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CAPITOLO 3: La conclusione del problema giuliano e il ritorno di Trieste. Le elezioni amministrative del 1952. 3.1 La fase statica del problema giuliano.

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CAPITOLO 3: La conclusione del problema giuliano e il ritorno di Trieste. Le elezioni amministrative del 1952.

3.1 La fase statica del problema giuliano.

A cavallo tra il 1951 e il 1952 si assiste ad una svolta nella politica alleata, a riguardo della questione triestina. “La nuova politica, con sfumature varie tra inglesi e americani, si basava su questi fondamenti: 1) in sede internazionale, si dovevano bilanciare mosse in favore degli italiani con successive mosse in favore degli slavi e viceversa, per non scontentare troppo né gli uni né gli altri. 2) Sempre in sede internazionale si doveva mirare ad una soluzione del problema di Trieste, scegliendo una delle due vie possibili: a) la spartizione secondo lo status quo, che si presentava facile, essendo la Zona A in mano agli Alleati (e, perciò, restituibile all’Italia) ed essendo la Jugoslavia disposta ad accettarla; b) una spartizione di tipo etnico, con compensi nella Zona A agli slavi e nella Zona B agli italiani, più difficile perché presupponeva un accordo diretto tra le due parti. […] 3) In sede locale, a Trieste, occorreva che gli Alleati portassero dei cambiamenti dai quali a noi risultasse evidente che il tempo non solo giocava a nostro sfavore in campo internazionale, con l’aumentare del prestigio di Tito, ma che pure la situazione in loco poteva evolvere a nostro danno e mettere a repentaglio anche la possibilità di restituirci la Zona A, restituzione che costituiva l’unico impegno concreto contenuto nella Dichiarazione Tripartita, mentre, per quanto concerneva l’intero TLT, essa era solo una proposta. Tali cambiamenti si dovevano svolgere in due settori: a) favorire gli indipendentisti, che ben poco forza avevano o avrebbero potuto avere a Trieste, considerato che l’italianità della

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popolazione era basata su un sentimento irrazionale e, perciò, invulnerabile. Se le elezioni avessero dato un risultato favorevole, la volontà popolare avrebbe potuto far comodo agli Alleati, sostenendo ch’essa era superiore ad ogni impegno diplomatico, ivi compresa la Dichiarazione tripartita; b) iniziare un comportamento del Governo Militare Alleato, equidistante tra i due gruppi etnici, mentre prima, in relazione alle affermazioni della Dichiarazione del 20 marzo 1948 ed al fatto che la popolazione della Zona A era per oltre l’80% italiana, il comportamento in questione era stato a noi più favorevole; c) affermare che la parte anglo-americana (e, implicitamente, quella jugoslava) del TLT era un’entità giuridica ben diversa dall’Italia e da essa completamente autonoma in campo internazionale, in modo che la Zona A rimanesse moneta di scambio, da far valere nei nostri riguardi in occasione di eventuali trattative internazionali”246.

Primi passi reali della svolta furono: le pressioni alleate affinché prendesse avvio un negoziato italo-jugoslavo e il cambio alla guida del GMA con la nomina del Generale Winterton al posto del Generale Airey.

Si giunse così ad una lunga serie d’incontri, sette per la precisione, tra l’ambasciatore italiano all’ONU Gastone Guidotti e il suo omologo jugoslavo Aleš Bebler, tra il 21 novembre 1951 e l’11 marzo 1952, terminati in un sostanziale nulla di fatto. Il fallimento degli incontri si dovette alla scarsa convinzione delle due parti nel ricercare una soluzione congiunta, preferendo non scostarsi dalle rispettive posizioni, con l’accortezza di fare tutto il possibile per scaricare la responsabilità del fallimento sull’avversario. Inutile quindi fu il tentativo di Bebler di proporre

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una rosa di soluzioni come “la spartizione secondo la linea di demarcazione con leggere modifiche (il 21 novembre); uno sbocco al mare per la Jugoslavia nella zona di Muggia, Zaule e Servola, compreso il centro ferroviario di Opicina, prospettando la possibilità della concessione di Capodistria in Zona B quale contropartita (l’8 ed il 26 gennaio); la costituzione del TLT senza il controllo dell’ONU, con governatori, dopo una fase transitoria, italiano e jugoslavo alternatisi per periodi triennali (31 gennaio)”247. Guidotti cercò di replicare alle proposte jugoslave avanzando “l’idea di un plebiscito, che il 26 marzo il governo jugoslavo si dichiarò disposto ad accettare dopo, però un periodo di almeno 15 anni di «normalizzazione» della situazione etnica alterata dopo il 1918, durante il quale il TLT avrebbe dovuto essere amministrato secondo le linee della proposta del 31 gennaio”248.

Sebbene il nuovo fallimento degli incontri italo-jugoslavi non inducesse all’ottimismo, gli Alleati erano sempre più convinti della necessità di risolvere al più presto la questione triestina, pressati da un lato dall’opinione pubblica internazionale rimasta turbata dagli scontri del 20 marzo e, dall’altro lato, dalla richiesta italiana di convocare una conferenza per discutere l’avvenire della Zona A.

. Il 3 aprile 1952 si aprirono a Londra i lavori della “Conferenza per la Zona del TLT” tra i rappresentanti angloamericani e quello italiano249. In data 4 aprile la delegazione italiana presentò un piano in dieci punti in cui si richiedevano: “il passaggio dell’amministrazione civile, incluso il direttore generale, agli italiani; il controllo, in tale contesto, delle forze di polizia; l’uso

247 Massimo De Leonardis, La “diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste,

Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pag. 53.

248 Ivi, pag. 54.

249 I rappresentanti furono Pierson Dixon, vice segretario al Foreign Office, il Ministro

americano a Londra Holmes e l’ambasciatore italiano a Londra Manlio Brosio (coadiuvato dai diplomatici esperti in materia Casardi, Theodoli e Bacchetti).

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della bandiera italiana sugli edifici pubblici; l’ingresso in Zona di un contingente anche simbolico di truppe italiane e l’inquadramento delle forze presenti a Trieste nella struttura del Comando supremo alleato dell’Europa (SHAPE), cosicché esse sarebbero dipese dal generale italiano titolare del Comando delle forze terrestri alleate del sud Europa (LANDSOUTH) con sede a Verona”250. Le richieste italiane riguardanti ordine pubblico, truppe e bandiera furono subito respinte. Il 17 aprile, durante una pausa dei lavori della conferenza, fu fatto pervenire all’Italia il testo con la proposta anglo-americana, che fu immediatamente bocciata come insufficiente dall’ambasciatore italiano. Il 21 aprile gli Alleati presentarono un nuovo testo che “riproduceva, più o meno, quello vecchio, nella parte introduttiva, ma conteneva sensibili miglioramenti di carattere sostanziale. […] Era ammessa la nomina di un Direttore italiano per gli affari interni le cui funzioni dovevano ripetere, in pratica quelle del Direttore generale degli affari civili del GMA, allora esistente. Il nuovo Direttore avrebbe avuto, sotto di sé, il Direttorato dell’interno (già in funzione) e quello dell’economia e finanza. Tale nuovo Direttore sarebbe stato alle immediate dipendenze del Comandante della Zona ed unico tramite tra quest’ultimo e gli uffici civili. Di conseguenza, nei vari rami dell’amministrazione civile, sarebbero stati aboliti gli ufficiali di collegamento, prima previsti. Infine, il controllo alleato sul movimento delle merci per l’estero sarebbe stato limitato a quello relativo alle restrizioni previste dal COCOM, con esclusione dell’ordinario traffico internazionale”251.

Il nuovo testo, seppur rappresentasse per l’Italia un miglioramento considerevole rispetto a quanto preventivato dal

250 Ivi, pagg. 81 - 82.

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testo del 17 aprile, non soddisfaceva la delegazione italiana a causa dei continui richiami al Trattato di Pace. Cosicché, allorquando il ministro degli esteri inglese Anthony Eden propose, prima di passare alla redazione degli articoli della dichiarazione comune, di procedere al riconoscimento comune di alcuni principi relativi alla base giuridica dell’autorità del Comandante di Zona, si scontrò con il secco rifiuto della delegazione italiana. Il 29 aprile fu presentato un terzo piano anglo-americano nel quale si riprendevano le concessioni fatte in precedenza, ma si lasciavano in sospeso: l’assicurazione dei diritti civili e delle libertà fondamentali; il ruolo del funzionario italiano preposto all’amministrazione; il controllo del porto e delle telecomunicazioni.

