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IL DANNO PSICHICO

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Academic year: 2022

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IL DANNO PSICHICO

Gennaro Giannini*

1. Il danno psichico come danno biologico

Con una progressione inesorabile, nell'arena delle liti giudiziarie si registrano sempre più numerose le richieste (e le concessioni di risarcimento per le menomazioni dell'integrità psichica della persona. La casistica comprende il danno da inquinamento acustico (non bisogna dimenticare, tra l'altro, come alcune tra le più significative decisioni della S.C. sul danno biologico siano state pronunciate proprio in controversie di questo tipo (v. per esempio, Cass. 6 aprile 1983 n. 2396, in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1983,713), il danno alla salute psichica del lavoratore determinato da comportamento del datore di lavoro (cfr. Cass. Sez. Lav. 20 dicembre 1986 n.

7801, in Resp. Civ. Prev. 1988,41), il "danno da stress" (v. Trib. Biella 22 aprile 1989, in Foro It.

1990,I,3303, e Trib. Biella 16 settembre 1989, in Resp. Civ. Prev. 1989,1191), l'alterazione dell'equilibrio mentale dei congiunti in ipotesi di morte della vittima (v. Trib. Milano 2 settembre 1993, in Resp. Civ. Prev. 1993, 1009), ed altre ipotesi, come quella - classica - della depressione reattiva conseguente a macrolesioni fisiche, o anche, più genericamente, quella della "grave sindrome da esaurimento nervoso" (Cass. 30 gennaio 1990 n. 411, in Mass. Foro It. 1990,60).

Una nuova figura di danno? No di certo.

In una decisione della Corte d'Appello di Modena, risalente a più di ottant'anni or sono venne affermato il principio della risarcibilità del "danno derivato alla viaggiatrice dal trauma psichico provocato dalla caduta della figlia attraverso lo sportello del vagone che si trovava aperto per colpa delle ferrovie" (App. Modena 20 dicembre 1913, in Monit. Trib. 1914,871). Ciò perché anche tale danno fu ritenuto eziologicamente ricollegabile alla colpa del responsabile (causa- causae est causa causati).

Il fatto è che, come ha rammentato ben più di recente la Corte d'Appello di Milano, "l'integrità della persona e il bene primario della salute, nella cui lesione si sostanzia il danno biologico, non può essere valutata in termini esclusivamente fisici, materialmente constatabili, ma comprende

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anche la sfera emotiva e psichica, le cui sofferenze sono meno obbiettivamente misurabili, ma non per questo meno reali" (App. Milano 29 novembre 1991, in Resp. Civ. Prev. 1992,424).

Dunque, il c.d. danno psichico non è altro che l'aspetto psichico del danno biologico. Se il danno biologico consiste nella violazione dell'integrità psicofisica della persona, consegue che la lesione corporale, quale violazione dell'integrità fisica della persona, darà luogo a un danno biologico di tipo fisico; mentre la lesione psichica, quale violazione dell'integrità psichica della persona, darà luogo a un danno biologico di tipo psichico. Naturalmente è da tener presente il concetto unitario dell'uomo, poiché "soma" e "psiche" formano un'entità unica e inscindibile. Ciò vuol dire che, da un lato, la lesione corporale ha certamente riflessi psichici (si pensi, per esempio, agli stati depressivi originati da lesioni fisiche); e che, dall'altro, anche la lesione psichica ha riflessi corporali (tachicardia, aumento della pressione arteriosa, mutamenti ematochimici, ecc.), come del resto comprovano tutte le malattie psicosomatiche.

In definitiva e per la precisione, per danno fisico si deve intendere il danno biologico a carattere prevalentemente fisico, come per danno psichico si deve intendere il danno biologico a carattere prevalentemente psichico.

2. Problemi peculiari del danno psichico

Al contrario della lesione fisica - che è un fenomeno tangibile, constatabile e controllabile anche a posteriori in tutti i suoi dettagli - la lesione psichica rappresenta un fenomeno intangibile, e le menomazioni che ne conseguono sono caratterizzate da elementi incorporei con sintomatologia soggettiva, che si manifestano attraverso il comportamento del danneggiato.

