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Prova d’appello: le ultime modifiche al codice di rito civile - Judicium

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GIANLUCA LUDOVICI

Prova d’appello: le ultime modifiche al codice di rito civile

Con l’entrata in vigore della Legge 07 Agosto 2012, n. 134, atto normativo di conversione del Decreto Legge 22 Giugno 2012, n. 83, il tormentato e certamente non concluso iter di rivisitazione del processo civile è giunto ad interessare anche la fase dell’appello, istituto sinora tenuto sostanzialmente indenne dai recenti e ripetuti interventi di modifica del codice di rito.

La ratio della più recente micro-riforma è quella (ormai consueta) di ridurre i tempi biblici della giustizia civile italiana, che in periodo di crisi economica e di spendig review abbiamo saputo essere speciosi non solo per i cittadini coinvolti in dispute giudiziali, ma anche per la competitività della Nazione nell’ambito del mercato economico internazionale (investimenti, transazioni commerciali etc…); ciò, ora, attraverso un intervento diretto su quel segmento del paradigma processuale che secondo le statistiche ed il dato empirico (facilmente rilevabile da qualsiasi pratico del diritto) costituisce una sorta di salle des pas perdus in cui i procedimenti, tra rinvii d’ufficio e/o meramente formali (l’attività sostanziale si svolge per buona parte dei contenziosi fuori udienza con il deposito di atti e memorie) sostano per anni (di media sei) per essere infine decisi nella maggior parte dei casi (il 68%) in conformità a quanto statuito dal giudice di primo grado.

La soluzione proposta dal Governo tecnico ed accettata seppur con correzioni dal Parlamento tende, infatti, almeno nelle intenzioni degli autori della riforma, a ridurre i tempi del tipico giudizio ordinario di impugnazione di secondo grado: ad uno sguardo d’insieme, per sua stessa natura superficiale, le novità più eclatanti del nuovo processo d’appello sono costituite in primo luogo dalla creazione di un “doppio filtro” di accesso alle Corti territoriali. Alla decisione del giudice d’appello si potrà pervenire, quindi, solo laddove si superi un primo ostacolo costituito dal rispetto delle prescrizioni in tema di forma-contenuto dell’atto di appello, ora espressamente richiesti, in due casi specifici, a pena di inammissibilità (con sanzione, quindi, che si affianca a quella della nullità prevista dall’art. 164 C.P.C.). Superato tale scoglio, la strada verso la pronuncia del giudice di merito di secondo grado sarà sbarrata da un ulteriore ostacolo ossia da un vaglio di tipo prognostico riguardante la ragionevole probabilità che le doglianze dell’appellante non vengano dichiarate infondate. Si tratta di disposizione che ha destato molto scalpore nel mondo dell’Avvocatura e ciò soprattutto per le conseguenze di un simile giudizio preliminare alla trattazione della causa nel

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merito: basti pensare, infatti, che il giudice adito in grado d’appello potrà con una mera ordinanza, peraltro succintamente motivata, “stroncare” l’impugnazione laddove ritenga, sulla scorta degli elementi di fatto anche desumibili dagli atti di causa o di precedenti pronunce giurisprudenziali, che la stessa non possa essere accolta, con conseguente impossibilità di un successivo ricorso per cassazione esclusivamente fondato sulle ragioni di cui all’art. 360, comma I, n. 5) C.P.C.. Analoga conclusione anche in caso di pronuncia di sentenza di secondo grado conforme, quoad quaestiones facti, a quella impugnata.

Ma vi è di più: tra le novità che meritano di essere evidenziate vi sono anche quelle che, ampliando il tradizionale divieto all’esercizio dello ius novorum in grado di appello, restringono gli spazi (a dire il vero già in pratica molto angusti) per lo svolgimento di istruttorie “tardive”, con cui introdurre nel procedimento già definito in primo grado mezzi di prova costituenda e precostituita prima di allora mai richiesti; mutatis mutandis il divieto sarà più stringente anche per l’appello post processo sommario di cognizione, ammettendosi ora nuovi mezzi di prova non più “rilevanti”, ma necessariamente “indispensabili”.

Prima di procedere alla trattazione specifica delle singole innovazioni alla disciplina di cui al Libro II, Titoli III e IV del codice di rito civile, e volendo così chiudere la parte generale della presente analisi, si vuole osservare come le disposizioni in esame (e che troveranno applicazione ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della Legge 07 Agosto 2012, n. 134) non si applicheranno al processo tributario di cui al Decreto Legislativo 31 Dicembre 1992, n. 546, muovendosi il contenzioso tributario in gran parte entro linee più anguste (e verrebbe da dire molto meno garantiste per il contribuente-ricorrente) di quelle dettate dal codice di procedura civile e che debbono dirsi peculiari per l’elevato grado di tipicità dello stesso.