Lo stesso giorno l’ambasciatore italiano a Londra Manlio Brusio, capo della delegazione italiana, facendo il punto della situazione osservava che “le concessioni principali da noi fatte, rispetto ai principi sostenuti, erano tre: l’indicazione «Territorio Libero di Trieste» nell’intestazione, il riferimento al Trattato di Pace, il mantenimento di tutti i poteri di governo da parte del Comandante della Zona. Ma erano riconoscimenti di fatto e non di diritto ed era stata tolta la citazione del proclama n. 1 del 15 settembre 1947252. L’organizzazione dell’amministrazione civile era stata ottenuta, come da noi voluto; non era stato accettato, nel documento, agli uffici che rimanevano agli Alleati; il Comandante di Zona non avrebbe potuto creare nuovi uffici; per contro avevamo ceduto, da parte nostra, nel concedere al Comandante stesso l’autorità di mettere in esecuzione l’accordo. L’istituzione del consigliere politico italiano avrebbe portato al vantaggio di eliminare l’incongruenza data dal fatto che la Missione italiana a

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Trieste aveva avuto, fino ad allora, l’aspetto di una rappresentanza diplomatica in patria. […] Nel complesso giudicava i risultati favorevoli per l’amicizia dell’Italia con gli angloamericano e per la situazione di Trieste”253.

Il giorno successivo, 30 aprile, si giunse all’accordo definitivo, e circa i punti rimasti in sospeso si convenne che il ruolo del funzionario italiano fosse quello di Direttore superiore dell’amministrazione, mentre, per ragioni di sicurezza, le poste, le telecomunicazioni e il porto rimanessero sotto il controllo alleato. Il 2 maggio il Consiglio dei Ministri italiano esaminò il testo dell’accordo e, seppur consigliando una serie di piccole modifiche da compiersi, diede il suo nullaosta. Il 9 maggio si giunse così alla firma degli accordi di Londra, sulla base dei quali “la responsabilità dell’amministrazione di Trieste continuerà ad essere esercitata dal GMA nella persona del comandante della Zona A generale Winterton, affiancato però da tre consiglieri politici in rappresentanza dei governi di Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia. Si conviene che il Governo italiano effettuerà la sottoelencata serie di nomine, a sua volta: un consigliere politico presso il comandante della zona (che sarà poi il prof. Diego De Castro); un direttore superiore dell’amministrazione civile presso il comandante della zona (sarà nominato il dott. Vitelli con rango di prefetto); 21 funzionari italiani nominati da Roma in accordo con il generale Winterton, da inquadrare a livello amministrativo nel GMA. […] In seguito a questo Primo Accordo di Londra, si hanno tre conseguenze immediate: mutamenti amministrativi nella zona A in maniera diretta e nella Zona B in forma indiretta; l’accordo solleva la questione dei diritti delle minoranze slovena nella Zona A ed

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italiana nella Zona B; l’accordo esacerba le trattative dirette italo-jugoslave durante questo periodo. Riguardo al primo punto, viene adottata la legge elettorale italiana per le elezioni amministrative nella Zona A ed il GMA si riorganizza in modo diverso”254.

Tutto questo scatenò l’ovvia reazione jugoslava. Tito l’11 maggio “definì l’accordo una «grave violazione del trattato di pace con l’Italia» e una «vergognosa ingiustizia fatta alla Jugoslavia»”255. Alle parole del Maresciallo fecero seguito un promemoria “nel quale si dichiarava che le intese di Londra erano «destinate a dare un maggior riconoscimento pratico al carattere

prevalentemente italiano» della Zona A”256, e che “questa

dichiarazione significava l’abbandono del principio, fino ad allora riconosciuto, dell’uguaglianza delle popolazioni italiana e slovena, principio garantito dal trattato di pace con l’Italia”257.

Dal canto suo il governo di Roma poteva ritenersi soddisfatto del risultato ottenuto, giacché “gli obiettivi proposti dal governo italiano erano stati raggiunti. La soluzione concerneva anche la Zona B, nel senso che, nei riguardi della decisione finale per l’intero TLT nulla era compromesso. Era stato evitato, perciò, durante le conversazioni, qualunque accenno che potesse ripercuotersi sulla zona stessa o portasse ad interpretazioni di situazioni giuridiche; l’accordo si basava, dunque, sulla sola situazione di fatto. […] I funzionari italiani del GMA sarebbero passati da 5 a 21 e Trieste sarebbe stata governata «italianamente»”258. Infine, la nuova organizzazione del GMA sarebbe dovuta entrare in funzione il 15 luglio, ma il governo

254 Mainardo Benardelli, La questione di Trieste. Storia di un conflitto diplomatico (1945-1975), Udine, Del Bianco Editore, 2006, pagg. 89-90.

255 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 371. 256 Ibidem.

257 Ivi, pag. 372.

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italiano tardò a sottoporre i nomi dei suoi funzionari da nominare, cosicché la data slittò al 1° settembre.

Gli accordi di Londra si rivelarono però un illusorio successo per l’Italia. Infatti, non allontanarono dalle cancellerie occidentali l’idea della necessità che si giungesse ad un accordo bilaterale tra le due parti interessate, così come non rallentarono il processo di avvicinamento della Jugoslavia all’Occidente.

Durante l’estate gli Alleati fecero pressioni su Tito, culminate nella visita di Eden a Belgrado, affinché ammorbidisse la sua posizione. Lo stesso ministro degli esteri inglesi, di ritorno da Belgrado, propose a Washington di imporre una soluzione all’Italia e alla Jugoslavia, per cui la Zona A sarebbe stata assegnata all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia, ma la proposta inglese non fu accettata dagli Stati Uniti che, alla vigilia delle elezioni politiche italiane, preferirono non esercitare pressioni su Roma.

All’inizio di dicembre fu il Dipartimento di Stato americano a presentare un proprio piano, dove si prevedeva l’assegnazione all’Italia della Zona A unitamente al comune di Capodistria, mentre alla Jugoslavia sarebbe spettata l’intera Zona B e alcuni villaggi lungo il confine. “Il piano americano rivela alcuni spunti di notevole interesse ed originalità, ma sia la Gran Bretagna che la Francia non ne rimangono entusiaste, […] l’Italia, una volta informata di tale piano, lo dichiara inaccettabile”259.

Alla luce di questi avvenimenti alcuni dei principali diplomatici italiani avevano cominciato a mettere in discussione la politica sino allora adottat. Fra essi, in particolare, l’ambasciatore a Londra, Tommaso Gallarati Scotti, e quello a Parigi, Pietro Quaroni, cominciarono a sostenere che il permanere del rifiuto di

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aprire ogni contatto diretto con la Jugoslavia e il desiderio di restare legati al rispetto della dichiarazione tripartita avrebbe nel lungo periodo nuociuto all’Italia. I due ambasciatori proponevano dunque di accettare la possibilità di un accordo diretto con Belgrado. A questo fronte si contrapponeva l’asse composto dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dall’ambasciatore a Washington Alberto Tarchiani convinti sostenitori che i diritti italiani dovessero per forza prevalere e che l’eventuale apertura di negoziati diretti non avrebbe comunque portato a risultati positivi e anzi sarebbe stata deleteria in termini di consenso dell’opinione pubblica, per il governo. Sintetizzando si può così sostenere l’esistenza di due linee di pensiero all’interno della diplomazia italiana su come giungere alla soluzione del problema giuliano: “Una realista, rappresentata a Londra dall’ambasciatore Brusio, e dal suo predecessore in sede Gallarati Scotti260; una idealista, rappresentata dall’ambasciatore a Washington Tarchiani. […] La posizione diplomatica realista aspira ad una divisione «provvisoria» delle Zone A e B, mentre quella idealista vuole ottenere interamente la zona A e parte della Zona B. In quale modo? Gli Americani, in quest’ottica, avrebbero dovuto effettuare pressioni sulla Jugoslavia per ottenere Trieste (in questa visione Trieste avrebbe costituito un affare più importante per l’Occidente che non un allineamento della Jugoslavia sulle posizioni occidentali, in piena «guerra fredda») e, secondariamente, la Jugoslavia avrebbe ceduto facilmente a tali pressanti richieste americane: questa bizzarra iniziativa fu presa da Tarchiani su

260 La spaccatura sulla linea da perseguire portò Gallarati Scotti a dimettersi in aperta

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posizioni del tutto personali, senza istruzioni né, quel che è più grave, appoggio successivo del proprio Governo”261.

Nel febbraio 1953 la nuova amministrazione americana repubblicana, attraverso il neosegretario di Stato John Foster Dulles, preparò una nuova proposta più favorevole all’Italia. “Con essa veniva offerta all’Italia tutta la costa della Zona A e inoltre i comuni di Capodistria, di Isola e di Pirano nella Zona B. LA Jugoslavia avrebbe ottenuto il resto della Zona B e i comuni sloveni di Sgonico e Monrupino, il villaggio di Basovizza e il comune di San Dorligo della Valle nella zona A con un striscia di territorio fino alla baia di Pirano. Inoltre gli Stati Uniti promettevano di indurre la Jugoslavia ad accettare l’intera proposta senza cambiamenti (clausola ne varietur), se l’Italia l’avesse approvata. La nuova proposta divideva il Territorio Libero secondo una linea che andava da nord a sud, assegnando all’Italia la maggior parte della costa e alla Jugoslavia le parti interne del

territorio”262. De Gasperi respinse anche questa soluzione,

chiedendo che all’Italia fossero assegnati più territori della Zona B. Il 12 marzo De Gasperi, alla luce anche della contemporanea visita di Tito a Londra, intrattiene una serie di colloqui con lo stato maggiore della diplomazia italiana, tra cui: il Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri conte Zoppi, gli ambasciatori Tarchiani, Brosio e Quaroni, ed infine il Ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani, dai quali emersero tre soluzioni alternative per Trieste: “mantenimento dello status quo nel TLT con le zone A e B; soluzione definitiva sulla base di una proposta americana;

261 Mainardo Benardelli, op. cit., (2006), pag. 92. 262 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 391.

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modus vivendi provvisorio che può sfociare in un’effettiva spartizione definitiva con la delimitazione delle due zone”263.

