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DANNO PSICHICO E TUTELA DELLA VITTIMA

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Academic year: 2022

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DANNO PSICHICO E TUTELA DELLA VITTIMA

Renato Ambrosio e Marco Bona

Premessa: l’altra faccia della luna.

In quest’ultimo decennio la dottrina e le corti hanno cercato di tracciare delle linee guida sul danno psichico e certo, grazie soprattutto ai contributi della scienza psichiatrica, abbiamo oggi qualche idea in più rispetto al recente passato1. Pur tuttavia, il danno psichico continua a porsi come l’altra faccia della luna. Infatti, tutti sanno che c’è, ma è ancora da esplorare. E’ un’espressione questa che l’Avvocato Gennaro Giannini era solito richiamare2, e che tuttora mi sembra rendere bene l’idea delle difficoltà che si pongono quando l’avvocato o il giudice, od anche il medico legale, si trovano ad affrontare il delicato problema del danno psichico.

Un conto è individuare e valutare una frattura, od una qualsivoglia lesione fisica, ben altra questione è provare ciò che è mutato in senso negativo nella psiche della vittima. E’ necessario a tale fine abbandonare gli schemi scientifici, cui la medicina legale ci ha abituato a partire dagli anni ottanta, ed entrare in una realtà, in cui la base di partenza è ciò che la vittima prova, sente, avverte e racconta. Ovviamente, tutte queste sensazioni e modi di sentire della vittima devono essere ricollegate eziologicamente all’evento lesivo, senza che i risconti clinici diventino una condizione sine qua non per l’individuazione del danno.

Come noto, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, per il risarcimento di questo danno deve essere provata in giudizio una vera e propria patologia psichica3. Nella pratica non si può dunque prescindere, in linea di massima, dall’apporto di uno specialista, che, oltre ad essere un valente professionista, deve anche essere in grado di capire le esigenze dell’avvocato, che dovrà

1 Cfr. da ultimo sul danno psichico e per riferimenti bibliografici: Monateri, Bona e Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999.

2 Giannini e Pogliani, Il danno da illecito civile, Milano, 1997, 175.

3 In particolare Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372, in Foro it., 1994, I, 3297, con nota di Ponzanelli, in Corriere giuridico, 1994, 1455, con nota di Giannini.

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utilizzare il contributo dello specialista per ottenere il giusto risarcimento del danno subito dalla vittima.

L’individuazione delle vittime di lesioni psichiche.

- Nei casi di macrolesioni, e cioè nell’ipotesi in cui il cliente abbia subito una grave violazione dell’integrità fisica, la presenza di un danno psichico è probabile, ma non è scontata4. Il colloquio con il cliente, e segnatamente l’esame sommario dell’eventuale documentazione, diventa quindi per l’avvocato un momento importante per stabilire se sia opportuno fare intervenire uno specialista al fine di trovare una conferma a quelle che allo stato risultano semplici sensazioni.

- Nei casi di macrolesioni deve essere altresì considerata la posizione dei congiunti: questi, infatti, potrebbero avere patito anche un importante pregiudizio psichico (si pensi, ad esempio, al singolo genitore o a entrambi i genitori, che si trovano a convivere con un figlio gravemente menomato, condividendo con lui tutti i problemi e le sofferenze di una vita diversa). In questi casi l’avvocato, nell’impostare il proprio lavoro, opererà a monte una selezione finalizzata ad inviare allo psichiatra esclusivamente i clienti, che, in base alla propria esperienza professionale e umana, presentano caratteristiche degne di approfondimento specialistico. Prendere in considerazione l’esistenza di una patologia non significa esasperare la ricerca del danno, ma assolvere compiutamente il mandato conferito dal danneggiato, che si affida in tutto e per tutto al proprio legale al fine di vedere risarciti tutti i pregiudizi che ha subito, nessuno escluso.