Venendo ora all’esame delle singole fattispecie del codice di procedura civile riformulate ed introdotte ex novo, e seguendo il rigoroso ordine codicistico, la prima rilevante modifica che si incontra è quella contenuta nell’art. 342, comma I, il quale ora testualmente recita: “L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte dall'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

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La nuova norma, in primis, fa venir meno l’onere per l’appellante di esporre sommariamente i fatti del processo a quo (cosiddetto “antefatto processuale”)1, ma non ovviamente l’obbligo di indicare i motivi specifici dell’appello, obbligo che, al contrario, viene rafforzato dalla enunciazione di due cause espresse di inammissibilità dell’impugnazione collegate alla parte motiva dell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio. A ben vedere, tuttavia, non si tratta di novità sostanziali:

l’inammissibilità dell’appello collegato al deficit degli elementi costitutivi dell’atto di impugnazione ora dichiaratamente presi in considerazione dalla lettera della legge, infatti, pur certamente ispirandosi all’art. 520, comma III, secondo periodo, nn. 1) e 2) del teutonico Zivilprozessordnung2, in realtà era già stata da tempo considerata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ne aveva pure sancito la rilevabilità d’ufficio3.

Fermo restando che le espressioni impiegate dal Legislatore appaiono talvolta davvero astruse e suscettibili di varie interpretazioni4, si può tentare tuttavia un’esegesi del testo nei termini che seguono. Quanto al primo requisito, la norma, nella prima parte del periodo esaminato, impone all’appellante di indicare le “parti del provvedimento che si intende appellare”: ciò, evidentemente, al fine di circoscrivere oggettivamente il giudizio d’appello e rendere più immediata la verifica della formazione del giudicato in relazione a quelle parti della sentenza impugnata, che non siano divenute espresso oggetto di gravame (normativizzazione del noto principio del tantum appellatum, quantum devolutum). Nel secondo periodo, invece, il Legislatore si fa meno formalista e richiede che nell’atto introduttivo del giudizio d’appello siano dichiarate le “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”, vale a dire che l’appellante dovrà censurare la ricostruzione in fatto operata dal giudice di prime cure, evidenziando gli errori in cui quest’ultimo sia incorso e prospettando conseguentemente la propria ricostruzione fattuale. La rielaborazione del dato fattuale, quindi, diviene fondamentale (anche per le implicazioni in tema di successivo ed eventuale ricorso per cassazione che si analizzeranno in seguito), in quanto, per ragioni di mera logica, la determinazione dei fatti di causa è prodromica alla

1 Il venir meno dell’obbligo di esposizione dei fatti non comporta il divieto di indicazione degli stessi: in un’ottica molto pratica, anzi, la necessità di ripercorrere il susseguirsi dei fatti accaduti nel corso del giudizio di primo grado appare una necessità di carattere logico, stante la propria innegabile prodromicità rispetto alla proposizione degli argomenti di censura della decisione di primo grado, specialmente se afferenti le quaestiones facti.

2 R. CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, www.Judicium.it; T.

GALLETTO, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.Judicium.it. Singolare come il Legislatore dia dimostrazione di prediligere istituti di origine tedesca non solo in campo economico.

3 Ex plurimis: Cass., S.U., sentenza resa in data 2000, n. 16; Cass., sentenza resa in data 20.08.2003, n. 12218; Cass., sentenza resa in data 01.02.1995, n. 1135.

4 Sul punto si vedano le fondate e puntuali critiche mosse in T. GALLETTO, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.Judicium.it.

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individuazione della fattispecie astratta sussunta dal caso concreto e preliminare alle eventuali censure da muovere agli errori in diritto contenuti nella decisione oggetto di gravame: rilievi in diritto che, come si vedrà subito, sembrano coerentemente5 costituire l’altro polo delle inammissibilità espresse dell’impugnazione.

In relazione al n. 2) dell’art. 342, comma I C.P.C. la riforma, infatti, nonostante i termini impiegati in modo ancor più vago del precedente periodo, sembra alludere alla necessità di indicare puntualmente i motivi in diritto dell’impugnazione, dovendo procedere l’appellante all’esplicitazione degli errores in procedendo ed in iudicando che rendono la sentenza impugnata meritevole di riforma in appello. Sembra trattarsi, quindi, di una sorta di disposizione parallela rispetto a quella di cui al n. 1), secondo periodo del medesimo articolo, per cui in breve l’appellante dovrebbe in fin dei conti censurare a pena di inammissibilità tanto gli errori in fatto, quanto quelli in diritto. Ma vi è di più, poiché dal tenore letterale della disposizione in esame, l’appellante avrà anche l’onere di argomentare circa la rilevanza dell’errore di diritto commesso dal giudice di primo grado sulla correttezza della decisione del caso concreto; in altre parole, non è sufficiente che il giudicante abbia errato nell’interpretazione e/o nell’applicazione delle norme di legge, ma tale errore deve pure, per essere accolta l’impugnazione, aver avuto un peso specifico tale da aver indotto il giudice ad una decisione sostanzialmente non corretta. Aleggiano innegabilmente gli spettri di un errore di diritto che sebbene sussistente potrebbe essere considerato “innocuo” e come tale condurre non tanto alla sentenza di rigetto nel merito, ma addirittura ad una preliminare e pregiudiziale declaratoria di inammissibilità, conseguenza davvero esagerata ed inverosimile.

