ser-

La sala da tè del celebre Hotel Ritz di Londra.

Auguste Escoffier.

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vono la nuova aristocrazia del denaro, quella dei banchieri: i Roth- schild, i Vanderbilt, i Morgan.

Escoffier è oggi riconosciuto come il più importante chef del- l’epoca borghese. Perfetto organizzatore di servizi di ristorazione, a lui, vero propugnatore della cucina francese nel mondo, si devo- no la riorganizzazione della cucina e la composizione dei moderni menu. Ad Auguste Escoffier è anche fatto risalire il vezzo, divenu- to eccessivo nelle infinite imitazioni, di ornare ogni piatto con una spruzzata finale di prezzemolo tritato.

Il XIX secolo vede la stampa di un libro: la Fisiologia del gusto di Jean Anthelme Brillat Savarin.

Magistrato e gastronomo, costretto all’esilio dopo la Rivoluzione, era rientrato in Francia solo rinunciando a tutti i propri averi e, da quel momento, si era dedicato allo studio e, soprattutto, all’arte culinaria. Il suo obiet- tivo era rendere la gastronomia una vera scienza, met- tendola in relazione con la chimica, la fisica, l’anatomia e la medicina.

La Fisiologia del gusto non è un libro di ricette, ma di meditazioni, e tratta della filosofia del gusto, dell’im- portanza del cibo come mezzo per elevare l’uomo in senso spirituale, passando anche attraverso la soddisfa- zione dei sensi.

Henry Brillat Savarin, all’epoca il più grande ristoratore di Parigi, ebbe l’idea di proporre cibi ricercati, ma propri della tradizione culi- naria francese, da gustare in sale raffinate, con un notevole rispar- mio sul conto finale perché i clienti potevano scegliere, dal menu, soltanto le preparazioni e i piatti più graditi.

Nel 1900 nasce la Guida Michelin, la prima a offrire ai viaggia- tori buongustai un elenco dei migliori ristoranti, diviso per località, tipologia e caratteristiche. I mutamenti sociali e le due guerre mon- diali unificano in gran parte la cucina della classe nobile e borghese e i piatti sono legati ai prodotti del territorio.

Alla fine degli anni Cinquanta, in Francia, si creano nuove com- binazioni di piccole quantità di cibo presentato artisticamente e guarnito con gli stessi ingredienti della ricetta: nasce quella che due giornalisti esperti in gastronomia definiscono Nouvelle Cuisine: è la riscoperta della semplicità, con tempi più brevi di cottura delle pre- parazioni e l’uso di quanto offre il mercato (stagionalità).

Con gli anni Sessanta, nell’era della conquista dello spazio, la so- cietà è in via di trasformazione (sempre meno contadina e sempre più “cittadina”). Cambiano le abitudini alimentari: il tempo diven- ta più prezioso, il cibo è consumato cercando di non sacrificare gli orari lavorativi. Il pasto subisce una “sintetizzazione”, con piatti

Edizione originale dell’opera “Fisiologia del gusto” di Jean Anthelme Brillat Savarin.

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semplici, preparati senza concedere molto alla fantasia, si frequen- tano trattorie e ristoranti che diventano anche punti di aggregazio- ne sociale. Si scopre la praticità dei liofilizzati (inventati nel 1955), delle scatolette e dei tetrapack, dei surgelati (nel 1986 ne vengono consumati circa 300 mila tonnellate).

I piatti della tradizione familiare sono preparati più raramen- te perché richiedono lavorazioni lunghe e ingredienti genuini non sempre disponibili. Per salvaguardare i princìpi della cucina del no- stro Paese e, con essi, la storia, la tradizione, l’identità di un popo- lo, ma con attenzione verso le nuove tendenze, nel 1953 viene fon- data a Milano l’Accademia italiana della cucina.

All’inizio degli anni Settanta nascono modelli di cucina rapida, con sistemi di cottura a vapore, a microonde, sottovuoto.

