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IL DANNO PSICHICO TRA MEDICINA LEGALE E DIRITTO

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IL DANNO PSICHICO

TRA MEDICINA LEGALE E DIRITTO

Premessa

La figura del danno psichico, recentemente riproposta all’attenzione degli operatori giuridici dall’ordinanza della corte Cost. n. 293 del 22/7/96, costituisce una fattispecie di danno alla persona tuttora oggetto di dibattito sia nel campo del diritto che in quello della stessa scienza medico-legale.

E’ pertanto rimessa ad ogni soggetto chiamato ad applicare la disciplina della responsabilità civile per danno all’integrità psichica la ricerca di una possibile sintesi tra i contributi allo studio del fenomeno maturati in ciascuna delle due discipline.

L’operazione deve peraltro essere condotta dal giurista con la consapevolezza che nell’ambito del danno psichico l’apporto della medicina legale non può essere limitato alla fase dell’accertamento e valutazione dell’offesa all’integrità personale della vittima, ma deve piuttosto essere valorizzato già nella fase della definizione del concetto di danno alla psiche (1) e di determinazione dei suoi rapporti con il danno biologico ed il danno morale, che non possono essere elaborate se non muovendo dalle attuali cognizioni mediche.

Una volta determinati, con il ricorso a nozioni mediche e giuridiche, il concetto ed i confini del danno psichico, se ne potranno altresì individuare, sia pure per sommi capi, le peculiarità rispetto alle altre consuete figure di danno all’integrità fisica.

Nozione e categoria di danno psichico.

Rapporti tra danno psichico e danno biologico

Nella sentenza della Corte Cost. n. 184/86 il danno biologico (2) veniva descritto come

“menomazione dell’integrità psicofisica dell’offeso”.

La rilevanza giuridica della componente psichica dell’integrità personale, e la sua riconducibilità al concetto di “salute”, bene-interesse costituzionalmente protetto dall'art. 32 Cost., e perciò necessariamente tutelato dall’art. 2043 c.c., si ritrovano quindi affermati sin dalla nascita giurisprudenziale della tematica del danno biologico.

L’espressione sintetica “integrità psicofisica” non deve peraltro indurre a ritenere che la rilevanza giuridica dell’offesa alla psiche (intesa come “complesso dei fenomeni e delle funzioni che consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo, e di agire di conseguenza” (3) sia limitata alla sole ipotesi nelle quali la lesione psichica sia preceduta, accompagnata o seguita da una parallela lesione fisiologica.

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Infatti il progressivo superamento del concetto della necessaria organicità della lesione alla psiche (4) consente di qualificare come danni psichici patologie della mente che non sono conseguenza di un trauma fisico di cui sia vittima lo stesso danneggiato, e che no producono a quest’ultimo menomazioni fisiche.

Pertanto rientrano nel concetto di danno psichico, inteso come “peggioramento del modo di essere di una persona a causa di un disturbo psichico, determinato da una lesione psichica, cioè da un’ingiusta turbativa del suo equilibrio psichico” (5), le seguenti specie di danno (6):

a) danno psichico conseguente a danno fisico subito dallo stesso soggetto;

b) danno psichico conseguente al danno fisico subito da altro soggetto;

c) danno psichico indipendente dal danno fisico;

d) danno psichico che è causa di danno fisico.

La riconducibilità di tutte tali lesioni al concetto di pregiudizio all’integrità personale elaborato dalla sentenza costituzionale 184/86 comporta quindi la classificazione del danno psichico come una delle forme nelle quali può manifestarsi il danno biologico. La coincidenza tra danno biologico e danno psichico è anzi talmente netta che in dottrina, per evitare che la duplicazione dei termini rifletta confusione sul medesimo concetto, si propone di negare l’autonomia del concetto di danno psichico rispetto a quello del danno alla salute (7), o di adottare la più esplicita definizione di

“danno biologico di natura psichica” (8).

Il danno biologico di natura psichica ed il danno morale

La peculiare natura del danno psichico, che interessa per definizione anche la componente umana dell’emotività e dell’affettività, rende necessario tracciare un discrimine tra il dolore morale o la sofferenza psicologica provocati alla vittima dall’illecito e l’insorgenza di vere e proprie patologie della psiche causate dallo stesso fatto.