Particolarmente interessante e rilevante è, poi, la parziale modifica della norma di cui all’art.

345, comma III, espressione del tradizionale principio del divieto dei cosiddetti nova in appello6. La nuova disposizione prevede ora che: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”.

5 Il riferimento è alla coerenza interna alla norma in esame: prima la definizione del fatto, poi il giudizio di sussunzione dello stesso ad una fattispecie legale astratta.

6 È appena il caso di ricordare come nell’ambito di applicazione della norma in esame non rientra la consulenza tecnica d’ufficio che ovviamente non è prova vera e propria, bensì mezzo istruttorio come tale sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità dell’organo giudicante, anche di secondo grado.

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Eliminato il riferimento alla indispensabilità dei mezzi di prova e dei documenti, intesa quale unico attributo degli elementi probatori in grado di vincere lo sbarramento ai nova in appello, dal settembre 2012 le uniche attività istruttorie in senso stretto che potranno svolgersi per i processi civili d’appello con rito ordinario saranno quelle caratterizzate dall’assunzione di prove costituende e precostituite per la cui produzione la parte richiedente dia dimostrazione di non aver potuto provvedere per causa ed essa non imputabile. Al riguardo, dunque, non c’è bisogno di attività ermeneutica: per i mezzi di prova “che la parte dimostri di non aver potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile” vigeranno i tradizionali principi elaborati in precedenza da dottrina e giurisprudenza. Stante la riformulazione della norma in argomento, inoltre, non ci saranno più dubbi circa il fatto che le prove cui l’art. 345, comma III fa riferimento, siano soltanto quelle mai proposte in primo grado e non anche quelle richieste, ma non ammesse, durante il primo grado di giudizio. Si tratta, in definitiva, di elementi probatori assolutamente sopravvenienti ovvero elementi di prova la cui formazione è avvenuta o la cui pre- esistenza è venuta a conoscenza della parte che ne reclama l’ammissione solo dopo lo spirare del termine preclusivo di cui all’art. 184 C.P.C. oppure dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, purché ovviamente la conoscenza postuma dei documenti (o delle circostanze di fatto suscettibili di introduzione nel processo d’appello attraverso nuove prove testimoniali) non sia avvenuta per colpa della parte richiedente.

L’eliminazione della possibilità si svolgere attività istruttoria per così dire “tardiva” in ragione della indispensabilità del mezzo probatorio è di facile intuizione, almeno sul piano astratto, con riferimento alla ratio della riforma: se si riducono le possibilità di ammissione ed assunzione di nuovi mezzi di prova, allora le singole procedure interessate da simili ipotesi troveranno una conclusione più rapida, senza calendarizzazioni procedurali dalla durata di lustri. In concreto, tuttavia, i casi di svolgimento di istruttorie in appello sono davvero esigui, sia perché solo una piccola parte delle procedure che giungono in secondo grado sono introdotte con richieste istruttorie, sia perché buona parte di queste ultime sono solitamente stroncate con pronunce di rigetto e di rinvio alle udienze di precisazione delle conclusioni. Tutto ciò senza contare che l’escamotage de qua per ottenere il risparmio di tempo preconizzato dal Legislatore con l’ampliamento del divieto dei nova, in particolare, e con l’introduzione delle nuove disposizioni, in generale, potrebbe essere facilmente aggirato dai classici rinvii lunghi delle Corti territoriali tra la prima udienza e quella di assunzione in decisione oppure dai rinvii d’ufficio per eccessivo carico

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del ruolo (il cosiddetto “arretrato”) che, sempre più frequenti e più dilatori, costituiscono uno dei mali oscuri della giustizia italiana su cui nessuna riforma è ancora intervenuta.

Il cuore della riforma, tuttavia, è costituito dalle regole processuali introdotte ex novo (verrebbe da dire ex nihilo), vale a dire dalle norme contenute negli artt. 348 bis e 348 ter; il primo articolo, rubricato “Inammissibilità dell’appello”, così recita: “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione e' dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.

Il primo comma non si applica quando: a) l'appello e' proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo 70, primo comma; b) l'appello e' proposto a norma dell'articolo 702-quater”.