Occorre arrivare ai primi anni Novanta per riscoprire il piacere dello slow food, il “mangiar lento” gustando prodotti selezionati per bontà e genuinità. Gli alimenti bio e tradizionali conquistano fette sempre più ampie di mercato e si riscopre il piacere di mettersi a ta- vola con intelligenza, non solo per riempire lo stomaco. Contem- poraneamente si sviluppa un turismo anche gastronomico, affian- cato da un gran numero di guide e riviste specializzate.

La cucina si assoggetta ai principi della dietetica, come quelli della dieta mediterranea ma, nello stesso tempo, nascono (e scom- paiono) nuove forme di cucina, qualche volta esasperate e di effet- to, spesso ideate a scopo pubblicitario per il lancio di un nuovo ri- storante o come ricerca gastronomica fine a se stessa.

Oggi, accanto alle pizzerie e ai ristoranti pugliesi, toscani, pie- montesi, vengono inaugurati nuovi locali indiani, cinesi, vietnami- ti, messicani... : la multiculturalità gastronomica è una nuova real- tà, inarrestabile nel suo sviluppo, che permette di conoscere popoli lontani attraverso un atto (apparentemente) semplice come nutrir- si, ma altrettanto importante perché, come ha scritto il gastrono- mo Brillant Savarin, “la scoperta di un nuovo manicaretto è più pre- ziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella”.

L’Italia

La fine Ottocento

Per tutto il Seicento e il Settecento, fino agli inizi dell’Ottocento, l’I- talia è un Paese marginale rispetto alle grandi monarchie europee.

Divisa in piccoli Stati autonomi, legati ai vari principi europei, ten- ta di riprodurre in piccolo la vita di corte dei grandi re e delle regine d’Oltralpe. Ma la sua divisione in piccoli Stati, il suo essere la terra dei mille campanili, favorisce lo sviluppo di numerose ricette territo- riali, di piatti che valorizzano il poco e il tanto che la terra può offrire.

Andy Warhol: “Campbell’s Soup”.

L’Illuminismo faceva appello ai “lumi” della ragione e della scienza e affermava che l’uomo doveva essere cittadino del mondo senza distinzione di razza, sesso, religione e classe sociale, che il progresso doveva servire a liberarlo dall’ignoranza, che il sapere è strumento di miglioramento per l’umanità. Da questo atteggiamento nascerà la scienza economica e la rivoluzione industriale.

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Con l’inizio del Risorgimento, che porterà all’unificazione dell’Ita- lia, i grandi ideali illuministi entrano in un processo di maturazione politica da cui nascerà, nel 1870, uno Stato libero, unitario e laico:

ma se il territorio è unificato, non lo è la popolazione che lo abita.

Pellegrino Artusi, originario di Forlimpopoli, nel 1891 fa il primo tentativo di riunire le ricette regionali e pubblica un manuale per fa- miglie, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, in cui raccoglie le ricette soprattutto dell’Emilia Romagna e della Toscana.

Il suo grande merito è aver definito il primo lessico unificato della cucina italiana: per fare solo un esempio, le melanzane, prima di lui, avevano un nome diverso e dialettale in ciascuna contrada italiana.

Grazie alla nascente industria, e all’utilizzo di trafile di bronzo, la pasta secca diventa cibo popolare e, da contorno, si trasforma in primo piatto se non piatto unico.

Ma la reale unificazione nazionale italiana si avrà solo con la prima guerra mondiale (1915-1918). Nelle trincee trovano rifugio giovani provenienti da ogni città, tutti a condividere lo stesso “rancio” ovvia- mente di impronta piemontese: lesso, riso e minestre di verdura.

“I mangiatori di spaghetti” in una cartolina del 1927.

Il Novecento

Dalla cucina futurista alla tessera annonaria

Nel periodo tra le due guerre mondiali trovano applicazione le in- novazioni introdotte dall’industrializzazione.

Dalla fine dell’Ottocento si diffondono l’uso del gas, i forni do- mestici e le pentole di alluminio. Con la riapertura dei mercati, tor- nano a circolare i prodotti scomparsi durante la guerra.

La coltivazione del pomodoro aumenta nel Paese e, grazie all’in- dustria conserviera Cirio, i pomodori San Marzano in scatola arri- vano in tutta Italia.