- Nelle microlesioni5 è generalmente improbabile che ricorra un danno psichico, salvo in casi del tutto particolari: certamente, in queste rare ipotesi, il nodo più difficile da sciogliere sarà poi quello del nesso di causa. Nelle microlesioni l’avvocato non deve dunque esasperare la ricerca del danno psichico, perché il volere vedere ovunque questo danno porterebbe inevitabilmente allo

4 Si pensi anche al caso del trauma cranico commotivo.

5Sulle questioni aperte in tema di microlesioni: Oliva, Le micropermanenti, in Monateri, Bona e Oliva, Il nuovo danno alla persona, cit., 61 ss.

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svilimento di questa categoria: tuttavia, potrà ritenere possibile la sua esistenza anche nelle microlesioni, quando sia in grado di “fotografare”, con sufficiente serenità, una sofferenza, che superi la soglia del mero turbamento morale transeunte ed abbia i connotati di una vera e propria patologia.

- Altra ipotesi è quella dei danni psichici che possono subire i congiunti per la morte di un loro caro6. Il danno psichico non può certo essere scartato a priori, sebbene la linea di demarcazione tra questo danno ed il lutto sia decisamente sottile, a partire dai suoi fondamenti scientifici. Come capire allora se la vittima è da inviare allo specialista? La via che mi sembra percorribile è quella di andare a vedere come è cambiata la vita del cliente in seguito alla morte del congiunto: se è cambiata in modo “normale” sarà difficile andare oltre il lutto, ma se l’esistenza si è trasformata in una non esistenza, se il cliente vive solo più per andare al cimitero per piangere sulla tomba del figlio, se rifiuta i rapporti interpersonali, se non riesce più a dormire, se non ha più stimoli sul lavoro, se non ha interessi nella vita futura od altro, allora risulta indispensabile l’aiuto dello specialista psichiatra. L’avvocato potrà poi supportare nel giudizio l’individuazione del danno con idonei capi di prova, oppure con delle dichiarazioni testimoniali da esibire già nella fase stragiudiziale.

- Infine, vi possono essere casi, in cui la vittima principale non ha subito alcuna lesione fisica oppure la menomazione risulta di secondaria importanza rispetto all’impatto dell’aggressione subita (si pensi ad una violenza sessuale oppure a gravi ipotesi di molestie morali in famiglia o sul lavoro7): in questi ultimi casi solitamente è la vittima stessa a fornire sin dall’inizio chiare indicazioni sulla presenza di un danno psichico. La gravità dei fatti e la loro incidenza sulla vita quotidiana del cliente dovrebbero indurre l’avvocato a prendere in considerazione la sussistenza di questo particolare tipo di danno.

6 Cfr. Bona, Lesioni mortali e danni tanatologici non pecuniari: danni risarcibili, quantificazione e questioni aperte, in Monateri, Bona e Oliva, Il nuovo danno alla persona, cit., 107 ss.

7 Si segnalano al riguardo due recenti sentenze del Tribunale di Torino in tema di danno psichico da mobbing aziendale:

Trib. Torino, 16 novembre 1999 e Trib. Torino, 30 dicembre 1999, in pubblicazione su Danno e responsabilità, 2000, con nota di Bona e Oliva.

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Si tenga peraltro presente che si aggiunge quale ulteriore problema il fatto che spesso è difficile individuare sin da subito un danno psichico, essendo nella maggior parte dei casi necessario un certo lasso di tempo dall’evento lesivo, affinché si possa delineare una vera e propria patologia psichica. Generalmente deve intercorrere un congruo lasso di tempo dall’evento, che può raggiungere anche i due anni in soggetti in età matura. Per i minori, invece, l’individuazione del danno può richiedere un arco di tempo maggiore. I bambini, infatti, difettano completamente o parzialmente dell’effetto traumatizzante scaturito dal danno, che tende a concretizzarsi solamente con la maturità psichica e quindi, di solito, intorno alla maggiore età. Ad esempio, una bambina, che abbia subito una grave lesione nei primi anni di vita, potrà maturare la sofferenza psichica solo in un secondo tempo, e cioè in età adolescenziale, venendo a realizzare gli ostacoli che tale lesione comporta nei suoi rapporti con l’altro sesso, oppure, anche più tardi, nell’ingresso nel mondo del lavoro.