Si tratta, come sommariamente anticipato in premessa, del cosiddetto “secondo filtro” del nuovo appello civile: la norma è stata sin da subito tacciata di incostituzionalità sia in relazione al diritto di accesso alla giustizia, sia con riferimento alla presunta violazione del diritto di difesa. In realtà si tratta di una disposizione di legge astrattamente conforme ai parametri costituzionali, anche di carattere sopranazionale7, in quanto se da un lato la Costituzione e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo concedono al Legislatore di porre limitazioni8 ai mezzi di accesso alla giustizia (e ciò a maggior ragione se si tratti di mezzi di impugnazione e non di strumenti di primo accesso agli organi giurisdizionali), dall’altro le facoltà di esercizio del diritto di cui all’art. 24 Cost. viene garantita dalla possibilità di ricorrere per Cassazione, seppur entro i limiti che verranno meglio esposti esaminando il successivo art. 348 ter C.P.C.9.

La declaratoria di inammissibilità ex art. 348 bis è, per stessa previsione del Legislatore, atto ben diverso e distinto da quella di inammissibilità per altre cause o di improcedibilità, ragion per cui si può comprendere come le pronunce di inammissibilità per i motivi di cui all’art. 342 C.P.C. non possano trovare spazio nella fase del vaglio preventivo e prognostico del “secondo filtro”, ma

7 Sul punto si veda: R. CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in www.Judicium.it, pagg. 7 e ss.

8 Si noti bene: si parla di limitazione, non di esclusione.

9 Cfr. T. GALLETTO, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.Judicium.it,Il problema non è dunque quello di dover garantire, sempre e comunque, un secondo grado di giudizio che contempli una compiuta revisione in fatto ed in diritto della pronuncia impugnata, ma quello (diverso) di dimostrare la legittimità dello scopo perseguito con le limitazioni del mezzo di impugnazione e la ragionevolezza dello strumento impiegato (e del resto oggi la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo dichiara irricevibili i ricorsi individuali ad essa indirizzati con provvedimento assunto da un solo giudice, segreto e privo di motivazione: art. 52 A Reg. C.E.D.U.). Per quanto concerne la legittimità dello scopo perseguito in astratto (la pronta risoluzione delle impugnazioni che non hanno ragionevoli probabilità di essere accolte) essa non sembra contestabile.

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dovranno necessariamente essere riservate alla fase di decisione della controversia dopo la precisazione delle conclusioni.

L’operatività del filtro verrà meno però per il giudizio d’appello costituente prosecuzione del processo sommario di cognizione svoltosi in primo grado, nonché per le cause in cui sia previsto ex lege l’intervento come parte del Pubblico Ministero. La ratio dell’esclusione sembra doversi rinvenire, da un lato, nella natura “accelerata” del rito ex art. 702 bis C.P.C., per cui la necessità di una preventiva scrematura delle controversie approdate davanti alle Corti territoriali si farebbe sentire in maniera più attenuata, considerata la rapidità con cui la querelle avrebbe dovuto trovar composizione in primo grado; dall’altro, la presenza di pubblici interessi coinvolti nella singola disputa inter privatos, tali da imporre la presenza di quella che viene definita “la parte imparziale”10, appare essere la giustificazione ad una simile esclusione.

Alquanto discutibile appare la scelta della sanzione processuale da comminare in caso di trasgressione della prescrizione di cui all’art. 348 bis C.P.C.; a ben vedere, infatti, come da più parti rilevato, la declaratoria della inammissibilità, riguardante l’aspetto rituale dell’appello, non è confacente al carattere della violazione (id est: la non ragionevole probabilità di accoglimento), la quale evidentemente attiene al merito e nel merito presuppone una valutazione di (probabile) infondatezza dell’impugnazione11.

La seconda disposizione di originaria creazione ed assolutamente complementare alla precedente è, come detto, l’art. 348 ter, rubricato “Pronuncia sull'inammissibilità dell'appello”, il cui contenuto così si esplicita: “All'udienza di cui all'articolo 350 il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348-bis, primo comma, con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. Il giudice provvede sulle spese a norma dell'articolo 91.

10 M. RINALDI, Codice di procedura civile, a cura di Luigi Viola, Cedam, 2011, pag. 137.

11 Sul punto si veda quanto giustamente affermato da T. GALLETTO, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.Judicium.it, secondo cui: “Si ripropone qui la medesima questione sollevata dall’art. 360-bis, inserito dalla riforma del 2009, che predica l’inammissibilità del ricorso per cassazione quanto il provvedimento impugnato ha deciso in diritto in conformità alla giurisprudenza della Cassazione e non si ravvisano motivi per mutare orientamento e quando è manifestamente infondata la censura di violazione dei principî del giusto processo. E’

peraltro noto che la Cassazione è tempestivamente intervenuta con una pronuncia delle Sezioni Unite (6 settembre 2010 n. 19051) che, a prezzo di un intervento manipolativo additivo della norma, ha rivendicato il potere di dichiarare, in quei casi, non l’inammissibilità bensì la manifesta infondatezza dei ricorsi”. Per la lettura della citata pronuncia giurisprudenziale si vedano: Giusto proc. civ., 2010, 1131, con nota di F.P. LUISO; Foro it., 2010, I, pag. 3333, con nota di SCARSELLI; Giur. it., 2010, pag. 885, n. con nota di CARRATTA.