La trafilatura rappresenta una fase molto importante della produzione della pasta che passa, quando è ancora un semplice impasto, attraverso un macchinario in bronzo o alluminio, detto appunto trafila, che le dà la forma e una certa rugosità in superficie in modo da trattenere meglio il condimento.

Le trafile in plastica rendono invece la superficie della pasta completamente liscia.

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Se la gente comune stenta a riprendersi dalle ristrettezze della guer- ra e dalle gravi carestie dell’Ottocento, gli intellettuali hanno fame di novità.

Nasce, nel dopoguerra, la prima rivista in Italia dedicata alla cu- cina: nelle pagine di La cucina italiana affermano le proprie opinioni nomi famosi come Pirandello, Bontempelli e Marinetti. Argomen- to di una delle discussioni è il confronto tra la cucina del Novecen- to e quella “futurista”.

Con il termine Futurismo si identifica un movimento artistico, nato in Italia agli inizi del Novecento.

Questa corrente di pensiero celebra l’amore per l’azione, la ve- locità, la tecnologia e la guerra.

Atto di nascita del movimento è la pubblicazione a Milano, nel 1909, del Manifesto del futurismo firmato dal poeta Filippo Tomma- so Marinetti.

In anni in cui si prepara la prima guerra mondiale, i futuristi si di- mostrano accesi nazionalisti. Nella contrapposizione che, in Italia, divide interventisti e neutralisti, i futuristi prendono rumorosamen- te le parti a favore della guerra.

Molti abbracciano entusiasticamente la nascita del fascismo che promette una rapida modernizzazione del Paese e si alimenta di un fortissimo orgoglio nazionale.

Soggetti ricorrenti delle opere degli artisti futuristi (pittori come Giacomo Balla e Gino Severini, scultori come Umberto Boccioni e Carlo Carrà, ma anche letterati, fotografi, architetti, esploratori della nascente arte cinematografica e, non ultimi, gastronomi) era- no il “futuro” e la modernità: i treni, gli aerei, le auto, le città indu- striali...

La cucina futurista si propone di rivoluzionare la gastronomia con una nuovissima e ardita concezione del cibo.

Un breve passaggio del Pranzo Musicale Autunnale riservato a due coppie in un capanno nel bosco, dal libro di Claudia Salaris Cibo Fu- turista: «(...) Poi, silenzio di un minuto. Poi, due minuti di ceci nell’olio e aceto. Poi, sette capperi. Poi, venticinque ciliegie allo spirito. Poi, dieci patatine fritte. Poi un silenzio di un quarto d’ora durante il quale le boc- che continueranno a masticare il vuoto (...)».

Acerrimo nemico della pasta che definisce cibo “passatista”, Marinetti vuole che anche in cucina si affermi il “nuovo”: un gusto basato non sul semplice soddisfacimento del bisogno di riempire lo stomaco, ma su quello di nutrire lo spirito attraverso ardite asso- ciazioni, suscitate dall’olfatto e dalla vista.

Marinetti era infatti alla ricerca di un gusto “elevato” che na- scesse non nello stomaco ma nel cervello, nella parola e nella poe- sia. Il cibo diventa sensazione, un’occasione di riflessione.

In alto: nelle case compaiono le prime cucine a gas.

In basso: copertina di un volumetto, che raccoglie brevi scritti dell’artista Marinetti, pubblicato nel 1927.

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L’intento di stupire e sconvolgere fa sì che la cucina futurista an- ticipi il cambiamento del gusto e delle pratiche culinarie che si af- fermeranno nella seconda metà del Novecento.

La cucina di Marinetti era destinata a estinguersi rapidamente sotto l’ideologia del fascismo.

Dopo la prima fiammata rivoluzionaria e la vittoria della Grande guerra, con le delusioni che ne seguirono, il fascismo, una volta in- sediatosi al potere, mostra il suo volto più conservatore, soprattutto nelle convenzioni sociali, nel ruolo della donna e anche in cucina.

La decisione del governo fascista di “conquistare un posto al so- le” porta, nel 1935, l’Italia a dichiarare guerra all’Etiopia. Le altre potenze europee non accettano questo colpo di mano e, riunite nella Società delle Nazioni (organismo nato alla fine della prima guerra mondiale con l’obiettivo di sanare i contrasti tra le nazioni a livello diplomatico), decidono di applicare alcune sanzioni all’Italia, bloccando il suo commercio con l’estero.