All’inizio di maggio prese avvio, dopo le insistenze alleate, una nuova serie di contatti diplomatici tra Roma e Belgrado che si concretizzò negli incontri tra il Segretario generale del Ministero degli Affari Esteri, Conte Zoppi, e il consigliere commerciale della legazione jugoslava, Vladimir Sajčić. Il primo di questi incontri si ebbe nel pomeriggio del 19 maggio, seguito da altri due il 22 e il 26 dello stesso mese. “Gli jugoslavi, rinunciando all’intera penisola di Muggia, desideravano almeno tutto il settore meridionale del promontorio, partendo da Punta Sottile – la Punta affacciatesi sul Porto nuovo di Trieste – e raggiungendo la strada nazionale tra Noghere e Albaro Vescovà. Da questo punto il confine sarebbe proceduto verso Nord-Est e verso Nord lasciando alla Jugoslavia San Dorligo, Sgonico e Monrupino. A sud, verso la Zona B, sarebbe stata assegnata all’Italia una strettissima fascia costiera, circa a Nord-Ovest di una linea retta, che staccandosi dal nodo stradale vicino al cimitero di Capodistria, avrebbe raggiunto Portorose. Il collegamento tra la strettissima fascia costiera e Trieste sarebbe stato assicurato dal solo nastro stradale per un percorso di circa 8 chilometri in territorio jugoslavo”264. La proposta jugoslava non fu accolta dall’Italia, perché era più sfavorevole dei due progetti americani presentati in precedenza; e così, con il colloquio del 26 maggio, cessarono, almeno per il momento, le trattative dirette tra Italia e Jugoslavia.

In realtà, dal punto di vista jugoslavo, gli incontri del maggio ebbero un risultato positivo, perché bloccarono ogni possibilità di intervento alleato nella campagna elettorale italiana attraverso

263 Alberto Tarchiani, op. cit., (1955), pag. 240. 264 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 472.

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nuove concessioni o nuove dichiarazioni di intenti. Si era, infatti, nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche italiane del giugno del 1953, e Belgrado, memore di quanto accaduto con la Dichiarazione Tripartita nel 1948, temeva un nuovo intervento alleato a sostegno della Democrazia Cristiana, anche se la campagna elettorale fu largamente dominata dalla nuova legge elettorale maggioritaria (la famosa «legge truffa»), che, di fatto, fece passare in secondo piano la politica estera e la questione giuliana. Tale timore era ben riposto dato che, all’inizio di giugno, Tarchiani si era mosso per ottenere dal Dipartimento di Stato americano “una dichiarazione per Trieste italiana da usare a fini elettorali, ma, non essendo riuscito a concordare una formula soddisfacente, d’accordo con Roma aveva lasciato cadere il tentativo”265.

I timori jugoslavi erano giustificati anche dalle difficoltà che da qualche tempo la maggioranza centrista che sosteneva i governi De Gasperi stava incontrando, nonostante i grandi successi ottenuti in campo internazionale. Inoltre “la fallita operazione Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative romane del 1952, dimostrò che, in effetti, nel mondo cattolico e in Vaticano, più d’uno pensava all’apertura a destra, e non solo per ovviare alle crescenti difficoltà del centrismo. Le amministrative del ’51 al Centro-nord e del ’52 al Centro-sud segnalarono la grave erosione dell’area elettorale governativa, che appariva risicatamene maggioritaria. Alta era, inoltre, la litigiosità interna alla coalizione, fra spinte conservatrici e riformiste, fra invocazioni alla laicità della politica e accuse alla DC di non dire, né fare, più nulla di cattolico”266. Nel

265 Alberto Tarchiani, op. cit., (1955), pag. 279.

266 Paolo Nello, Il sistema politico italiano e l’«insurrezione» di Trieste, in “Nuova Storia

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tentativo di garantire e rafforzare l’alleanza governativa in vista delle elezioni politiche, De Gasperi varò una riforma elettorale in senso maggioritario, che fu ribattezzata dalle opposizioni “legge truffa”. Lo scopo della nuova legge elettorale era quello “di impedire un ricambio della classe di governo. Si voleva rendere impossibile «il governo dei partiti antisistema democratico» ed evitare il rischio di un accordo tra estremisti di destra e di sinistra, che mandasse all’opposizione i partiti di centro”267.

Le elezioni ebbero però un esito clamoroso: infatti “videro un forte calo di tutti i partiti della coalizione centrista, apparentati tra loro, che nelle votazioni per la Camera dei Deputati ottennero solo il 49,85% dei voti, mancando quindi il 50,01% che avrebbe fatto scaturire il premio di maggioranza del 65% dei seggi. Della sconfitta centrista beneficiarono non tanto l’opposizione di sinistra (passata peraltro dal 31% al 35,4%) quanto le destre: il Movimento Sociale Italiano crebbe dal 2% al 5,8% ed il Partito Nazionale Monarchico dal 2,8% al 6,9%. La coalizione conservava comunque un’esigua maggioranza di seggi alla Camera (300 su 590) che al Senato (126 su 237)”268. Alla sconfitta elettorale seguì dapprima un vano tentativo da parte di De Gasperi di dar vita al suo ottavo dicastero, un monocolore democristiano, che non ottenne la fiducia alla Camera dei Deputati e, successivamente, tramontata la candidatura di Piccioni, il varo del primo governo Pella, anch’esso un monocolore democristiano, dove il neo Presidente del Consiglio mantenne ad interim, anche i dicasteri degli Affari Esteri e del Bilancio.

L’insuccesso elettorale e il cambio alla guida del paese evidenziarono “alcune linee di tendenza della politica italiana che

267 Carla Rodotà, Storia della legge truffa, Ascoli Piceno, Edizioni Associate, 1992, pag. 13. 268 Massimo De Leonardis, op. cit., (1992), pag. 252.

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gli anni successivi renderanno più chiare. Era intanto evidente il declino del centrismo, che avrebbe ancora vivacchiato, ma senza più contare sulla solidità – che era insieme egemonia – della trionfante DC quarantottesca. Egualmente evidente fu il lento sganciamento del PSI – pur con temporanei pentimenti – dal legame con i comunisti. […] Terzo elemento, la confermata e ormai schiacciante supremazia numerica del PCI sul PSI: un rapporto di forza che nella sinistra poneva il PSI in posizione subalterna”269.

Con la caduta di De Gasperi venne a mancare il più strenuo oppositore ad ogni soluzione di compromesso che non prevedesse l’assegnazione all’Italia dell’intero territorio del TLT. Allora “fu chiaro a tutti che il ritorno di Trieste e della Zona A all’Italia ed il mantenimento della provvisorietà di tale soluzione costituivano, ormai, le ultime trincee della nostra difesa”270. Su questo punto convennero tutti gli ambasciatori italiani delle tre potenze alleate. Già il 26 giugno l’ambasciatore Brosio da Londra faceva sapere di ritenere ancora possibile, sebbene più difficile rispetto a prima, la restituzione dell’intera Zona A, e sulle sue posizioni convenivano sia Quaroni, da Parigi, che Tarchiani da Washington, il quale “per la prima volta, da un lato, decampava, almeno parzialmente, dalla sua tesi della spartizione definitiva, secondo una linea etnica continua, da ottenersi attraverso pressioni americane su Belgrado, e, dall’altro lato, affacciava al governo degli Stati Uniti la possibilità ch’esso si portasse sulla tesi del modus vivendi, cioè della soluzione de facto, con la retrocessione all’Italia della Zona A”271 Inoltre, è da notare come la posizione internazionale italiana

269 Indro Montanelli, Mario Cervi, L’Italia del miracolo, Milano, Rizzoli, 1987, pagg. 212 –

213.

270 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 488. 271 Ivi, pag. 509.

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si indebolisse proprio nel momento in cui, per contro, si andava completando il rafforzamento jugoslavo.