Non si tratta ovviamente di una distinzione puramente terminologica, in quanto il danno morale - comunemente noto come pretium doloris - presenta le seguenti caratteristiche, estranee invece al danno biologico:

a) risarcibilità nei soli casi di illecito civile che costituisce anche reato (art. 185 c.p.), o comunque in altre ipotesi tipizzate dal legislatore (art. 2059 c.c.);

b) incompatibilità con ogni fattispecie di responsabilità civile nella quale l’accertamento della colpa dei convenuti sia fondato esclusivamente su presunzioni legali (tipico l’art. 2054 c.c),

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poiché la presunzione della responsabilità penale non è costituzionalmente consentita nel nostro ordinamento;

c) utilizzabilità di un criterio di liquidazione “assolutamente” equitativo, ovvero sganciato da ogni considerazione medico-legale, nonché di fatto privo di un oggettivo parametro diverso dalla coerenza del medesimo Giudice nel valutare casi analoghi, e comunque destinata ad esprimere una somma che ha valore più simbolico che riparatorio.

La Corte Cost., che ha affrontato inizialmente il problema occupandosi del danno psichico cagionato ai prossimi congiunti della vittima di un illecito mortale, ha ritenuto nella sentenza n.

372/94 che il trauma psichico permanente subito dai familiari sopravvissuti, costituendo “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale”, deve comunque essere risarcito nelle sole ipotesi di cui all’art. 2059 c.c., sia pure con una liquidazione che tenga conto delle “conseguenze in termini di perdita di qualità personali” e non si limiti al mero pretium doloris”.

La sentenza in questione, accolta con molte perplessità dalla dottrina (9), non può tuttavia essere utilizzata per legittimare l’automatica riduzione del danno psichico al danno morale, in quanto la motivazione che la sorreggeva - come la stessa Corte ha espressamente chiarito, con una sorta di interpretazione autentica, nella recente ordinanza n. 293/96 - era ritagliata sulla fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo, relativa alla “somatizzazione del danno morale” da parte di “persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc. ...”, e non riguardava necessariamente qualsiasi altra specie di danno all’integrità psichica.

Inoltre nella stessa sentenza la Corte Cost. escludeva che il danno psichico ai congiunti potesse, nel caso di specie, inquadrarsi sistematicamente nell’area dell’art. 2043 c.c. per motivi attinenti all’elemento soggettivo di quella specifica fattispecie di illecito aquiliano (ovvero per l’imprevedibilità, da parte del danneggiante, del danno-evento rappresentato dalla sindrome reattiva del familiare del deceduto) (10), ma non per ragioni ontologicamente connesse al danno psichico di per sé stesso.

Ed infatti l’ammissibilità di una collocazione del danno psichico nell’area del danno patrimoniale risarcibile ex art. 2043 c.c., piuttosto che in quella della mera pecunia doloris, è stata espressamente affermata dalla stessa Corte cost. nella recente ordinanza n. 293 del 22.7.96 che (richiamando espressamente la già citata sentenza n. 372/94, e sulla scia di una affermazione analoga contenuta nella sentenza n. 184/86) (11) individua l’elemento della durata del danno nel tempo come criterio differenziale tra le due ipotesi, cosicché il turbamento psicologico transeunte

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costituirebbe danno morale (2059 cc.), mentre quello permanente diverrebbe danno biologico di natura psichica (2043 c.c.).

La scelta del discrimine appare tuttavia opinabile, poiché essa condurrebbe a negare a priori la configurabilità di un danno psichico temporaneo, creando un’ingiustificata asimmetria con il danno biologico solo temporaneo di natura fisica, la cui rilevanza non è mai stata contestata dalla giurisprudenza o dalla medicina legale (12).

Né peraltro potrebbe sostenersi che l’esclusione della possibilità di un danno psichico non permanente costituisce un dato acquisito nella scienza medico-legale, nella quale viceversa si registrano forti perplessità sullo stesso concetto della permanenza del danno nell’ambito psichiatrico, sia per le notevoli capacità di adattamento e recupero della psiche, sia per la perenne evoluzione della componente psichica della salute umana (13).