Tale comportamento non è più correlato - come accadeva un tempo - al concetto di

"pericolosità" o di "follia" del soggetto, ma consiste in atteggiamenti difformi da quelli ordinari, che erano propri della persona, qual era prima del fatto illecito. Si tratta di fenomeni vari per tipologia, gravità, durata e incidenza sulla vita del danneggiato, come l'ottundimento o la perdita delle capacità sensorie, la difficoltà nei movimenti, l'insonnia, l’attenuazione dei riflessi, le allucinazioni, l’intralcio nella favella, la difficoltà dì leggere o di esprimersi con la scrittura, l'anoressia, l'obesità, l'invecchiamento precoce, l'impotenza sessuale, la perdita della memoria, la

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perdita della creatività, delle facoltà espressive e lavorative, la perdita della capacità sociale o di intrattenere rapporti interpersonali, una sorta di demotivazione esistenziale accompagnata da un profondo scoramento, e cosi via.

Inquadrare queste manifestazioni nello schema del danno-evento quale delineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.184 del 1986 (azione - nesso causale - evento biologico di danno) è operazione tutt'altro che semplice e presenta non poche difficoltà sia nell'accertamento, sia nella valutazione, sia nella liquidazione del danno.

3. L'accertamento: danno psichico e danno morale La sentenza N. 372/94 della Corte Cost.

L'accertamento del danno psichico presenta due rilevanti problemi da risolvere sia in ambito medico-legale sia, e soprattutto, sul piano più strettamente giuridico. Uno è costituito dalla rilevanza del dolore, e quindi dalla differenziazione del danno psichico (che è danno biologico, e perciò danno-evento) dal danno sofferenza (che è danno morale, e perciò danno-conseguenza).

L'altro è costituito dall'eterna questione del nesso causale.

La distinzione tra dolore da un lato e danno psichico dall'altro è resa più complicata dal fatto che il dolore è sovente se non all'origine, certo una componente della malattia psichica. Per esempio, nel caso di uccisione di un congiunto occorre distinguere - per richiamare il titolo di un'opera di Sigmund Freud - tra lutto e malinconia, assegnando al primo termine il significato di sofferenza per la perdita del familiare e al secondo quello di vera e propria malattia psichica.

In psicologia, la differenza tra lutto e malinconia è che il primo è generato da un fatto esterno e conosciuto, mentre la seconda è indotta da causa endogena appartenente alla sfera dell’inconscio.

Dal punto di vista giuridico, la differenza è - e non può essere diversamente - che il lutto è danno morale, la malinconia danno biologico.

Come discernere, in concreto, l'una dall'altra ipotesi?

La risposta è che, per l'esistenza del danno biologico, occorre che sia stata riscontrata una lesione psichica, con conseguente stato di malattia (v. in tema di danno psichico da immissione dì rumori molesti, Cass. 6 maggio 1988 n. 3367, in Mass. Giust. Civ. 1988, fasc.5).

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La lesione psichica può essere definita come l'ingiusta turbativa dell'equilibrio psichico che sia causa di una modificazione peggiorativa dello stato dì salute della persona lesa, con alterazione - temporanea o permanente, totale o parziale - delle sue funzioni psichiche.

La malattia psichica può quindi essere definitiva come una condizione anormale, consistente in uno stato di alterazione psichica, ingenerato dal fatto illecito, che impedisce alla vittima di attendere - in modo temporaneo o permanente, totale o parziale - alle sue ordinarie occupazioni.

L'impedimento a svolgere le attività della vita quotidiana è, ai fini ripartitori del danno biologico di tipo psichico, la caratteristica saliente della malattia psichica, come lo è della malattia fisica, ai fini del risarcimento del danno biologico, dì tipo fisico; ed è, al contempo, il criterio discriminante tra danno psichico e danno morale, poiché il dolore, quale afflizione, in un certo qual modo "disturba", rendendola priva di fascino, la vita quotidiana, senza tuttavia impedirla: il dolore è un "peso" non una "menomazione".

Insomma, chi è afflitto da dolore, compie malvolentieri gli atti dì vita quotidiana, ma lì compie;

chi è afflitto da una malattia psichica, non riesce a compierli in tutto o in parte.

Questo mi sembra il senso della indicazione fornita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.