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L'ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale di cui all'articolo 333 ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348-bis. In mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza.

Quando e' pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l'atto di appello. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'articolo 327, in quanto compatibile.

Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360.

La disposizione di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all'articolo 348-bis, secondo comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado”.

Rilevata la sussistenza di una ragionevole probabilità che l’impugnazione non venga accolta, il Collegio, ancor prima di procedere alla trattazione della causa, chiude con una pronuncia in rito la controversia, emettendo un’ordinanza succintamente motivata contenente statuizione sulla regolamentazione delle spese processuali. La norma non fa chiarezza in ordine a quali siano i criteri necessari per procedere ad una simile valutazione; come detto in precedenza, il riferimento alla

“ragionevole probabilità di accoglimento” sembrerebbe alludere alla fondatezza delle ragioni dell’impugnazione ovvero delle argomentazioni in fatto e/o in diritto poste a base della stessa da parte dell’appellante, vale a dire sembrerebbe far riferimento a questioni esclusivamente di merito.

Conferma in tal senso si può desumere dalla previsione secondo cui l’ordinanza dichiarativa di inammissibilità può essere motivata con “rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa” o con “riferimento a precedenti conformi”; l’uno e l’altro elemento, infatti, se sono ritenuti idonei a manifestare le ragioni della scelta operata dall’organo giudicante di secondo grado, allora debbono essere pure considerati rilevanti ai fini dell’esame condotto dai membri della Corte territoriale per l’adozione del provvedimento di inammissibilità ex art. 348 bis C.P.C..

In definitiva, quindi, la verifica preliminare di “probabile non accoglibilità” dell’impugnazione potrebbe-dovrebbe avvenire in ragione sia di elementi di fatto, che di diritto su cui la giurisprudenza

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di merito e/o di legittimità si siano copiosamente ed in modo sostanzialmente uniforme espresse; se così fosse (e stante il dato letterale appare difficile dubitarne) si potrebbe affermare l’operatività, sia pur in modo parziale e ridotto, nel nostro ordinamento del principio dello stare decisis, tipico dei sistemi anglosassoni o di common law.

Quanto al termine “ragionevole”, poi, in assenza di specifiche indicazioni, si può ipotizzare che lo stesso stia ad indicare un elevato o non trascurabile grado di probabilità, la cui esistenza, per quanto sin qui argomentato, appare logico collegare ancora una volta alla presenza di precedenti giurisprudenziali così stratificati da consentire al giudice dell’appello di negare fondatezza all’impugnazione. Ovviamente quanto si qui argomentato deve essere riferito non solo all’impugnazione principale, ma, ove esistenti, anche alle impugnazioni incidentali, poiché laddove una sola di queste dovesse manifestarsi preventivamente fondata, allora tutto quello che viene devoluto alla cognizione del giudice di seconda istanza (in via principale ed in via incidentale) diventerebbe oggetto di trattazione e di successiva decisione con sentenza.

Qualora il processo dovesse concludersi con l’ordinanza succintamente motivata di inammissibilità, nulla quaestio o quasi per le sorti delle ragioni dell’appellante, laddove le argomentazioni poste a fondamento della propria impugnazione afferissero a questioni di diritto; in qualità di giudice di legittimità, la Suprema Corte potrebbe astrattamente conoscerne e pronunciarsi sulle stesse con provvedimento sostanzialmente identico (attribuzione o meno del bene della vita controverso; affermazione e declaratoria o meno del diritto oggetto della disputa) rispetto a quello preteso ab origine dalla Corte d’Appello, con l’unica differenza della irretrattabilità, immodificabilità ed inappellabilità della decisione degli Ermellini rispetto a quella della Corte territoriale. Il problema più serio si pone per gli appelli fondati su questioni di fatto, poiché l’eventuale declaratoria anticipata di inammissibilità comporterebbe, per la natura del giudizio in Cassazione, l’assoluta preclusione della riproposizione delle stesse davanti ai giudici di legittimità:

il ricorso per cassazione in tali casi, infatti, potrà essere promosso ex art. 348 ter, comma IV C.P.C.

per i soli motivi di cui all’art. 360, comma I, nn. 1), 2), 3) e 4) C.P.C. ovvero soltanto per motivi attinenti alla giurisdizione oppure per denunciare i vizi di violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza, e di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, infine, per far valere la nullità della sentenza o del procedimento. Resta precluso, dunque, il ricorso per cassazione ai sensi del rinnovato (per l’ennesima volta) art. 360, comma I, n. 5 C.P.C., il quale ora prevede l’impugnazione davanti alla Suprema Corte “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato

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oggetto di discussione tra le parti”. Ne deriva che la valutazione preventiva e prognostica della Corte d’Appello diviene inattaccabile, quanto alle quaestiones facti, laddove la stessa rilevasse in via preliminare e pregiudiziale la ragionevole probabilità di confermare quanto accertato e dichiarato dal giudice a quo.