Si è sostenuto da parte di autorevole dottrina che il discrimine tra il patimento tipico del danno morale e la patologia propria del danno psichico dovrebbe piuttosto indiviudarsi nel contenuto della situazione negativa vissuta dal danneggiato, che costituirebbe danno biologico di natura psichica quando “ne impedisce, in tutto o in parte, la vita quotidiana (14)”.

Ma anche tale tesi è stata criticata (15), in quanto richiede un requisito ulteriore rispetto a quelli necessari per la configurazione del danno biologico di natura fisica, nel quale la lesione alla salute assume rilevanza anche se non priva il danneggiato della possibilità di espletare le consuete attività quotidiane.

In realtà l’individuazione del confine tra la mera sofferenza morale ed il danno psichico non può essere astrattamente predeterminata dal giurista, ma deve essere rimessa per ogni singolo caso al medico legale, allo psichiatra ed al neurologo che, avvalendosi del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV), e di ogni altro strumento di accertamento, neurologico o psico- diagnostico, dovranno valutare se il danneggiato sia (o sia stato) affetto da un disturbo psichico, anche solo temporaneo, riconducibile alle categorie proprie della psicopatologia e della nosografia psichiatrica.

In questo modo il fattore cronologico della permanenza del disturbo non costituirà un requisito necessario del danno, ma uno degli elementi da valutare, soprattutto ai fini della quantificazione del risarcimento.

La totale rimessione alla scienza medica dell’arduo compito di tracciare i confini tra la sofferenza “normale” e la patologia appare certo più opportuna di qualsiasi affermazione teorica giuridica astratta che, per arginare una temuta alluvione di domande risarcitorie per lesioni all’integrità psichica di scarsa rilevanza effettiva, volesse confinare quanti più casi possibili di

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danno psichico nell’area del danno morale, così rischiando di far nascere tutta una serie di nuove fattispecie (già si parla ad esempio del danno esistenziale” (16) per sottrarle alle strettoie dell’art.

2059 c.c.

La causalità nel danno psichico:

la multifunzionalità, lo stato preesistente ed il trauma scatenante

Secondo la ricostruzione sistematica (peraltro mutuata dal diritto penale) effettuata dalla Corte Cost. già nella sentenza 184/86, e confermata nella successiva sentenza 372/94, la struttura della fattispecie di danno alla persona sarebbe la seguente:

a) una condotta colposa o dolosa contra ius e non iure data;

b) un conseguente danno-evento naturalistico, rappresentato dalla diminuzione, permanente o temporanea, dell’integrità psicofisica;

c) una serie di danni-conseguenze ulteriori che l’evento naturalistico produce nella sfera giuridica della vittima, come il danno morale ed il danno patrimoniale in senso stretto (17).

Il nesso eziologico tra la condotta ed il danno evento ha carattere materiale, deve essere considerato alla stregua degli artt. 2043 c.c. e 40-41 c.p., e va accertato utilizzando la teoria della conditio sine qua non o dell’equivalenza causale, secondo cui “tutti gli antecedenti in mancanza dei

quali un evento non si sarebbe verificato debbono considerarsi causa di esso, senza distinguere fra quelli che hanno operato in via diretta o prossima e quelli che hanno avuto influenza soltanto indiretta e remota, salvo che l’antecedente prossimo sia stato di rilievo tale da essere sufficiente da solo a determinare l’evento ...” (Cass. 14.6.82, n. 3621).

La teoria della conditio sine qua non va peraltro fatta interagire con la verifica controffatuale condotta alla stregua delle leggi scientifiche assolute e statistiche, per cui la condotta è causa dell’evento se, senza di essa, quest’ultimo si sarebbe certamente, o almeno con elevata probabilità, verificato comunque.

Il nesso causale tra il danno-evento ed i danni-conseguenza ha invece carattere giuridico, ed è regolato dall’art. 1223 c.c., per il quale il danno emergente o il lucro cessate devono esser

“conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.

Poiché si è già chiarito che il danno all’integrità psichica è un danno-evento, la causalità che lo riguarda è quella naturalistica, che va accertata utilizzando la scienza medico-legale (18), ed

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accettando “la possibilità teorica di un margine inevitabile di relatività” (Cass. 21.4.77, n. 1476, proprio in tema di accertamenti medico-legali) insito anche in tale disciplina.