37 del 17 febbraio 1994 (in G.U. del 23 febbraio 1994), ove si legge testualmente: "Il rilievo del giudice a quo, secondo cui ‘il danno morale, che non ha ovviamente natura economica, costituisce pur sempre una lesione alla salute psicofisica ed in particolare, alla salute psichica’, non tiene quindi conto della lettura 'costituzionale" degli articoli 2043 e 2059 del codice civile indicata dalla giurisprudenza di questa Corte, peraltro in armonia con le più accreditate acquisizioni della dottrina civilistica e della giurisprudenza di legittimità . Altro problema è, invece, quello che, si riferisce all’ipotesi che la sofferenza fisica e morale determini effettivamente, di per se stessa, alterazioni della psiche tali da incidere negativamente sull’attitudine del soggetto a partecipare normalmente alle attività, alle situazioni e ai rapporti, in cui la persona esplica se stessa nella propria vita". Ossia: altro problema è quello del danno psichico (danno biologico) causato dal troppo dolore (danno morale), che impedisce troppo lo svolgimento delle attività di vita quotidiana.

In definitiva, il criterio discriminante tra danno morale e danno psichico non è quello della durata né quello della quantità del dolore, ma quello dei contenuti: la sofferenza è danno morale,

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mentre la menomazione delle funzioni psichiche che impedisce di vivere la vita nella intensità e nella estensione originarie, è danno biologico.

Corollario di quanto sin qui detto è che il danno psichico, quale danno-evento, può ingenerare i due danni-conseguenza: e cioè il danno morale, rappresentato della sofferenza che abbia il soggetto per la consapevolezza della lesione e della menomazione psichica subita; e il danno patrimoniale, per le spese di cura e per le perdite reddituali, quando la menomazione sia tale da incidere negativamente sull'attività lavorativa del leso.

Resta da accennare al fatto che, recentemente, la Corte Costituzionale, contraddicendo il suo precedente orientamento (enunciato, in particolare, nella sentenza n. 184/86 e nella già citata decisione n.37/94), ha in un certo qual modo rimescolato le carte e ha collocato la menomazione psichica (e persino quella fisica!) del familiare superstite, in ipotesi dì morte della vittima, sotto l’egida dell'art. 2059 c.c., e dunque nell'alveo del danno non patrimoniale (cfr. Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372, in Giust. Civ. 1994,I,3029).

Ha osservato la Corte che il pregiudizio dei congiunti è "connotato dalla disgiunzione del soggetto che pretende il risarcimento dal titolare del bene primariamente leso dal fatto illecito"; e che "il danno biologico patito dal familiare non è identificabile come danno evento, apparendo soltanto come conseguenza della lesione di un diritto altrui".

Tale costruzione non è peraltro accettabile.

Quando la stessa azione provochi due eventi di danno, entrambi i danneggiati subiscono un pregiudizio riferibile all'art. 2043 c.c., nella lettura interpretativa di cui all' art. 32 Cost., trattandosi di fatto illecito ad eventi plurimi. Non ha importanza se i due danni si verifichino simultaneamente (come può essere il danno psichico del bambino che assista alla morte del padre), oppure l'uno temporalmente successivo all'altro (il danno psichico del bambino che apprenda della morte improvvisa del padre), ben potendo sussistere il fatto illecito in cui l'evento di danno sì verifichi a distanza dì luogo e dì tempo rispetto all'azione del responsabile (si pensi all’inquinamento di acque, utilizzate a distanza di luogo e di tempo da una persona, che ne resti avvelenata oppure al danno psichico che insorga dopo un danno fisico). E' sempre la stessa azione che è causa di due danni, che sono entrambi eziologicamente riferibili alla condotta del responsabile.

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Non senza notare poi come, se anche fosse esatto il ragionamento della Corte circa l’individuazione del referente normativo nell'art. 2059 c.c., tale norma dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima, giacché consentirebbe il risarcimento per la violazione dì un diritto costituzionalmente protetto solo nella ipotesi del fatto costituente reato.

4. L'accertamento: la questione del nesso causale

L'altro problema peculiare del danno psichico è quello del nesso causale.

Per lungo tempo il danno psichico è stato trascurato soprattutto perché - salvo il caso della menomazione psichica strettamente connessa a una grave lesione fisica, come per esempio la demenza post-traumatica - si finiva per credere che il fatto lesivo fosse soltanto occasione e non causa del verificarsi della menomazione psichica, da imputarsi a una malattia preesistente, sia pure una malattia allo stato latente.

La tesi della mera occasione è peraltro troppo radicale per poter essere condivisa e non tiene conto del fatto che il danno biologico è comunque risarcibile, ancorché provocato in soggetto portatore dì altre menomazioni o patologie.