Nel frattempo il governo Pella affrontava l’iter costituzionale previsto per ottenere la fiducia dai due rami del Parlamento. Proprio durante tale dibattito, pressato dalle richieste della destra su quale fosse l’orientamento governativo a proposito della politica estera, Pella, “in un discorso dal tono nazionalista e bellicoso, propose che si tenesse un plebiscito nell’intero Territorio Libero e dichiarò, nello stesso tempo, che la ratifica italiana al trattato della CED sarebbe potuta dipendere dalla soddisfazione ricevuta su Trieste”272. In realtà egli era convinto che l’accettazione della soluzione de facto, pur non essendo la migliore soluzione possibile, avrebbe in ogni caso costituito un successo sufficiente per garantirsi l’appoggio politico della destra e poter così prolungare la vita del suo esecutivo.

Le parole pronunciate dal premier italiano irritarono profondamente la Jugoslavia. Il 28 agosto, l’agenzia di stampa

Jugopress emanò una nota particolarmente dura, nella quale si

riportava che “gli ambienti politici di Belgrado considerano l’ultimo discorso di Pella come una prova dell’inutilità dell’atteggiamento conciliante e pacificatore della Jugoslavia. […] La nuova prova dell’atteggiamento negativo dell’Italia in tale questione, fornita dal discorso del nuovo primo ministro italiano, ha convinto molte personalità di Belgrado che è necessario rivedere seriamente l’atteggiamento della Jugoslavia in questo problema. Prevale l’opinione che questa revisione porterà a risultati inevitabili a causa delle circostanze create nella questione di Trieste, considerata la situazione sorta col processo di tacita

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annessione di Trieste da parte dell’Italia”273. La nota fu ripresa dall’agenzia americana United Press, per poi finire sulle prime pagine di tutte le principali testate internazionali. Erano parole molto dure, dalle quali traspariva l’intenzione jugoslava di ricorrere alla forza per sbloccare la situazione giuliana e che allertarono tutte le cancellerie occidentali, Roma in primis.

Pella, già il giorno 29, diramò un telegramma agli ambasciatori italiani presso i tre grandi Paesi occidentali, nel quale esortava gli ambasciatori a fare pressione sui rispettivi governi affinché intervenissero duramente nei confronti di Belgrado. Il giorno successivo, il 30, convocò una riunione alla quale parteciparono il Ministro della difesa Taviani, il gen. Marras, Capo di Stato Maggiore della Difesa, ed il conte Zoppi, dove venne deciso di “porre in atto un’azione dimostrativa che dia agli jugoslavi la sensazione che l’Italia è in grado di rispondere alle loro provocazioni e non è affatto disposta a cedere”274. Fu deciso di spostare su Gorizia e Monfalcone dei reparti dell’esercito, e di inviare una parte della flotta a Venezia, sebbene ciò rappresentasse un’escalation nel conflitto che, fino allora, si era sempre mantenuto entro i normali limiti dello scontro diplomatico.

“Grazie alle questione del TLT e al suo impatto sull’opinione pubblica, il leader democristiano, il cui Governo si presentava come una soluzione provvisoria, tentò di dare alla Nazione e alla sua leadership un carattere più autorevole. Si cercava in tale modo di conseguire un facile successo presso l’opinione pubblica a cui si dimostrava, non solo la determinazione a risolvere in senso alla tesi italiana la questione triestina, ma anche un grado d’indipendenza dagli Stati Uniti, […] la rigida posizione assunta da

273 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 399.

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Pella ebbe come unica conseguenza un’altrettanto dura reazione da parte jugoslava”275 che, si concretizzò dapprima in un comunicato della Tanjug, l’altra agenzia di stampa slava276, nel quale si negava indirettamente l’esistenza di una reale intenzione di usare la forza, ma si accusavano gli italiani di essere dei provocatori, alla luce anche dei nuovi movimenti militari; e in seguito nel duro discorso di Tito del 6 settembre, durante il quale il Maresciallo ribadì il non riconoscimento slavo della Dichiarazione Tripartita, il rifiuto dell’utilizzo del principio etnico e della soluzione del condominio con un governatore. In conclusione, per Belgrado, l’unica soluzione accettabile era “di fare di Trieste una città internazionale e di annettere il retroterra alla Jugoslavia”277.

Le parole del leader jugoslavo davano quindi ragione, anche agli occhi dell’opinione pubblica, al pensiero di Palazzo Chigi278.

L’11 settembre i rappresentanti dei partiti al governo a Trieste inviarono un memorandum a Pella, in cui si dichiararono favorevoli alla soluzione del plebiscito, convinti della netta vittoria italiana, poiché “nella Zona A vivono 150.000 italiani emigrati dai territori ceduti alla Jugoslavia nel 1947, nonché 14.000 emigrati dalla Zona B del TLT”279. Era quella plebiscitaria una proposta che spesso riemergeva tra le varie ipotesi di soluzione del problema triestino, ma che in questo caso era stata utilizzata come paravento dietro il quale riparare le reali intenzioni del governo italiano.

275 Antonio Varsori, L’Italia: la politica estera, in Nuove Questioni di Storia Contemporanea,

Milano, Edizioni Marzorati, 1986, vol. IV, pag. 774.

276 La Tanjug era l’agenzia di stampa ufficiale jugoslava mentre la Jugopress era una

cooperativa costituita dall’Associazione dei giornalisti jugoslavi.

277 Paolo Emilio Taviani, op. cit., (1994), pag. 19.

278 A tal proposito il ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani commenterà così le parole di

Tito nel suo diario: “Coloro che in Italia si erano scandalizzati delle misure assunte, sono adesso serviti. Migliore conferma non poteva venire delle intenzioni jugoslave. La pacatezza e l’astuzia con cui il discorso è stato condotto, sono la riprova di quanto tali intenzioni siano pericolose”.

Ivi, pag. 20.

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Il 13 settembre, Pella, durante un discorso in Campidoglio in occasione delle celebrazioni per la resistenza romana, propose ufficialmente la soluzione plebiscitaria, a patto che avvenisse sotto garanzia internazionale. Inoltre, ricordò ai “fratelli triestini che la loro causa è la causa di tutti gli italiani, oso credere senza distinzioni politiche”280. In realtà si trattava di una finta proposta poiché “l’azione politico-diplomatica fu organizzata in modo perfetto, per far credere che il plebiscito costituisse lo scopo reale della nostra mossa e furono date disposizioni alle ambasciate italiane di agire in questo senso presso i governi occidentali, sottolineando, sempre in subordine, che, se la Jugoslavia avesse rifiutato l’offerta, altro non restava che mettere noi sul piede di parità con i vicini, per future trattative dirette, retrocedendoci, intanto, la Zona A. E’ ovvio che, se la Jugoslavia avesse accettato il plebiscito, ciò avrebbe costituito per il nostro Paese un enorme successo: tutto il TLT sarebbe ritornato all’Italia; non vi era il minimo dubbio”281. La Jugoslavia non avrebbe mai accettato il plebiscito.

Il discorso di Pella rappresentava quindi una definitiva svolta nell’azione diplomatica italiana verso la convocazione di una conferenza a cinque e l’accettazione della soluzione de facto. Lo stesso Tarchiani, dopo un lungo colloquio col Presidente del Consiglio, decise di abbracciare questa tesi. “Era cominciata la fase diplomatica e politica del «dopo-discorso del Campidoglio», la quale veniva guidata dal binomio Pella-Zoppi al centro. In periferia i più importanti binomi erano quelli di Brosio – Thedoli a Londra e quello Tarchiani – Luciolli a Washington, mentre a Parigi sembrava agire il solo Quaroni. I compiti risultavano chiaramente

280 Paolo Nello, op. cit.,(2004), pag. 22. 281 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 157.

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divisi e perfettamente coordinati: il centro svolgeva l’azione di convinzione sui governi occidentali, tramite i loro rappresentanti a Roma; […] il binomio londinese doveva svolgere una simmetrica azione sul Foreign Office e quello americano sullo State Departement, mentre la funzione dell’ambasciatore a Parigi constava nel persuadere i francesi a che, a lor volta, persuadessero gli angloamericani e gli jugoslavi o facessero qualche mossa azzardata che noi non potevamo osare. L’azione da svolgere, in tutte le sedi centrali e periferiche, constava nell’insistere ufficialmente con gli Alleati per l’accettazione della proposta del plebiscito e per la convocazione della conferenza a cinque – con programma ben precisato per non farci intrappolare – e nel far capire, discretamente, che noi miravamo, in realtà, alla «subordinata» e cioè alla immissione dell’Italia nella Zona A in forma provvisoria, senza annessione e con la promessa che fosse ripudiata l’annessione della Zona B da parte di Tito”282.

Il 28 settembre una nota jugoslava rifiutava la proposta del plebiscito, che “potrebbe essere giustificato soltanto a condizione che siano eliminate le ingiustizie e le conseguenze della politica di snazionalizzazione perseguita dall’Italia dal 1918”283. In realtà Belgrado ben sapeva quale sarebbe stato l’esito di un’eventuale consultazione popolare, alla luce del fatto che anche la minoranza slovena residente nella Zona A avrebbe molto probabilmente preferito rimanere sotto l’Italia piuttosto che diventare suddito di un regime comunista.