Questa misura, l’embargo, priverà le cucine ricche e povere di molti ingredienti provenienti dall’estero.

Comincia il periodo dell’autarchia, cioè del raggiungimento del- l’autosufficienza economica: il tè, per esempio, viene sostituito dal carcadè, il caffè dall’orzo, il cacao dalle carrube.

Questa fase, che durerà fino al secondo dopoguerra, sarà carat- terizzata nelle campagne da un’alimentazione fatta di cibi prove- nienti dal pollaio di casa e dai prodotti dell’orto, oltre che da fun- ghi, chiocciole, anguille, tordi e merli. In città si ricorre alla tessera annonaria imposta dal razionamento (assegnazione a ogni cittadi- no di una razione giornaliera fissa di generi alimentari) e al merca- to nero.

Nel frattempo le sanzioni economiche imposte all’Italia spingo- no Mussolini a cercare un avvicinamento con la Germania di Hi- tler, già uscita dalla Società delle Nazioni.

L’Asse Roma–Berlino è sottoscritto nel 1936: lo scoppio della seconda guerra mondiale è sempre più vicino.

Il boom economico

Il fantasma della fame perseguiterà gli italiani per diversi anni do- po la fine della seconda guerra mondiale, anche in pieno boom eco- nomico. La vera svolta è la riforma agraria del 1950, con l’abbat- timento del latifondo e la distribuzione della terra ai braccianti che diventano piccoli agricoltori, sfruttano a fondo i campi e acquista- no macchine e trattori, sostenendo in questo modo la crescita in- dustriale. Ma molti contadini vanno a lavorare nelle città, attratti da migliori condizioni di vita: cambiano gli orari e si ha sempre me- no tempo da dedicare alla preparazione dei pasti.

In alto: pubblicità del pastificio Mennillo.

Al centro: calendario Barilla, 1923.

In basso: pubblicità Buitoni, degli anni Venti.

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Con la diffusione della surgelazione, che arriverà nelle case degli ita- liani solo negli anni Sessanta, sulle tavole compaiono prodotti eso- tici e fuori stagione: la dispensa non dipende più da ciò che offre il mercato del giorno. Non a caso, in quel periodo, si diffondono i ri- cettari che non sono più “racconti di cucina”, suddivisi per stagione, ma strumenti per ottimizzare l’economia domestica. Con la firma del trattato di Roma, nel 1957, nasce la Comunità economica euro- pea (CEE) che unisce i sei Paesi firmatari (Francia, Germania, Ita- lia, Belgio, Danimarca e Lussemburgo) in un “mercato comune”.

Qualche anno dopo, la CEE introduce la “politica agricola co- mune” per un controllo della produzione alimentare: a tutti gli agri- coltori europei viene pagato lo stesso prezzo per i loro prodotti.

Se da un lato questa politica garantisce buoni guadagni e una produzione sufficiente al fabbisogno europeo, dall’altro si verifica un’eccessiva produzione poiché l’agricoltore, stimolato dagli in- centivi, perde il contatto con le effettive richieste del mercato.

Le industrie alimentari (e non solo) hanno sempre più bisogno di indirizzare i gusti della gente, spingendola ad acquistare un prodot- to piuttosto che un altro: la pubblicità, che fino ad allora aveva oc- chieggiato dalle pagine delle riviste, trova nella televisione un canale di penetrazione formidabile nelle famiglie, orientandone i consumi.

Dal punto di vista della gastronomia, questi anni sono un periodo abbastanza buio per la cucina italiana: si diffondono i primi ristoranti (diversi toscani aprono, in quel periodo, nuove insegne a Milano) ma le più frequentate restano le trattorie “fuori porta”. Alla loro condu- zione sono ex contadini che si improvvisano cuochi e che rovescia- no, sulle tavole di gitanti affamati, piatti approssimativi.