Problemi aperti.

L’apporto dello specialista, come si è già detto, è essenziale quando si tratti di agire per il risarcimento del danno psichico. Tuttavia, si deve considerare che detto apporto non sempre è risolutivo. Gli specialisti da un lato e avvocati e giudici dall’altro spesso non riescono ad intendersi sul significato da attribuirsi a parole chiave quali il nesso di causa. Gli psichiatri difettano di linee guida comuni e non sempre comprendono le necessità dell’avvocato, che di frequente si vede costretto ad ultimare e quindi interpretare il lavoro che suo non è, al fine di vedere riconosciuta l’aspettativa del danneggiato che si concretizza nel momento del risarcimento.

Un primo problema che si pone in questo settore riguarda la valutazione del danno psichico e la necessità di individuare una percentuale di riferimento.

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Il danno psichico, sotto il profilo naturalistico, consiste in qualsiasi alterazione peggiorativa del funzionamento della psiche di un soggetto, e cioè in alterazioni di determinati processi mentali8. Se così è, il danno psichico dovrebbe risultare risarcibile anche quando l’alterazione sia solo temporanea9.

Tuttavia, allo stato attuale sussiste una notevole differenza tra come il danno psichico viene inteso dal punto di vista naturalistico e viene delineato in psichiatria, e come invece il danno psichico è stato delineato dalla Corte costituzionale.

La Consulta, infatti, nella nota sentenza in Sgrilli c. Colzi (n. 372/1994)10 ha distinto tra danno morale e danno psichico, precisando che mentre il primo consisterebbe in un “patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte”, il secondo invece richiederebbe il consolidamento in un “trauma psichico” duraturo.

Dalla linea di demarcazione tracciata dalla Corte costituzionale tra danno psichico e danno morale, peraltro spesso recepita dalle corti di merito e dalla Cassazione, sembrerebbe dunque emergere che per il risarcimento del danno psichico dovrebbe sussistere una permanenza nel tempo delle conseguenze lesive della psiche.

Ciò ovviamente può essere criticabile (non si vede infatti per quale motivo non sarebbe possibile ravvisare un danno biologico di natura psichica temporaneo), ma comunque la conseguenza di questa impostazione è che nella pratica i giudici, fatte salve rare eccezioni, ci hanno insegnato a riconoscere il danno psichico solo quando esso si trovi espresso nelle stesse modalità in cui viene delineato nella prassi il danno biologico permanente, e cioè in punti percentuali di invalidità.

Per l’avvocato è dunque importante che lo psichiatra quantifichi il danno: il consulente deve fornire una percentuale di I.P., sia pure approssimativa, oppure deve indicare una percentuale minima ed una massima, un range di riferimento (e questa ritengo sia forse la soluzione migliore, poiché il danno psichico non può essere espresso, come una frattura, in una percentuale precisa).

8 Così Brondolo e Marigliano, Danno psichico, Milano, 1996.

9 Il danno psichico temporaneo è stato ad esempio riconosciuto nelle due sentenze torinesi sul mobbing, su cui vedi nota 6.

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Un consulente, che non quantifica numericamente, mette in difficoltà le parti, così come il giudice, lasciando quindi ad altri il compito di ultimare quel lavoro, che senza dubbio gli compete.

La quantificazione, che deve operare lo specialista, è il punto di partenza del lavoro dell’avvocato e del giudice per sviluppare il suo ragionamento senza comunque vincolarlo.

Certamente la valutazione in punti percentuali o a fasce del danno psichico continuerà a porsi come uno dei problemi chiave di questo settore fino a quando la medicina legale e gli psichiatri non giungeranno ad elaborare delle tabelle per il danno psichico, che senz’altro non dovranno porsi come la verità assoluta, bensì come base di partenza per giungere ad un risultato che veda tutte le vittime trattate con una certa uniformità.