Nel frattempo la pressione diplomatica esercitata dall’Italia cominciava a dare i primi frutti. Londra e Washington, infatti, affermarono di non volersi opporre ad una spartizione del TLT,

282 Ivi, pag. 562.

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purché fossero rispettati i diritti delle minoranze etniche. In tutto questo un ruolo di primo piano lo ebbe la nuova ambasciatrice statunitense a Roma, Clare Boothe Luce, che “non solo comprese tutte le preoccupazioni e suggerimenti italiani, ma, ancor più importante, li fece propri. Nel riferirli a Washington, infatti, essa vi aggiunse un tono di drammatica urgenza che, unito con la sua propensione a servirsi di canali straordinari (e, a volte anche di mezzi non ortodossi) per favorire i suoi punti di vista, indusse il Dipartimento di Stato ad agire per la questione di Trieste sia con grande rapidità, sia secondo le linee da lei desiderate. […] D’un tratto essi non potevano più considerarla in termini di politica di programmazione, ma dovettero affrontarla come un problema che richiedeva un’attenzione immediata.”284. Le due potenze, tuttavia, non erano altrettanto concordi sulle modalità con cui ufficializzare il raggiungimento della soluzione. Se il Foreign Office premeva perché si affermasse chiaramente che la soluzione era definitiva, il Dipartimento di Stato americano, venendo incontro alle richieste italiane, suggeriva una formula più generica che lasciasse aperta la possibilità di una riapertura della questione. Alla fine la Gran Bretagna aderì al piano degli Stati Uniti.

L’8 ottobre 1953, gli ambasciatori delle due nazioni a Roma e a Belgrado consegnarono ai due governi i testi di una dichiarazione pubblica e di un allegato segreto. Nella dichiarazione pubblica, nota come Dichiarazione Bipartita, i governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna decidevano “di porre termine al Governo Militare Alleato, di ritirare le loro truppe, e, tenuto conto del predominante carattere italiano della Zona A, di rimettere

284 Osvaldo Croci, Stati Uniti, Italia e Jugoslavia. La decisione di restituire all’Italia la Zona A del Territorio Libero di Trieste, in “Storia Contemporanea”, anno XXII, numero 5, ottobre

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l’amministrazione di quella della Zona al Governo Italiano. I due Governi confidano che queste misure condurranno ad una pacifica soluzione definitiva. […] Il ritiro delle truppe ed il contemporaneo trasferimento dei poteri amministrativi avrà luogo alla data più prossima possibile, che verrà a suo tempo annunciata”285. Il carattere fumoso della Dichiarazione Bipartita lasciava aperta la possibilità alle due nazioni contendenti di interpretarla a propria convenienza. Le reazioni furono perciò affatto diverse in Italia, in Jugoslavia e nella Zona A.

In Italia Pella intervenne in Parlamento già il 9 ottobre. Egli precisò che il governo italiano si riservava l’accettazione della Dichiarazione e che in ogni modo “il fatto dell’accettazione di amministrare la Zona A non implica alcun abbandono delle rivendicazioni relative alla Zona B da parte italiana”286. La reazione jugoslava fu molto energica: unità dell’esercito jugoslavo furono inviate nella Zona B e alla frontiera italiana; mentre imponenti manifestazioni antioccidentali furono inscenate a Belgrado davanti alle ambasciate britannica ed americana. Tito, in un discorso tenuto a Leskovac il 10 ottobre, condannò la decisione angloamericana definendo “l’entrata delle truppe italiane nella Zona A come un atto di aggressione contro il nostro Paese”287 e minacciando che “nel momento in cui il primo soldato italiano entrerà nella Zona A, anche noi entreremo in quella zona”288. Infine, il 12 ottobre la Jugoslavia si rivolse al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per la questione di Trieste, ma la discussione fu rinviata sine die.

285 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 586. 286 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 406. 287 Ivi, pag. 408.

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Nel frattempo l’URSS, rimasta a lungo in posizione defilata su Trieste, tentò di reinserirsi nella questione accusando Inglesi e Americani di aver violato il Trattato di Pace con l’Italia. “Per l’URSS mantenere aperta la questione triestina significa rendere impossibile la formazione di una linea di difesa continua dal Mediterraneo orientale al Mar Baltico, impedendo un rapido inserimento della Jugoslavia nel blocco occidentale; inoltre servirsi dell’argomentazione della presenza a trieste delle truppe angloamericane significa procrastinare il trattato di pace con l’Austria, che avrebbe costretto l’URSS a ritirarsi dal suo posto più avanzato raggiunto in Europa centrale; inoltre, mantenere in sospeso la questione di Trieste significa lasciare alla diplomazia angloamericana un problema suscettibile di intaccare la compattezza del blocco occidentale”289.

Alla luce dei fatti la Dichiarazione Bipartita, invece di risolvere il problema triestino, era così riuscita a creare nuova tensione e ad acuire lo stato di crisi: l’esercito italiano e quello jugoslavo erano schierati lungo il confine; la Jugoslavia aveva reagito con una violenza inaspettata, che aveva colto di sorpresa le potenze alleate; l’URSS aveva potuto sfruttare la situazione per poter tornare ad essere protagonista della partita; infine a Trieste il clima si faceva sempre più incandescente al punto che tracimerà poi nelle giornate di sangue e di morte del novembre successivo.

Di fronte al precipitare della situazione la questione di Trieste “cessò di essere secondaria per i diplomatici occidentali: Inglesi, Francesi, e soprattutto Americani stimarono che era estremamente pericoloso lasciare crescere la tensione fra l’alleato e la

289 Giulio Bettasa, L’ultima fase della questione di Trieste 1951 – 1954, in “Rivista di Studi

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Jugoslavia”290; e perciò decisero di affrontare la questione direttamente cercando, da un lato, di normalizzare i rapporti italo-jugoslavi , e, dall’altro, facendo sedere i due Paesi al tavolo di una conferenza su Trieste. Riguardo al primo obiettivo, dopo le tragiche giornate di inizio novembre, le potenze occidentali riuscirono a convincere Italia e Jugoslavia a procedere al ritiro delle truppe dai rispettivi confini.

Più difficile era il tentativo di organizzare delle trattative italo-jugoslave. Il 13 novembre le tre potenze occidentali comunicarono alle cancellerie dei due paesi mediterranei l’intenzione di convocare “una conferenza per raggiungere una soluzione «definitiva, pacifica e giusta» del problema di Trieste”291, oltre all’intenzione di procedere all’assegnazione ad alcuni funzionari italiani di alcune cariche all’interno del GMA, fermo restando che il potere supremo rimaneva nelle mani del comandante alleato di Zona. Se l’Italia, seppur con alcune riserve, aveva accettato il piano alleato, la Jugoslavia, per bocca di Tito, durante un discorso a Belgrado, lo rifiutò.

In seguito, il rifiuto jugoslavo ad un analogo compromesso presentato il 6 dicembre, portò Gran Bretagna e Stati Uniti a prendere la definitiva decisione di abbandonare la soluzione della conferenza a cinque.

All’inizio del 1954 le due grandi potenze tornarono all’attacco, approfittando del difficile momento francese, e presentarono un nuovo piano, “in base al quale i negoziati si sarebbero svolti a Londra e a Washington in tre fasi successive al livello di ambasciatori. Dapprima si sarebbero incontrati i rappresentanti della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e della Jugoslavia, cioè degli

290 Jean Baptiste Duroselle, op. cit., (1966), pag. 395. 291 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 717.

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stati che amministravano il TLT. Le potenze occidentali avrebbero poi presentato i risultati all’Italia e avrebbe negoziato con essa. Infine gli inglesi e gli americani avrebbero svolto il ruolo di intermediari fra l’Italia e la Jugoslavia per dirimere qualsiasi ulteriore divergenza. I negoziati dovevano restare segreti”292.

La prima fase dei colloqui, quella tra anglo-americani e jugoslavi, prese avvio a Londra il 2 febbraio e proseguì fino al 31 maggio. La capitale inglese era stata scelta come sede dei colloqui perché era la più vicina a Roma e a Belgrado, e permetteva di mantenere più facilmente la segretezza dei colloqui.

L’intenzione inglese era quella di “persuadere la Jugoslavia ad accettare una frontiera corrispondente il più possibile ai confini delle Zone”293; quella jugoslava, invece, era di non accettare nessuna soluzione che portasse a degli svantaggi territoriali. Perciò, almeno inizialmente, fu sostenuto il diritto jugoslavo a tutto il TLT, fatta eccezione per Trieste. In seguito il delegato jugoslavo Velebit ammorbidì la posizione jugoslava. Egli decise di scendere sul piano delle reciproche concessioni territoriali, arrivando a proporre di voler “cedere all’Italia tre città della Zona B, Capodistria, Isola e Pirano, ma soltanto come isole all’interno del territorio jugoslavo senza collegamenti con l’Italia. In cambio di questa concessione, gli jugoslavi chiesero il retroterra della Zona A e uno sbocco sul mare immediatamente a sud di Trieste, comprendente Zaule, Servola e Muggia”294. La proposta venne respinta dai delegati angloamericani che replicarono presentando a loro volta due soluzioni: “cedere alla Jugoslavia il retroterra della Zona A in cambio di un’area italiana nella Zona B, comprendente

292 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 424.