Con la progressiva diffusione dei trasporti veloci e di un turismo

“ricco”, vengono inaugurati alberghi di lusso (o palace) che offro- no, sul modello francese, stoviglie, corredi, servizio in tavola e ci- bo esclusivi. Cresce il turismo automobilistico e il nu- mero di esercizi ristorativi: nuove trattorie ripropongo- no, adattandoli ai gusti e alle possibilità economiche de- gli avventori, piatti regionali tipici. Piatti quasi uguali a quelli che già comparivano nei ricettari del Trecento e del Quattrocento, come le torte bolognesi e romagno- le, o le varie preparazioni “alla milanese”, “alla romana”

e “alla napoletana”. Ed è cosi che, attualmente, a fron- te di una ottima cucina francese “unitaria” e nazionale, l’Italia è conosciuta nel mondo proprio per la varietà dei suoi piatti regionali.

Negli anni Settanta e Ottanta cresce il numero di lo- cali dove nutrirsi in fretta con hamburger e altre prepa- razioni suggerite dalle mode del momento.

La sontuosa sala da pranzo del Trianon Palace di Versailles.

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La Nouvelle Cuisine

Sarà ancora la Francia a salvare l’alta gastronomia, grazie alla rivo- luzione iniziata da Paul Bocuse, Frédy Girardet e pochi altri.

La Francia, prima di Bocuse, è ferma alla cucina uscita dalla ri- voluzione francese. Piatti ricchi di salse, le famose “basi”, e largo uso di panna e burro: si servono pietanze imponenti nella prepa- razione, sofisticate nella cottura e di difficile digestione. Negli anni Sessanta, Paul Bocuse fa proprie alcune norme dietetiche: la me- dicina moderna diffonde informazioni importanti sul benessere che ricordano che i grassi fanno male e che le vitamine si corrompono nei procedimenti di cottura. Decide così di rimettere al centro del- l’interesse la materia prima. Egli definirà la sua scuola “la cucina del mercato”, volendo indicare che il punto di partenza non è la ricetta ma l’ingrediente.

Henri Gault e Christian Millau, due giornalisti che porteranno in Italia il concetto di guida gastronomica moderna, creando la Gui- da dell’Espresso, nel 1972 coniano il termine Nouvelle Cuisine che ancora oggi la identifica.

Le regole d’oro della nuova cucina sono:

cucinare, ogni giorno, solo il meglio disponibile sul mercato: pro- dotti tipici del territorio, di stagione e freschissimi;

ricercare una cucina leggera, povera di grassi, all’insegna della semplicità;

ridurre i tempi di cottura, scegliendo metodi rispettosi dell’inte- grità dei cibi;

abbandonare marinature e frollature troppo lunghe a vantaggio di salse leggere e digeribili;

sperimentare accostamenti insoliti e a volte azzardati, ma sem- pre “puliti” ed essenziali;

riproporre, aggiornandole, antiche ricette.

Nella cucina di Bocuse è evidente l’influsso giapponese, sia nella predilezione per il crudo, sia nella presentazione dei piatti.

L’altra sostanziale novità è, infatti, l’impiattamento: il cibo non viene più presentato in un unico vassoio di portata, ma già porzio- nato sul piatto che dovrà essere bianco come una tela, sulla quale il cuoco-pittore disporrà i cibi con un’armonia di forme e colori, tesa a soddisfare non solo il palato ma anche la vista.

La “riscossa” italiana

A raccogliere la sfida di Bocuse c’è, tra gli altri, l’italiano Gualtiero Marchesi che, nel 1977, apre a Milano il suo primo ristorante. Nel 1978 ottiene la prima stella nella Guida Michelin (l’incoronazione a

Alcune presentazioni tipiche della Nouvelle Cuisine.

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tre stelle l’otterrà solo nel 1985). Marchesi ha l’onore di aver porta- to gli insegnamenti della Nouvelle Cuisine in un Paese dove imper- versavano la cucina delle trattorie e i ricettari. I pochi buoni segnali arrivavano dalla diffusione crescente delle guide gastronomiche, pri- ma con la traduzione della Michelin e poi con la Guida dell’Espresso.

La cucina di Marchesi, che nel 1993 trasferirà il suo ristorante a Erbusco (in provincia di Brescia), ha l’originalità di applicare le tec- niche dell’alta cucina ai prodotti del territorio, senza distinzione tra materie prime ricche o povere.