Se la "salute" consiste nell'equilibrio psicofisico concreto - qual è nella realtà e quindi anche se fragile, precario, ecc. dì ciascuna persona, l’ingiusto turbamento di tale equilibrio non può che essere danno sempre risarcibile.

La circostanza che una lesione fisica sia stata arrecata a un soggetto già fisicamente menomato non ha mai escluso la risarcibilità del danno, ma ha comportato soltanto l’applicazione di un coefficiente riduttivo nella stima del danno stesso (v. da ultimo Trib. Roma 14 settembre 1994, in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1994,859). Allo stesso modo, la circostanza che una lesione psichica

venga arrecata a un soggetto portatore di malattia psichica latente, non è tale da esimere dal risarcimento l'autore del fatto illecito.

Certamente bisogna tener conto delle eventuali "concause" derivanti dalla struttura psichica del soggetto leso: infatti, lo stesso evento traumatico (per esempio, la perdita improvvisa di un familiare) può provocare in soggetti inseriti nel medesimo contesto familiare - due coniugi, due

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fratelli - situazioni di danno completamente diverse (per un soggetto, solo dolore che sì attenua;

per l'altro, menomazione psichica permanente).

Da ciò consegue che il danno psichico non può mai essere presunto, dovendo essere accertato, caso per caso, a mezzo di idonea consulenza tecnica. Il perito prescelto riferirà poi quanta parte del pregiudizio è addebitabile al fatto illecito e quanta, invece, alla preesistente struttura-, psichica di base.

I criteri di accertamento del nesso causale sì riferiscono, di solito, all’idoneità e all'adeguatezza del fatto lesivo per l'insorgere del danno: tenuto però presente che in medicina (in generale) e in psichiatria (in particolare) non vi sono certezze e che pertanto i criteri in parola sono criteri meramente probabilistici, formulati sulla scorta delle cognizioni scientifiche del momento (cfr.

Fiori, "Il criterio di probabilità nella valutazione medico legale del nesso causale", in Riv. It. Med.

Leg. 1991; v. anche Cass. 16 novembre 1993 n. 11287, in Mass. Giust. Civ. 1993, fasc.11).

Tale soluzione è accettabile anche dal punto di vista giuridico, poiché il "fatto" del danneggiato - nel nostro caso: il suo modo dì essere, in concreto - interrompe il nesso causale solo quando si ponga come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, si da privare di efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell’illecito (Cass. 10 novembre 1993 n. 11087, in Mass. Giust. Civ. 1993, fasc.11).

Altro è il discorso circa la misura dell'incidenza causale del fatto illecito e di quella della predisposizione del danneggiato alla malattia. E' vero che, in generale, per il principio dell'equivalenza delle cause tutti gli antecedenti di un evento si considerano cause dell'evento stesso con pari incidenza eziologica; ma è anche vero che proprio il ricorso ai criteri probabilistici può consentire una diversa prospettazione percentuale, nel senso che il perito d’ufficio potrà fornire indicazioni utili circa le probabilità dì manifestazione della malattia psichica latente, quali erano prima del fatto illecito.

5. La valutazione del danno psichico

La valutazione del danno psichico compete, naturalmente, al consulente medico legale.

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Compito non facile perché - tra l'altro manca una completa e soddisfacente tabella valutativa.

Esiste una "Nuova tabella delle percentuali d’invalidità per le menomazioni e malattie invalidanti sulla base della classificazione internazionale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità", di cui al D.M. 5 febbraio 1992 (in Suppl. ordinario alla G.U. n. 47, del 26 febbraio 1992), che tratta anche dei danni agli apparati nervoso e psichico"; ma l’utilizzazione dei dati esposti è fortemente compromessa dalla constatazione che "la nuova tabella fa riferimento alla incidenza delle infermità invalidanti sulla capacità lavorativa secondo i criteri della normativa vigente" (così si legge nelle

"modalità d'uso" enunciate dal D.M.). Siamo perciò innanzi a una valutazione riferita all'homo faber, che non ha più ragion d'essere, posto che il danno biologico e la sua valutazione devono

prescindere dalla capacità reddituale del soggetto leso.

Altrettanto insoddisfacenti sono le tabelle valutative elaborate dalla letteratura medico legale:

c'è chi segnala soltanto le "sindromi neurologiche e psichiatriche", facendo riferimento alla

"frequenza delle crisi" (cfr. Canapa e altri, La valutazione tabellare dell’invalidità in responsabilità civile, Milano, 1986, p.129); e chi accenna alle "nevrosi traumatiche", fornendo

qualche indicazione valutativa generica (cfr. Luvoni-Bernardi-Mangili, Guida alla valutazione medico legale dell'invalidità permanente, Milano, 1990, p.201).