293 Anthony Eden, Le memorie di sir. Anthony Eden, Milano, Garzanti, 1960, pag. 195. 294 Bogdan C. Novak, op. cit., (1973), pag. 425.

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le tre città (Capodistria, Isola, Pirano)[…] La seconda alternativa era una suddivisione lungo il confine tra le due Zone”295. Fu su quest’ultima soluzione che, dopo alcune piccole modifiche, si giunse ad un punto d’accordo. “Il confine, vicino alla spiaggia, sarebbe stato spostato per circa un miglio e mezzo in linea d’aria da capo Punta Grossa a capo Punta Sottile. In cambio di ciò, gli jugoslavi avrebbero ricompensato l’Italia con un piccolo triangolo di terra nella Zona B, all’interno, lungo la linea fra le due Zone. […] Decisiva per il cambiamento dell’atteggiamento degli jugoslavi fu la promessa di 20 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, a cui gli inglesi aggiunsero 2 milioni di sterline. Questa somma fu concessa come contributo per la costruzione di un porto sloveno nella Zona B e per altri fabbisogni”296.

Si passò così alla seconda fase: quella delle trattative con l’Italia. Il 1° giugno 1954 il delegato italiano Manlio Brosio, ambasciatore a Londra, ricevette il testo dell’accordo jugo-anglo-americano, che si componeva di sette punti: “1. I governi militari della Zona A e della Zona B dovevano essere sostituiti dalle amministrazioni civili rispettivamente italiana e jugoslava; 2. Una modifica minore del confine tra le Zone a favore della Jugoslavia; 3. Il mantenimento del porto franco di Trieste; 4. Reciproche garanzie per le minoranze nazionali; 5. Nessun cittadino doveva essere perseguitato per le attività svolte per la costituzione del TLT; 6. Risoluzione di tutte le questioni finanziarie pendenti tra i due stati; 7. Provvedimenti per migliorare la situazione e facilitare la cooperazione fra l’Italia e la Jugoslavia”297.

295 Ibidem. 296 Ivi, pag. 426. 297 Ivi, pag. 427.

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In pratica “l’Italia si trovava di fronte, dunque, non a una «comunicazione», non ad una «proposta», ma ad una «proposta ne

varietur», già concretata in un vero e proprio accordo siglato,

concluso tra gli jugoslavi e gli angloamericani”298, e soprattutto di fronte a due problemi: accettare o rifiutare il piano. Da non dimenticare che nel caso in cui si fosse accettato si sarebbe poi dovuto giustificare all’opinione pubblica un accordo che prevedesse sì il ritorno di Trieste, ma anche la contemporanea perdita dell’Istria.

I giorni che seguirono furono densi di discussioni tra le principali ambasciate italiane, Palazzo Chigi e la Presidenza della Repubblica. Alla fine, prevalse la linea del sì, con la consapevolezza che questa sarebbe potuta essere l’ultima occasione per riannettere, sia pure sotto qualche etichetta provvisoria, la città giuliana. Furono così inviate a Brosio le linee guida da seguire: “1. I ritocchi tra la Zona A e la Zona B non erano equilibrati; bisognava lasciare intatta la linea Morgan […] ed escludere ogni concessione sul litorale fra Punta Grossa e Punta Sottile. […] 2. Si proponevano alcune modifiche al preambolo, in maniera da non far apparire sepolto, formalmente e consensualmente, il TLT; occorreva evitare di parlare di confine, usando sempre e soltanto l’espressione «linea di demarcazione» e sottolineare, in tutti i modi possibili, la provvisorietà. […] 3. Si proponeva di unire i punti 3, 4, 5 chiamandoli «Accordi di massima connessi alla sistemazione delle due zone», facendone risultare il carattere bilaterale e amichevole: a) per il porto: si sarebbe tenuto fede al principio del porto franco; b) per l’autonomia si doveva domandare la reciprocità; c) per lo statuto

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speciale per gli abitanti delle due Zone si accettavano i punti proposti dagli jugoslavi e la non perseguibilità pensale prevista; […] 4. Per i punti 6 e 7, il governo italiano era disposto ad una liquidazione forfetaria in base ad un’equa valutazione delle pendenze reciproche, nel quadro di un accordo per la collaborazione economica […]”299. Il tutto si tradusse in concreto nella proposta del 7 luglio nella quale l’Italia rifiutava la soluzione del triangolo isolato all’interno del territorio jugoslavo e preferiva invece che Punta Sottile sulla costa adriatica restasse nella Zona A. Si passava così alla terza fase.

Dal 14 luglio al 5 ottobre, i rappresentanti inglese e americano agirono da intermediari tra Velebit e Brosio. I colloqui si arenarono ben presto sulla questione territoriale, poiché nessuno dei due paesi era disposto a rinunciare a Punta Sottile. Alla fine d’agosto le trattative avevano raggiunto un punto morto, che solo l’intervento del presidente americano Eisenhower avrebbe sbloccato. Il presidente americano affidò l’incarico al sottosegretario di stato Murphy di recarsi in Europa e “sotto l’apparenza di un viaggio in alcune capitali europee per dibattere questioni economiche, avrebbe dovuto recarsi a Belgrado e intrattenere Tito soprattutto per farlo recedere dalle posizioni negative da lui assunte sui problemi territoriali”300. La missione Murphy, che portava con sé anche una lettera personale di Eisenhower per Tito, sortì gli effetti sperati e, già pochi giorni dopo, gli jugoslavi presentarono due diverse soluzioni. “In base alla prima soluzione, il confine doveva essere spostato immediatamente a sud di Punta Sottile in modo da lasciare alla

299 Ivi, pag. 866.

300 Egidio Ortona, La conclusione del problema di Trieste vista dall’ambasciata di Washington: pagine di diario, in “Storia Contemporanea”, anno XVI, numero 2, aprile 1985,

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Jugoslavia il villaggio di Lazzaretto, situato sulla costa fra i due capi, e l’Italia avrebbe ottenuto il triangolo nella Zona B. La seconda alternativa consisteva nello spostare il confine più a sud, all’incirca a metà fra Punta Sottile e Punta Grossa, lasciando Lazzaretto all’Italia, che però non avrebbe ricevuto alcun compromesso territoriale nella Zona B”301. Il 18 settembre Murphy si recò a Roma. Qui incontrò Scelba e il nuovo ministro degli esteri Martino, ai quali presentò i due piani alternativi stabiliti con Tito. Alcuni giorni dopo il Consiglio dei Ministri approvò la seconda possibilità.

Il 5 ottobre 1954, i rappresentanti jugoslavo, italiano, inglese e americano firmarono a Londra il memorandum d’intesa.

Il memorandum si componeva di 9 articoli e 2 allegati, “in sintesi gli articoli si riferivano alle seguenti tematiche:

• Art. 1: contiene una dichiarazione introduttiva che spiega le ragioni dell’accordo;

• Artt. 2 e 3: si riferiscono alla sistemazione territoriale;

• Art. 4: protezione delle minoranze mediante una particolareggiata descrizione dei loro diritti;

• Art. 5: mantenimento del porto franco di Trieste; • Art. 6: non si perseguono né vengono attuate

discriminazioni contro i cittadini che hanno svolto nel passato attività politiche concernenti la soluzione del problema del TLT;

• Art. 7: i due Governi, in un termine massimo di due mesi, devono concludere un accordo teso a disciplinare il traffico frontaliero locale;

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• Art. 8: le persone già residenti nelle due Zone che passano sotto amministrazione jugoslava o italiana sono libere di ritornare nei propri rispettivi precedenti domicili entro un anno,

• Art. 9: si dichiara che il memorandum d’intesa verrà comunicato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite;

In un successivo scambio di lettere, fu decisa anche l’apertura di uffici consolari (italiano a Capodistria e jugoslavo a Trieste) nonché il pagamento di 30 milioni di dollari in tre anni da parte dell’Italia ad onoramento degli impegni derivanti dal trattato di pace; l’accordo finanziario definitivo si firma a Belgrado il 18 dicembre 1954”302.