Ma non solo, poiché in modo a dir poco sorprendente, la previsione in esame viene estesa anche alle ipotesi in cui la Corte d’Appello, pur astenendosi dalla pronuncia dell’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 bis C.P.C., ad eccezione delle cause con intervento del Pubblico Ministero, addivenisse comunque alla conferma con sentenza definitiva della pronuncia giurisdizionale impugnata per ragioni di fatto: anche qui è ammesso il ricorso per cassazione solo per le ragioni di cui all’art. 360, comma I, nn. 1), 2), 3) e 4) C.P.C.. Non a caso, mutuando il termine dall’Ordinamento Canonico, si è parlato in dottrina di introduzione del “principio della doppia conforme” . La disposizione in commento ha destato, quindi, serie preoccupazioni con particolare riferimento alle possibilità di esercitare sino in fondo ed a pieno il diritto costituzionale di agire in giudizio e/o difendersi per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, diritto che in questo caso più che limitato, sembrerebbe in realtà ingiustamente ed ingiustificatamente menomato, poiché privato di una delle tipiche e più frequentate vie di accesso (id est: l’impugnazione ex all’art.

360, comma I, n. 5 C.P.C.) al giudizio del Supremo Collegio, allorquando il giudice d’appello, omettendo l’esame di un fatto decisivo pur oggetto di contraddittorio, confermi la ricostruzione in fatto operata dal giudice di prime cure.

Le modifiche della disciplina dell’appello prevista per l’ordinario processo a cognizione piena produce, ovviamente, i suoi effetti anche sull’istituto dell’appello operante nell’ambito dei procedimenti speciali, quali quelli che seguono il rito giuslavoristico ed il rito semplificato del processo sommario di cognizione.

Si considerino, per prime, quindi le modifiche apportate all’art. 434, comma I (“Deposito del ricorso in appello”), il quale così recita: “Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'articolo 414. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

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Trattasi, mutatis mutandis, di disposizione sostanzialmente identica a quella di cui all’art. 342, comma I C.P.C., per la cui esegesi si rinvia, dunque, a quanto argomentato in precedenza, con l’ovvia precisazione che qui l’indicazione del contenuto dell’atto di appello è fatta in relazione agli elementi propri del ricorso ex art. 414 C.P.C., atto introduttivo di primo grado nel rito del lavoro ed omologo dell’atto di citazione nel processo civile ordinario. Considerazioni analoghe debbono svolgersi per il nuovo art. 436 bis (“Inammissibilità dell'appello e pronuncia”), per cui:

“All'udienza di discussione si applicano gli articoli 348-bis e 348-ter”; a bene veder, infatti, si è in questo caso in presenza di una mera norma di rinvio a quanto legislativamente statuito e previsto per il processo civile ordinario, con applicazione senza distinzioni delle regole dettate in tema di inammissibilità e relativa pronuncia in caso di impugnazione che non abbia ragionevoli probabilità di essere accolta. Stante anche l’estensione ex art. 447 bis nuova formulazione della disposizione in esame a tutte quelle controversie in materia di locazioni e di comodato di immobili urbani, nonché a quelle concernenti l’affitto di aziende, ne deriva la sostanziale (rectius: non formalistica) identità tra rito ordinario e rito giuslavoristico, riguardando entrambi situazioni giuridiche soggettive comunque rimesse alla cognizione dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria e soggette, pur a fronte dell’esistenza di una corsia preferenziale per la controversie ex artt. 409, 442 e 447 bis C.P.C., al decorso di un lasso di tempo eccessivo (o meglio inaccettabile) per il definitivo ed irretrattabile accertamento della sussistenza o meno dei diritti azionati in giudizio.

Quanto all’ambito del recente e singolare procedimento sommario a cognizione piena di cui agli artt. 702 bis e ss. C.P.C., il Legislatore, in coerenza con quanto elaborato per l’appello nel processo ordinario, ha provveduto a modificare l’art. 702 quater, comma I, ora del seguente letterale tenore:

“L’ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’articolo 702-ter produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. Sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile. Il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio”.

In coerenza con l’ampliamento della portata del divieto dei nova in appello per il giudizio ordinario, che ha determinato la parziale riscrittura dell’art. 345, comma III C.P.C., il Legislatore ha provveduto a restringere altresì le ipotesi di introduzione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti nella seconda fase del procedimento civile conclusosi in primo grado con l’ordinanza ex art. 702 ter

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C.P.C.; dall’entrata in vigore della riforma del 2012, il requisito caratterizzante i nova in argomento, infatti, non potrà più essere quello della rilevanza, bensì dovrà necessariamente essere quello della indispensabilità.