Nell'attività giudiziaria si avverte sempre più la necessità di una valutazione del danno psichico che segua schemi dettagliati abbastanza vicini - per quanto possibile - a quelli della valutazione del danno fisico. Forse la soluzione sta nel distinguere le varie funzioni psichiche, per attribuire valori tabellari alle menomazioni di ciascuna funzione e poi procedere a una valutazione globale che, naturalmente, non deve consistere nella somma aritmetica delle diverse percentuali, analogamente alla regola vigente per il danno fisico, enunciata al punto 9 del decalogo premesso alle tabelle emerse dai convegni di Como e di Perugia.

Per essere più chiari, come per il danno fisico si distinguono le lesioni al capo, al tronco, agli arti superiori e agli arti inferiori per poi valutare singolarmente le menomazioni, per il danno psichico bisognerebbe cominciare col distinguere le lesioni con riferimento a ciascuna funzione psichica fondamentale (come per esempio l’attenzione, la memoria, l’ideazione, la facoltà dì associare le idee, l’intelligenza, l’affettività, la volontà, la coscienza, gli istinti, il senso morale, e

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cosi via), e quindi dare una indicazione valutativa percentuale delle più frequenti menomazioni permanenti.

Da tali indicazioni sì dovrebbe poter trarre la risposta ai quesiti che interessano il giurista, e cioè:

- se e in quale misura l'accertata malattia ha determinato nel soggetto leso mutamenti corporei peggiorativi (mutamento dell'espressione, mutamento di peso, ecc.);

- se e in quale misura abbia ridotto, nel soggetto leso, la possibilità dì utilizzare il proprio corpo negli atti dì vita quotidiani (lavarsi, vestirsi, scendere e salire le scale, alimentarsi, ecc.);

- se e in qual misura abbia ridotto, nel soggetto leso, l’attitudine ad affermarsi nel consorzio umano mediante la vita di relazione con gli altri (concetto comprensivo anche del danno sessuale di origine psichica);

- se e in qual misura abbia ridotto, nel soggetto leso, l’attitudine al lavoro in generale, ovvero anche (ai fini dell'eventuale liquidazione del lucro cessante, se ricorrente in concreto), l’attitudine al lavoro specifico svolto in precedenza dal soggetto leso, ovvero comporti una maggior fatica per mantenere inalterato il reddito lavorativo.

In definitiva, si tratta - per il giurista - dì avere conoscenza di quali contenuti del danno biologico ricorrono in concreto.

6. La liquidazione del risarcimento

Per il danno biologico in generale, la Corte Costituzionale (sentenza n. 184 del 1986) suggerì l'adozione di un criterio uniforme di base - unico essendo il "valore-uomo" e al contempo elastico per adattare il risarcimento al pregiudizio del caso concreto. Tale indicazione è valida anche per il danno psichico; con l’ovvia avvertenza che, quando la menomazione psichica si presenta insieme a una menomazione fisica, come unitaria ha da essere la valutazione medico legale, altrettanto unitaria dev'essere la liquidazione del risarcimento.

I metodi liquidativi maggiormente seguiti nella pratica giudiziaria, com'è noto, sono quelli elaborati dal Tribunale dì Genova (calcolo tabellare sul triplo della pensione sociale) e dal Tribunale dì Pisa (calcolo a punto).

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Recentemente il Tribunale dì Milano ha cercato - sia pure in via sperimentale - di fondere i due sistemi elaborando una propria tabella che, pur adattando il calcolo a punto, differenzia il valore monetario di ciascun punto sia in relazione alla gravità della menomazione (percentuale della invalidità permanente), sia in relazione all'età del soggetto leso. La gravità della menomazione influisce sulla liquidazione del risarcimento secondo un criterio progressivo (più grave è la menomazione, maggiore è il valore del punto); l'età del danneggiato influisce invece sulla liquidazione secondo un criterio regressivo (maggiore è l'età del danneggiato, minore è il valore del punto: ciò perché si presume che il soggetto giovane dovrà sopportare il peso della menomazione più a lungo del soggetto anziano). Il tempo dirà se la soluzione adottata è quella giusta.

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