L’accordo fu approvato dai due Stati tra il 7 e l’8 ottobre. Se a Belgrado il consiglio federale ratificò l’accordo senza intoppi, ben più travagliata fu l’approvazione da parte del Parlamento italiano; sia al Senato che alla Camera dei Deputati, durante infuocate sedute, in cui più volte si sfiorò la rissa tra i parlamentari, il governo fu accusato dall’opposizione di aver gravemente danneggiato l’interesse nazionale accettando la ripartizione del TLT. Scelba ammise che l’accordo conferiva all’Italia meno di quanto promesso dalla dichiarazione tripartita, ma ricordò l’inattuabilità di quest’ultima, stante l’opposizione sovietica ad accettarla. Alla fine del discorso il premier italiano fu costretto a porre la fiducia. L’8 ottobre, il Senato italiano espresse la sua fiducia al governo Scelba con 122 voti favorevoli e 99 contrari. Anche la Camera dei Deputati, il 19 ottobre, espresse la sua fiducia

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al governo democristiano con 295 voti favorevoli, 265 contrari e 7 astensioni. Inoltre, fu deciso un prestito di quarantotto milioni di dollari per aiutare l’economia di Trieste.

Nel frattempo, già il 5 ottobre, erano stati nominati il rappresentante italiano, generale De Renzi, e il futuro commissario generale per il territorio di Trieste, Giovanni Palamara. L’8 ottobre, la commissione di demarcazione incaricata di delineare il confine tra i due stati iniziò i suoi lavori. Tra il 7 e il 14 ottobre avvenne l’evacuazione delle truppe angloamericane dalla Zona A. Il 26 ottobre 1954 l’esercito italiano entrava a Trieste. Terminavano così nove anni e quattro mesi di occupazione angloamericana.

Col secondo accordo di Londra si chiudeva la disputa territoriale su Trieste, ma restava aperto il contenzioso giuridico. Se per le grandi potenze, Unione Sovietica compresa303, e per la Jugoslavia la sistemazione territoriale era definitiva, Roma ribadì di non voler rinunciare alle sue rivendicazioni sulla Zona B. Nonostante ciò i rapporti tra i due paesi si rivolsero verso una sempre maggiore amicizia e collaborazione.

Solo con gli accordi di Osimo del 10 novembre 1975, la questione giunse a conclusione. Con loro, infatti, “riconoscendo formalmente la piena sovranità giuridica dell’Italia sulla Zona A e della Jugoslavia sulla Zona B dell’ex territorio Libero di Trieste, non fa che sancire in maniera definitiva una realtà determinata nel 1954 con il memorandum d’intesa di Londra”304.

303 Il 12 ottobre il rappresentante sovietico Viscinskij inviò al presidente del consiglio di

sicurezza delle Nazioni Unite una lettera con la quale il governo di Mosca accettava il memorandum d’intesa, in quanto riteneva che avrebbe contribuito a ristabilire i normali rapporti tra Jugoslavia e Italia.

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3.2 La situazione a Trieste tra il 1950 e il 1954.

Nel marzo del 1951 si compì il passaggio di consegne tra Airey e Winterton alla guida del GMA. Il cambio di guida implicava un deciso cambio di rotta nell’amministrazione alleata della Zona A. Sotto la guida di Airey fu attuata una politica che prevedeva, se non dei favoritismi, comunque una simpatia nei confronti delle istanze presentate dai filoitaliani; ora, invece, la nuova amministrazione tentò di restare neutrale verso tutti i gruppi, poiché “la condotta di Winterton era diretta al raggiungimento di un primario obiettivo. Sostenere, contro ogni diverso indirizzo, il TLT e le posizioni politiche dei fautori dell’indipendentismo”305. Tutto questo rientrava nella nuova politica che le grandi potenze avevano avviato dopo lo scisma titino e il conseguente avvicinamento jugoslavo all’Occidente.

Il mutamento della rotta politica fu percepibile fin dai primi provvedimenti presi dal generale Winterton. Il 18 aprile 1951 egli ricevette il nuovo comandante jugoslavo della Zona B, colonnello Miloš Stamatović, episodio mai verificatosi durante l’amministrazione del generale Airey.

La decisione che però ebbe sicuramente il maggior impatto fu il provvedimento con cui il GMA affermò di essere la suprema e unica autorità giuridica della Zona A, vietando di conseguenza qualsiasi applicazione o riconoscimento della legislazione italiana. Tale decisione aboliva la prassi, per la quale i funzionari civili del

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GMA applicavano la legislazione giudiziaria e amministrativa italiana, e i tribunali di Trieste ricorrevano alla corte di cassazione di Roma, ovvero il più alto organo del sistema giudiziario italiano. Inoltre venne proibito ai tribunali triestini di riconoscere la giurisdizione di qualsiasi corte situata fuori dalla Zona A.

La nuova politica alleata irritò ovviamente i partiti filoitaliani, i quali accusavano il GMA di operare in contrasto con i dettami della dichiarazione tripartita e con le ripetute asserzioni che la Zona A fosse considerabile, dal punto di vista economico e amministrativo, come parte del territorio italiano. Per questo prese avvio una campagna di stampa, che trovò sponda nei quotidiani italiani, contro il generale Winterton e la sua condotta del GMA.

Tutto questo avveniva in una città dove il malcontento e la preoccupazione per il futuro erano divenuti i sentimenti più diffusi. Le voci dei soprusi, degli arresti e delle violenze subite dai pochi italiani che ancora non avevano scelto la triste via dell’esodo, confermavano, se ancora se ne fosse sentito il bisogno, quale futuro sarebbe toccato ai triestini qualora l’Armata jugoslava fosse rientrata in città. Ben poca consolazione davano le notizie provenienti da Roma, dove il governo sembrava sempre più disposto ad accettare una soluzione di compromesso che prevedesse la spartizione in due parti del TLT, nonostante questo significasse la perdita dell’Istria. In questo clima, il 9 marzo il Consiglio comunale triestino approvò, a larghissima maggioranza, una mozione con cui si reclamava “l’integrale restituzione del TLT all’Italia, secondo l’impegno della Dichiarazione Tripartita; e in tale attesa, chiedeva la cessazione dell’intollerabile occupazione militare jugoslava della Zona B e l’estensione provvisoria

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dell’amministrazione angloamericana all’intero Territorio”306. Tale appello rimase però lettera morta, il destino della città continuando a disputarsi a livelli più alti di quello rappresentato dalla realtà locale triestina.

3.3 Il rinvio delle elezioni amministrative del 1951.

In questo clima di forte turbamento si sarebbero dovute tenere, entro la prima decade dell’ottobre del 1951, le nuove elezioni amministrative.

Già alla fine del 1950 era evidente l’emergere di forti preoccupazioni all’interno dello schieramento italiano in vista della tornata elettorale, in quanto “la situazione elettorale dei partiti della coalizione democratica era nel frattempo sensibilmente peggiorata. La vita delle sezioni si era anemizzata, le iniziative si erano spente e i mezzi assottigliati. La politica estera dei Governi De Gasperi, indecisa e fluttuante, aveva esasperato l’attesa di molti e trovava sempre più viva riprovazione. Le probabilità di una nuova vittoriosa affermazione della coalizione democratica erano diminuite; un aumento dei voti dei partiti di opposizione italiana, dei gruppi indipendentisti o socialcomunisti avrebbe messo nelle imminenti elezioni i partiti di governo nella posizione di non poter formare una maggioranza efficiente”307. Il governo italiano era ben consapevole della situazione, e per questo alla fine del 1950, attraverso il Presidente di Zona Palutan, tentò di proporre un rinvio della tornata elettorale giustificandolo con varie motivazioni. Tra cui: l’intenzione di non voler “turbare, con un’accesa campagna elettorale, la vita cittadina, che si svolgeva in una fase di normale

306 Ivi, pag. 208.

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tranquillità; quella di cercare la possibilità di stabilire, anche a Trieste, il ciclo quadriennale – e non biennale – delle elezioni amministrative, come in Italia o, almeno, di applicare la nuova legge sull’apparentamento”308. La proposta venne bocciata nel febbraio del 1951 dal generale Airey, che ribadì che le elezioni si sarebbero tenute entro i primi dieci giorni dell’ottobre dello stesso mese sulla base del Bando del GMA n. 33/49309. Esso prevedeva: “i Consigli comunali avrebbero dovuto durare in carica un biennio. Per queste ragioni, nel febbraio del 1951 l’ordine n. 33 veniva abrogato e la materia elettorale fu disciplinata da un nuovo ordine che portava il n. 38 del 20 febbraio 1951. Il predetto provvedimento, all’articolo 60, riconfermava il principio della scadenza biennale della carica elettiva, per cui le autorità alleate proseguivano negli incombenti, secondo le disposizioni esistenti”310.

Successivamente, il 28 maggio il GMA proclamò l’ordine n. 86 che fissava la data precisa delle elezioni, che si sarebbero tenute il 7 ottobre 1951 nel Comune di Trieste e il 14 ottobre nei Comuni minori. In realtà il GMA aveva già iniziato a predisporre, dal punto di vista giuridico, le condizioni per un eventuale rinvio; infatti, il 29 maggio fu emanato l’ordine n. 88 che modificava l’articolo 60 dell’ordine n. 38, per cui i Consigli comunali sarebbero rimasti in carica non più al compimento del previsto biennio, ma bensì sino alla convocazione dei comizi. “L’ordine n. 88, che modificava la scadenza biennale, portava la data del 29 maggio 1951, mentre il n. 86, che convocava i comizi e dava inizio alle operazioni elettorali,

308 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 250.