La previsione dell’astratta ipotesi di produzione di nuovi documenti e di articolazione di nuovi mezzi istruttori qualificabili come indispensabili, pur a fronte della categorica preclusione nel processo ordinario ai nova che non siano giustificati dalla dimostrazione della parte che ne fa richiesta di non averli potuti produrre ed articolare durante il processo di primo grado per causa alla stessa non imputabile (disposizione comunque replicata per il processo sommario), è sostenuta dalla considerazione logica della natura sommaria dell’istruttoria svoltasi ai sensi degli artt. 702 bis e ss.

C.P.C.. Nel caso in esame la sommarietà dell’istruzione (e non della cognizione) propria del primo grado di giudizio rende ontologicamente necessario l’astratto ricorso a “correttivi” in grado di sopperire ad eventuali lacune dell’istruttoria in senso stretto svoltasi dinanzi al giudice di prime cure, ragion per cui l’introduzione di nuovi documenti e nuovi mezzi di prova non può essere vietata con la medesima assolutezza impiegata dal Legislatore per escludere l’esercizio dello ius novorum nel processo ordinario a cognizione piena; in tal senso deve essere letto anche l’intervento normativo volto a riqualificare l’attributo necessario ai fini dell’ammissione dei nova. La rilevanza, termine più generico, cede ora il passo alla indispensabilità, concetto di non facile interpretazione12, ma in sé e per sé evidentemente più stringente del precedente, tale da esprimere con efficacia l’intenzione del Legislatore di ridurre al minimo le integrazioni probatorie in appello, subordinandole all’esistenza di una vera e propria esigenza (da valutarsi da parte del collegio giudicante in modo, si immagina, rigoroso) in ordine alla decisione della controversia e, quindi, alla soluzione del caso concreto. Considerata la piena coincidenza della nuova formulazione con la norma di cui alla precedente versione dell’art. 345, comma III C.P.C., è facile intuire come debbano ora valere per lo ius novorum nel giudizio d’appello per il processo sommario di cognizione le medesime conclusioni in passato raggiunte al riguardo dalla dottrina e dalla giurisprudenza per il processo ordinario. Ciò vuol dire, come in parte anticipato, che il divieto de qua dovrà essere interpretato in modo assoluto e rigoroso nel rispetto non solo della ratio dell’art. 54 Decreto Legge del 22 Giugno 2012, n. 83, ma anche e soprattutto del principio costituzionale della equa durata del

12 La nozione di indispensabilità è stata oggetto di varie e complesse interpretazioni che negli anni non sono tuttavia riuscite ad esprimere un risultato più o meno condiviso, nonostante alcuni punti fermi individuabili nelle pronunce a Sezioni Unite del 2005 e nell'intervento del Legislatore del 2009, in tema di nuove produzioni documentali.

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processo, così come pure rilevato da Cass., S.U., sentenza resa in data 20.04.2005, n. 820313 secondo cui: “Nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l'art. 345, comma 3, c.p.c. va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova "nuovi" - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo):

requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell'impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l'ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti”).

Il concetto di prove indispensabili, sulla scorta di quello che appare il preferibile orientamento giurisprudenziale di legittimità, dovrà quindi essere inteso come prove precostituite o costituende che nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite appaiano come imprescindibili “perché dotate di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove rilevanti hanno sulla decisione finale della controversia; indispensabilità da apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Tale facoltà deve esercitata in modo non arbitrario, in quanto il giudizio di indispensabilità, positivo o negativo, deve essere comunque espresso in un provvedimento motivato”14.

L'indispensabilità, quindi, deve essere intesa anche per l’appello conseguente allo svolgimento in primo grado del giudizio sommario di cognizione come “capacità di determinare un positivo

13 Conformi: Cass., Sez. III, sentenza resa in data 11.05.2010, n. 11346; Cass., Sez. III, sentenza resa in data 30.06.2011, n. 14462, tutte in www.cortedicassazione.it.

14 Sic: Cass., Sez. III, sentenza resa in data 05.12.2011, n. 26020; Cass., S.U., sentenza resa in data 20.04.2005, n. 8203;

Cass., sentenza n. 5323/2007; Cass., sentenza n. 9274/2008; Cass., sentenza n. 12652/2008; Cass., sentenza n.

27006/2008, tutte in www.cortedicassazione.it.

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accertamento dei fatti di causa, decisivo, talvolta, per giungere ad un completo rovesciamento della decisione cui è pervenuto il primo giudice”15, purché “l’eventuale valutazione di indispensabilità della prova non serva a superare la preclusione nella quale sia incorsa la parte in primo grado in quanto il potere del collegio di ammettere nuove prove in appello non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado”16.