Come si è detto, la necessità di avere una valutazione in punti percentuali sorge dal modo in cui in questi anni è stato impostato lo schema risarcitorio del danno psichico. Se invece, dinanzi ad una alterazione psichica, il consulente ritenga sussistere solo un’alterazione psichica temporanea, la liquidazione diventa difficile, poiché salta lo schema che si è venuto a consolidare nella giurisprudenza e lo sforzo dello psichiatra di individuare una patologia temporanea rischia di essere vanificato. In questa ipotesi, il danno psichico potrebbe essere in qualche modo risarcito oppure verrà assorbito nel danno morale?

Seguendo l’orientamento attuale l’alterazione psichica temporanea, individuata dallo psichiatra, dovrebbe ricadere esclusivamente nel danno morale, che tuttavia non sempre risulta risarcibile, essendo condizionato ex art. 2059 c.c. dalla sussistenza di una fattispecie di reato.

Una soluzione diversa, a mio avviso, potrebbe essere quella di invitare il consulente ad essere più chiaro nell’indicare la durata della lesione psichica, delineando minuziosamente i fattori che possono aumentare tale durata e la loro incidenza diretta sulla validità biologica. In questo caso il danno psichico, superando la prassi attuale, potrebbe venire liquidato secondo le modalità generalmente seguite per la quantificazione del danno biologico temporaneo di natura fisica.

10 Corte cost., 27 ottobre 1994, 372, cit.

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Si pensi ad esempio al caso in cui un genitore subisca la perdita di un figlio e, in conseguenza di questo evento, attraversi un periodo, in cui viene a soffrire disturbi psichici (ansia, disturbi del sonno, ecc.) e deve sottoporsi a sedute psichiatriche, e, dopo un anno, guarisce da tale malattia: in questa ipotesi, oltre il danno morale, si avrà altresì un danno biologico di natura psichica, tuttavia temporaneo, risarcibile solo se si accoglie la tesi sopra esposta.

Infine, sul punto mi pare opportuno rilevare come invero non sia del tutto agevole ragionare sul danno psichico nello stesso modo in cui si usa fare per il danno fisico, e cioè distinguendo tra invalidità temporanea e invalidità permanente. Forse sarebbe meglio sganciare l’approccio del danno psichico dagli schemi utilizzati per il danno biologico fisico, individuando, come avviene ad esempio in Inghilterra11, varie classi di gravità di malattia psichica, e collocando in quelle inferiori le patologie psichiche che potrebbero più verosimilmente risolversi nel tempo (ad esempio lo stress post-traumatico), inserendo poi nelle altre classi i danni più importanti.

I problemi finora esaminati non esauriscono le difficoltà che si pongono in questo settore.

Un altro scoglio è quello del nesso di causa, poiché questo istituto viene spesso inteso in modo differente a seconda che ad utilizzarlo sia un avvocato o uno psichiatra. Mentre per quest’ultimo il nesso di causa opera come una esimente o un fattore, tramite cui ridurre il danno, per il giurista ciò che interessa è dimostrare che le conseguenze lesive si sono verificate a causa dell’evento oggetto della controversia: una volta provato questo collegamento, la liquidazione è piena e non può essere ridotta in considerazione di un fatto precedente rimasto chiuso nel subconscio della vittima per anni.

Si pensi a questo esempio. Tizio si reca a fare una passeggiata. Ad un certo punto esce da un cancello un alano che, bloccandolo contro un muro, gli mette le zampe sulle spalle e gli ringhia a qualche millimetro dal naso, senza tuttavia morderlo ed arrecargli danni fisici. Dopo qualche minuto il cane si allontana come se nulla fosse successo e rientra nel suo giardino. Mettiamo il caso che Tizio nell’infanzia avesse già subito un’aggressione analoga e solo la nuova aggressione generi un danno psichico. Questo danno per il giurista è pienamente risarcibile. Per lo psichiatra

11 Ad esempio Judicial Studies Board, Guidelines for the assessment of General Damages, 3rd ed., London, 1996.

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l’aggressione, che Tizio ha subito in infanzia, può invece assumere rilievo, sotto il profilo del nesso di causa, con una conseguente riduzione dell’effettivo danno patito vista la predisposizione del soggetto.