Peraltro la peculiarità del danno psichico reagisce anche sul nesso eziologico, che presenta alcune caratteristiche particolari:

La multifattorialità

In psichiatria, per definizione, la causa dei disturbi psichici non è mai unica e lineare, ma di regola nasce dall’interazione tra i seguenti fattori: biochimico, psicologico, familiare e sociale.

Nella maggior parte dei casi l’accertamento clinico e medico-legale fornirà quindi al Giudice un quadro di concause, tra le quali l’evento stressante costituito dall’illecito avrà di regola la preminenza (19).

Poiché la concausalità è una costante scientifica del danno, non sembra che dal punto di vista giuridico potrà riconoscersi alla condotta illecita l’efficienza causale esclusiva della menomazione.

Il contributo concorrente del danneggiante andrà quindi quantificato, e soltanto nei limiti di esso il responsabile sarà tenuto al risarcimento.

Lo stato preesistente e l’evento scatenante

Una ineliminabile concausa del danno psichico è lo stato preesistente del danneggiato, ovvero il substrato psichico che era proprio di quest’ultimo già prima dell’illecito (20).

Può a volte accadere che la condotta illecita si limiti a scatenare una psicopatologia già latente nella vittima.

Dal punto di vista scientifico, l’evento stressante potrebbe anche avere modesta entità, ma concorrere in minima parte alla causazione del danno attraverso l’interazione con lo stato pregresso del danneggiato.

Dal punto di vista giuridico, poiché l’accertamento del rapporto eziologico va condotto secondo le leggi scientifiche del settore, neanche in tale ipotesi potrebbe negarsi la derivazione causale.

Tuttavia il pericolo di un irrazionale proliferare di domande risarcitorie per danno psichico derivati da fatti di limitata rilevanza lesiva (il danneggiamento di una pianta o di un oggetto dall’elevato valore affettivo, la morte di un piccolo animale domestico, una lesione fisica personale facilmente guaribile) potrebbe essere scongiurato escludendo nel caso concreto l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ovvero negando che il danno psichico diretto o indiretto,

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rappresentando una reazione abnorme all’evento stressante, fosse ex ante ed in concreto prevedibile dall’agente come frutto della sua condotta (21).

L’accertamento giudiziario del danno psichico

E’ opportuno che la consulenza tecnica d’ufficio, nel caso del danno psichico, venga affidata ad un collegio composto da un medico legale, uno psichiatra e/o un neurologo (22), in modo da garantire la più ampia competenza ed esperienza nella fase diagnostica ed in quella valutativa.

La necessità scientifica di protrarre o di reiterare l’esame del danneggiato nel corso di un consistente lasso di tempo non sembra incompatibile - considerati i deprecabili lunghi tempi medi del giudizio civile - con le esigenze processuali: il G.I., stimolato dal CTU o dai consulenti di parte, potrà in ogni momento disporre il rinnovo o l’integrazione dell’accertamento, ai sensi dell’art. 196 c.p.c.

Non sussistono, infatti, neanche nel nuovo rito civile, preclusioni o decadenze per la consulenza d’ufficio, che è un mezzo istruttorio e non un mezzo di prova, e che quindi non rende neanche necessario concedere alle parti il termine per dedurre altre prove di cui all’art. 184, ultimo comma c.p.c., essendo sufficiente garantire il contraddittorio nella fase delle ulteriori operazioni peritali.

Peculiari problemi di carattere procedurale potrebbero profilarsi rispetto alla attività di indagine che il CTU deve compiere per acquisire quel complesso di informazioni (di carattere medico, ma anche sociale) che, contribuendo ad illustrare lo stato psicologico del danneggiato prima del sinistro, consentono una adeguata valutazione dell’efficienza della concausa rappresentata dall’illecito.

Deve escludersi che l’entrata in vigore del c.d. nuovo rito processuale civile (che non ha modificato l’impianto normativo relativo alla figura ed alle funzioni del CTU e che, pur fissando nell’art. 184 c.p.c. delle preclusioni temporali alle deduzioni istruttorie delle parti, non ha certo inciso sulla disciplina sostanziale delle prove dettata nel codice civile) precluda al G.I. di assegnare al consulente, oltre alla comune funzione deducente, anche quella percipiente, incaricandolo (come la giurisprudenza di legittimità ha più volte ritenuto corretto nel vigore del c.d. vecchio rito) di acquisire, a norma degli art. 62 e 194 c.p.c., notizie ed accertare fatti anche non rilevabili dagli atti processuali (Cass. 4644/89; 3734/83), sempre che si tratti di dati rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche (Cass. 3351/87; 4533/85), e di circostanze che siano intimamente collegate con quelle già acquisite attraverso il meccanismo delle prove (Cass. 3553/80).