In definitiva la “prova indispensabile”, secondo le S.U. e parte delle sezioni semplici, prevale sulla intervenuta preclusione e si giustifica con l’esigenza di arrivare ad una sentenza

“sostanzialmente” e non solo “formalmente” giusta, vale a dire con sentenza che accerti come esistenti diritti esistenti e neghi come esistenti diritti inesistenti17.

Concludendo il lungo ed articolato esame sin qui condotto, si può osservare che, come accaduto per tutte quelle altre innovazioni e modifiche legislative al codice di rito avvenute negli ultimi anni in ragione dell’esperienza che delle stesse si era avuta in altri settori dell’ordinamento giuridico o addirittura in ordinamenti giuridici stranieri (si pensi soprattutto all’introduzione degli artt. 702 bis e ss. C.P.C., alla mediazione civile e commerciale, alla coercizione indiretta del debitore ex art. 614 bis C.P.C. ed ora alla subdola introduzione dell’ art. 520, comma III, secondo periodo, nn. 1) e 2) Zivilprozessordnung), per una obiettiva valutazione dell’efficacia delle nuove misure dettate in tema di giudizio di appello in relazione alla ratio complessiva della micro-riforma dovrà necessariamente attendersi il responso del campo di battaglia; in questa sede, però, alle preoccupazioni già espresse nella parte esegetica del testo normativo deve aggiungersene un’altra di carattere più generale ovvero quella per cui il Legislatore, al fine di curare i mali della giustizia italiana, sembra essersi affidato eccessivamente all’arma del tecnicismo e dell’empirismo giuridico, trascurando l’imprescindibile dato culturale18. Ciò vuol dire che istituti efficaci in altre realtà sociali e normative

15 Cass., Sez. III, sentenza resa in data 21.06.2011, n. 13606; Cass., Sez. III, sentenza resa in data 2005, n. 16525. tutte in www.cortedicassazione.it.

16 Cass. 14098/2009; Cass., sez. 3, 1 giugno 2004, n. 10487, m. 573315, Cass., sez. 3, 19 agosto 2003, n. 12118, m.

565952; in senso contrario Cass. 22014/2007. tutte in www.cortedicassazione.it.

17 M. MINARDI, Giudizio d’appello: le nuove prove, in www.lexform.it, 2010, il quale cita la celebre espressione di Costanzo Mario Cea.

18 Sotto l’aspetto tecnico l’unanime dottrina ha al momento sottolineato l’estrema dannosità della riforma; si considerino al riguardo: T. GALLETTO, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme” e danni collaterali, in www.Judicium.it; M. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male, in www.Judicium.it; R. CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in Cassazione nel processo civile, www.Judicium.it.; R. CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, www.Judicium.it; C. CONSOLO, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze? in www.Judicium.it; C. FERRI, Filtro in appello: passa lo svuotamento di fatto e si perpetua la tradizionale ipocrisia italiana, in Guida al dir., n. 32, Agosto 2012, 10 ss.; G. IMPAGNATIELLO, Crescita del Paese e funzionalità delle

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non necessariamente debbano o possano produrre altrettanti validi risultati nell’ordinamento italiano: molti di questi istituti, infatti, funzionano meglio altrove perché operanti in contesti culturali per loro natura predisposti al raggiungimento degli obiettivi cui la loro creazione è diretta (senza citare Montesquieu e De l’esprit des lois, è noto, ad esempio, come il mondo anglosassone sia storicamente più ricettivo di fronte a sistemi alternativi alla risoluzione giudiziale delle controversie). Ultima esperienza che in Italia può dirsi non propriamente riuscita è proprio quella del processo sommario di cognizione: se da un lato, infatti, i ricorsi ex art. 702 bis C.P.C. non costituiscono uno strumento giuridico molto utilizzato dall’Avvocatura, dall’altro, laddove a tale istituto si faccia ricorso, buona parte della Magistratura tende alla conversione del rito semplificato nel rito ordinario pur in presenza di istruttorie davvero molto poco complesse, per il solo fatto che si debba procedere all’escussione di uno o due testimoni su altrettanti capitoli di prova oppure si debba procedere a consulenza tecnica d’ufficio di rapida esecuzione.

A ben vedere, quindi, più che il ricorso all’introduzione di sempre più nuovi (per la realtà giuridica italiana) strumenti volti a ridurre l’entità del contenzioso civile e dei tempi di risoluzione giudiziale dello stesso, sembra imprescindibile un radicale cambiamento sociale e culturale senza il quale nessuna riforma, per valida che sia, potrà raggiungere i propri dichiarati risultati.

impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.Judicium.it; G. MONTELEONE, Il Processo civile in mano ai tecnici, in www.Judicium.it.; B. CAPPONI, V. TAVORMINA e M. ZUMPANO, Dialoghi a margine dell’art.

54 d.l. 83/2012, in www.Judicium.it.

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