309 L’ordine 33/49 aveva già disciplinato la precedente tornata elettorale amministrativa del

1949.

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era del 28 maggio 1951, quindi precedente di un giorno rispetto all’ordine modificativo”311.

Tutto il primo semestre del 1951 fu così animato dalla battaglia politica per rinviare le elezioni. Il 21 agosto i partiti democratici italiani di Trieste furono ricevuti dal generale Winterton, il quale, però, alla fine del colloquio ripeté la sua opposizione ad ogni possibilità di rinvio della tornata elettorale.

Dal punto di vista diplomatico, invece, proseguiva la pressione che la diplomazia italiana esercitava nei confronti delle cancellerie occidentali per giungere ad un rinvio. Ai primi di settembre gli inglesi, convinti che una mancata adesione alla richiesta potesse creare degli ulteriori intoppi alle trattative in corso tra Roma e Belgrado, comunicò al comando del GMA di accogliere le istanze filoitaliane.

Il 6 settembre 1951, dopo un incontro a Duino tra Winterton e Palutan un dispaccio ANSA diramava il comunicato che ufficializzava il rinvio delle elezioni amministrative. Il giorno successivo veniva pubblicato l’Ordine n. 145 con il quale veniva abrogato quello n. 86 del 28 maggio, “annullando la convocazione dei comizi elettorali. Così tornarono a rivivere le disposizioni dell’ordine n. 88, in base alle quali i Consigli comunali non scadevano più nel biennio e potevano rimanere in carica sino alla convocazione dei comizi elettorali. Fu così che i consiglieri comunali eletti nel giugno del 1949 e scaduti nella primavera del 1951 rimasero in carica sino alle nuove elezioni che avvennero il 25 maggio 1952”312.

311 Ivi, pag. 215. 312 Ibidem.

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3.4 Gli scontri del 20 marzo 1952.

La situazione triestina stava così peggiorando di giorno in giorno, e un senso di disorientamento e di sfiducia si era ormai diffuso tra gli abitanti della cittadina giuliana. Si avvertiva chiaramente come la soluzione del problema e l’agognato ritorno alla madrepatria si stessero facendo ogni giorno chimere sempre più lontane nel tempo. A ciò si andava ad aggiungere il momento di difficoltà delle istituzioni politiche locali, che, agli occhi della popolazione, apparivano sempre più prive di un piano d’azione preordinato, scollegate da Roma e in grave deficit rappresentativo, a causa del rinvio elettorale.

Nel tentativo di arginare l’emergente sfiducia all’interno del blocco italiano fu costituito il 12 marzo 1950 il Comitato per la difesa dell’italianità di Trieste e dell’Istria, presieduto dal sindaco Bartoli, comprendente trentatré membri tra Partiti, Associazioni ed Enti Italiani di Trieste di carattere patriottico. Prima decisione del nuovo comitato fu quella di dare vita ad una manifestazione pacifica per il 20 marzo successivo, giorno in cui cadeva il quarto anniversario della Dichiarazione Tripartita. L’idea, che traeva spunto da un personale progetto del sindaco Bartoli, era già stata esposta al Presidente di Zona Palutan all’inizio di quel marzo, ma solo dopo una lunga successione di trattative tra Comitato, Presidente di Zona e GMA, si giunse, il 17 marzo, al via libera per una manifestazione. Il programma dell’avvenimento prevedeva un dibattito, che si sarebbe tenuto nelle sale del Teatro Verdi, e, a

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seguire, un concerto della banda della Lega Nazionale in Piazza Unità d’Italia.

Fin dalle prime ore del pomeriggio del 20 marzo il centro cittadino fu animato da un flusso sempre più intenso di gente, che seppur adornata col tricolore, sfilava per le vie cittadine in modo pacifico e tranquillo.

Alle ore 17, mentre all’interno del Verdi i convenuti esaminavano una documentata mozione dei membri del Comitato circa quanto stava avvenendo nella Zona B, Piazza Unità d’Italia si andava riempiendo progressivamente di gente ansiosa di assistere al concerto. Ad un tratto la situazione degenerò.

La scintilla che provocò l’incendio fu rappresentata da un semplice episodio. Un ragazzo, arrampicatosi su uno dei piloni di Piazza Unità, aveva sventolato il tricolore. Fatto scendere dalla polizia, “il ragazzo fuggì, fu rincorso, ripreso tra i fischi della gente, portato in Prefettura. Allora un altro giovane sputò in faccia ad un maggiore della polizia e venne a sua volta portato in Prefettura (sede della polizia civile), la folla reagì lanciando tre pietre contro il portone di destra della Prefettura. Nel momento stesso in cui la prima pietra raggiungeva il bersaglio, veniva fatta uscire l’autopompa. […] L’autopompa uscì alle 17.20, e cominciò, senza preavviso, a lanciare getti d’acqua sulla folla che si radunava in Piazza Unità, per sentire il concerto della Banda della Lega Nazionale, […] l’azione dell’autopompa, quindi, ebbe luogo mentre si svolgeva la riunione al Teatro Verdi, dal quale le prime persone uscirono alle 17.55 e le autorità alle 18.15, dirigendosi verso la piazza distante una cinquantina di metri. La sola provocazione era, perciò, costituita dalla fuga del ragazzo, dallo

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sputo del giovanotto e dalle tre pietre lanciate”313. Terminati i gettiti d’idrante sulla folla, la polizia caricò la folla inseguendola per le vie limitrofe al centro cittadino, picchiando e arrestando fino a tarda sera. Al termine della giornata “il numero dei feriti e degli arrestati fu rilevante: 106 civili feriti, ricoverati o medicati presso l’astanteria dell’Ospedale Maggiore. Molti altri, per evitare il rischio della denuncia, seppure seriamente contusi preferirono ricorrere alle cure dei medici privati che, in quest’occasione, si prodigarono nobilmente e con assoluto disinteresse. Tra le forze di polizia circa una cinquantina furono gli agenti feriti. Gli arrestati furono 61”314.

Il 21 marzo la Camera Confederale del Lavoro indisse, per il giorno successivo, uno sciopero generale contro il GMA per chiedere che riparasse alle offese arrecate alla popolazione triestina. Lo sciopero, che ebbe un’ampia adesione e a cui aderì anche il sindacato comunista filoslavo, fu l’occasione per nuovi incidenti. “Nella mattinata vi era stato un primo scontro tra polizia e cittadini; ne era seguito un altro, più grave, all’incrocio di due strade importanti; infine un grosso e regolato corteo, preceduto da una jeep americana, dopo aver preso varie vie del centro, giunto davanti alla sede del Fronte dell’Indipendenza l’aveva presa a sassate. Alle cariche dei poliziotti i cittadini avevano risposto creando una barricata, in una vicina piazzetta, e resistendo dalla mattina alle 16 del pomeriggio a veri e propri assalti del loro bastione, da parte della polizia civile e di quella inglese, che spararono anche qualche colpo in aria. La caccia ai dimostranti

313 Diego De Castro, op. cit., (1981), pag. 172. 314 Alfio Morelli, op. cit., (1987), pag. 224.

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continuò fino alla sera”315. Lentamente nei giorni successivi la situazione tornò a stabilizzarsi.

I fatti del 20 marzo dimostrarono ulteriormente come Trieste fosse una polveriera pronta ad esplodere, e che prolungare all’infinito la soluzione del problema non avrebbe avuto altra conseguenza che quella di inasprire ulteriormente la rivalità territoriale ed etnica. Trieste tornò ad occupare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, stimolando così la pressione dell’opinione pubblica mondiale sui governi occidentali affinché si giungesse ad un accordo definitivo. Tutto questo si tradusse nel raggiungimento degli accordi di Londra del maggio del 1952. I quali, seppur prevedendo un ampliamento della presenza italiana all’interno dell’organizzazione del GMA, non risolsero certo la questione.

3.5 La campagna elettorale per le elezioni del 1952.

I partiti in lizza per le elezioni amministrative del 25 maggio 1952 furono quattordici: Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste, Movimento Autonomista Giuliano, Fronte Popolare Italo-sloveno, Fronte dell’Indipendenza, Fronte Monarchico Qualunquista, Partito Liberale Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Movimento Sociale Italiano, Blocco Triestino, Partito Nazionale Monarchico, Lega Democratica Slovena e Partito Socialista della Venezia Giulia.

La gran novità di questa tornata elettorale fu la decisione del GMA di far applicare, nella Zona A, la nuova legge elettorale

Figura

Tabella 6.  NUMERO TOTALE DEI PARTECIPANTI AI COMIZI  EFFETTUATI DA CIASCUNO DEI PARTITI IN COMPETIZIONE.

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