A lui, e a tutti gli allievi formati alla sua scuola, va il merito di aver difeso l’alta cucina italiana in un periodo, gli anni Ottanta, di vera “barbarie gastronomica” segnata dall’invasione dei fast food, dall’apertura di ristoranti etnici improvvisati sull’onda dei flussi mi- gratori e, sostanzialmente, da un progressivo impoverimento della cultura del cibo.

Ma la lezione di Marchesi dà i suoi frutti: già negli anni Ottanta, Fulvio Pierangelini e la moglie Emanuela prendono la gestione di un piccolo ristorante da spiaggia a San Vincenzo (Livorno), chia- mato Gambero Rosso, e ne fanno uno dei ristoranti più premiati e riconosciuti d’Italia.

Nel 1986 nasce Slow Food, un’associazione senza fini di lucro che mira a tutelare e studiare le tradizioni agricole ed enogastrono- miche territoriali, inizialmente d’Italia e attualmente di ogni angolo del mondo, per consegnare i piaceri di oggi alle generazioni future.

Ma anche per ricordare che, nonostante i ritmi della vita quotidia- na siano sempre più concitati, si può ancora trovare il tempo per accomodarsi a tavola. A una buona tavola.

Gli anni Novanta

Una delle più recenti frontiere della gastronomia si chiama cucina molecolare ed è una cucina che si sposa alla scienza, in particolare alla fisica. Ne è considerato ideatore Pierre Gilles De Gennes, in- signito nel 1991 del Premio Nobel per la fisica, che nel 1992 aveva riunito chimici, biologi e cuochi con lo scopo di realizzare esperi- menti scientifici con gli alimenti. La cucina molecolare parte dalla ricerca di metodi alternativi di cottura, guardando a questo proces- so come una modificazione, appunto, delle molecole dell’alimento.

Il fine è la ricerca di nuovi sapori ma anche una valorizzazione del cibo, da un punto di vista sia nutrizionale che gastronomico.

Grazie a questi esperimenti, ad esempio, scopre che l’alcol può coagulare le proteine dell’uovo senza modificarne il sapore, per- mettendo quindi di gustare un uovo sodo che conserva la legge-

Locandina del Gambero Rosso.

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Riso e oro

di Gualtiero Marchesi

240 g di riso Carnaroli 60 g di burro

30 g di parmigiano grattugiato 1 cucchiaino di stigmi di zafferano 1 cucchiaio di cipolla tritata fine 1 dl di vino bianco secco 1 litro di acqua, sale 4 fogli d’oro

Ingredienti

per 4 persone

Preparazione 5’

Cottura 20’

Far tostare il riso in casseruola con 10 grammi di burro, bagnare con il brodo bollente, aggiun- gere lo zafferano e portare a cottura mescolan- do di tanto in tanto.

In una casseruola a parte, far sudare la cipol- la in 10 grammi di burro; versare il vino, far ridurre il liquido della metà, aggiungere il ri- manente burro ridotto a fiocchetti ed emulsio- nare con un frustino finché il burro non gua- dagna densità e spessore (l’operazione risulta

facilitata utilizzando un frullino elettrico a im- mersione).

Filtrare il burro emulsionato attraverso un coli- no per eliminare i frammenti di cipolla che han- no ormai ceduto il loro sapore alla salsa.

A cottura ultimata regolare di sale e mantecare il riso con il burro bianco e il parmigiano.

Disporre un foglio d’oro di 24 carati al centro di ogni piatto.

Vino consigliato: Franciacorta bianco.

Due creazioni che portano la firma di Ferran Adrià.

rezza e il profumo di quello crudo. Con l’azoto liquido (a -196 °C),

invece, si può ottenere un gelato istantaneo con intatte le proprie-

tà e il gusto dell’ingrediente fresco. Quando queste nuove tecni-

che escono dal laboratorio ed entrano in cucina nelle mani di un

grande chef, i risultati sono sorprendenti, come quelli ottenuti da

Ferran Adrià, pluripremiato cuoco spagnolo e campione della spe-

rimentazione.

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