Quando dunque leggiamo in perizia che sussiste un problema di nesso di causa, è opportuno sempre vagliare le osservazioni del consulente alla luce del concetto giuridico di causalità, perché non è detto che a questo abbia fatto correttamente riferimento il perito.

Altra questione pratica è quella delle prove necessarie per il risarcimento del danno psichico.

Questo problema si pone nella misura in cui il danno psichico trova il suo principale supporto in ciò che la vittima ha manifestato e raccontato al consulente tecnico: la vera difficoltà è pertanto di rendere oggettivo il danno.

Sul punto il dibattito è accesso e si contrappongono teorie restrittive a teorie invece certamente non meno rigorose, ma che presuppongono la necessità di dare ingresso nel processo a tutte le fonti probatorie.

Per taluni sarebbe necessaria un’ampia documentazione clinica. Ora, non si nega qui che la stessa possa contribuire non poco a documentare il danno patito, pur tuttavia è necessario chiarire che la documentazione clinica non può venire a costituire una condicio sine qua non per il risarcimento del danno psichico. Sarà invece quanto mai opportuno provare anche per testi che il soggetto ha modificato in peius il suo modo di atteggiarsi verso i famigliari e, più in generale, verso i terzi, oppure che ha sviluppato rituali ossessivi o manifesta fobie o paure, od altro. Se vengono provati testimonialmente questi riflessi sulla vita quotidiana della vittima, non dovrebbero sussistere problemi al risarcimento del danno psichico, anche quando manchi del tutto una documentazione clinica. Ovviamente la difficoltà sarà quella di formulare dei capi di prova che non siano tacciati di essere troppo valutativi, ma non mi sembra che possa essere considerato inammissibile un capo di prova in cui si richieda di descrivere oggettivamente come è variato il modo di atteggiarsi di un soggetto verso la famiglia o la vita dopo un certo evento lesivo, oppure quali fobie sia venuto a sviluppare. Dichiarare come inammissibili capi di prova di questo genere significherebbe in buona

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sostanza impedire alla vittima di provare le sue lesioni. L’accertamento del danno psichico è una questione di sensibilità, di impressioni, di racconti e di ciò i giudici ne devono tenere debitamente conto.

Conclusioni.

Da quanto finora si è cercato di mettere in luce, mi sembra si possano trarre le seguenti conclusioni.

1) In primo luogo è necessario che vi sia una maggiore attenzione da parte degli psichiatri ai risvolti giuridici del loro lavoro: deve quindi svilupparsi un dialogo più intenso tra specialisti ed avvocati.

2) I consulenti tecnici, per fornire un apporto più proficuo, devono quantificare il danno psichico, individuando quantomeno un range di I.P. oppure la durata dell’invalidità psichica, quando questa sia stata solo temporanea.

3) È’ necessario giungere a delle tabelle indicative del danno psichico in modo tale che vi sia maggiore uniformità di trattamento in ambito nazionale o quantomeno a livello territoriale di ogni corte d’Appello.

4) Bisogna essere più attenti nel predisporre dei capi di prova idonei a “fotografare” il danno: la diagnosi si costruisce anche su circostanze riferite da terze persone ed i giudici devono essere più flessibili sulla ammissibilità delle prove testimoniali, poiché altrimenti si rischia di impedire alle vittime di provare le loro sofferenze.

La ricerca di un danno psichico non può essere esasperata per non andare a tutto pregiudizio dell’evoluzione del danno stesso, e ciò fino a quando quest’ultimo sarà ancora equiparabile all’altra faccia della luna.

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