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Il CTU medico-legale potrà quindi essere autorizzato - come prevede espressamente l’art. 194 c.p.c. a domandare chiarimenti alle parti, ma anche ad assumere informazioni presso terzi, e ad acquisirle nelle forme più idonee al caso concreto.

Ma anche in mancanza di tale preventiva autorizzazione le informazioni raccolte dall’ausiliario, quando ne siano indicate le fonti in modo da permettere il controllo delle parti (Cass. 2865/95), e quando sia stato assicurato il contraddittorio nella loro raccolta da parte del CTU (10971/94), possono concorrere con le altre risultanze i causa alla formazione del convincimento del Giudice.

In questi limiti, nessuna alterazione dell’onere probatorio sembra ravvisabile nell’attribuzione al consulente della funzione più o meno ampia di indagare - a fini diagnostici e valutativi - nel vissuto del danneggiato antecedente al sinistro, per selezionare ed interpretare dati che possano limitare l’efficienza causale dell’illecito oggetto del giudizio.

Non sembra del resto logicamente praticabile l’alternativa processuale che rimettesse esclusivamente al convenuto, per dimostrare la ridotta efficienza causale dell’illecito sul danno psichico, l’onere pressoché impossibile di provare in giudizio le complessive caratteristiche psichiche preesistenti del danneggiato, desumibili in concreto da una serie infinita di episodi e circostanze, che solo con l’ausilio della scienza medica è possibile tentare di delimitare e selezionare.

Quanto poi alla difficoltà dell’accertamento rimesso al collegio peritale l’operatore del diritto - che sull’esito della consulenza fonderà la decisione - non può che limitarsi a registrare con sollievo l’affermazione della scienza medica secondo la quale “Nel caso del danno psichico l’indagine psicodiagnostica consente di individuare, con alta probabilità, i casi di simulazione” (23), nonostante il medico legale non possa utilizzare - a differenza di quello che accade nella psichiatria clinica - il criterio dell’invio o dell’accesso, secondo il quale il solo fatto che una persona si rechi, spontaneamente o consigliata da altri, dallo specialista è indizio della sua reale sofferenza psichica (24).

La valutazione del danno psichico

Anche nel settore del danno psichico si manifesta lo sforzo della scienza medico legale di tradurre le diverse patologie in un sistema di valori (25) dal quale il Giudice non può prescindere senza ridursi a valutazioni di equità prive di parametri che le rendano tra loro coerenti.

Degna di rilievo giuridico sembra peraltro l’indicazione valutativa, espressa in medicina legale, secondo la quale “è scientificamente improponibile una percentuale di danno inferiore al dieci per

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cento dell’integrità psichica della persona “poiché in tale percentuale rientrerebbero quelle condotte e quegli atteggiamenti (ad esempio il perenne malumore del pessimista) che compongono il “modo di essere” di ciascuna persona e che sono note e tollerate nell’ambiente familiare e sociale di appartenenza (26).

Non pare che tale sorta di franchigia possa ritenersi equivalente alla ben nota figura delle micropermanenti relative al danno biologico fisico.

Per queste ultime infatti la menomazione dell’integrità fisica non è in discussione, ma si pone il problema di adottare criteri di abbattimento percentuale della ordinaria liquidazione a punto.

Viceversa nel danno psichico, se non si interpreta male l’indicazione proveniente dalla medicina, l’area del dieci per cento coprirebbe manifestazioni psichiche non definibili scientificamente come vere e proprie patologie, e quindi non costituenti danno biologico, pertanto non risarcibili. La delimitazione scientifica dell’area del mero “modo di essere”, qualora la sua convenzionale traduzione in termini percentuali si consolidasse nella scienza medica, potrebbe allora in futuro costituire lo strumento per una tendenzialmente uniforme (per quanto rozza come ogni mera espressione quantitativa) selezione tra danno morale e danno biologico di natura psichica.

Dr. Michele Cataldi Magistrato al Tribunale civile di Latina

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