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Il diritto processuale civile «non sostenibile» - Judicium

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BRUNO CAPPONI

Il diritto processuale civile «non sostenibile»

1.- Il termine «sostenibilità» rimanda ad un modello di sviluppo frutto di un’evoluzione finalizzata ad obbiettivi di miglioramento, tale che il soddisfacimento dei bisogni presenti non si traduca in compromissione di analoghe esigenze in prospettiva futura. L’utilizzo «sostenibile» di una risorsa non può portare alla sua totale consumazione.

Ove potessimo far capo ad un simile concetto anche nel diritto processuale civile, potremmo forse riconoscerne gli indici – probabilmente tra molti altri – nella selezione delle fonti tramite le quali il diritto viene aggiornato; nella combinazione tra diritto di nuova produzione e diritto consolidato;

nei compiti di cui l’interprete si trova ad essere investito per l’analisi e la sistemazione coerente del diritto nuovo. Diritto processuale civile «non sostenibile» potrebbe così essere, in primo luogo, quello prodotto con fonti inappropriate; quello che non si amalgama in unità col diritto previgente;

quello che determina nell’interprete comune (l’applicazione di una legge fondamentale, come quella che regola il processo, non dovrebbe richiedere competenze specialistiche) difficoltà di lettura e si- stemazione tali che il nuovo diritto non possa comprendersi esattamente ovvero collocarsi armonio- samente, con l’uso dei criteri ermeneutici noti, nell’impianto consolidato. Sarà tale, in una parola, quello che consentirà all’interprete – e, in definitiva, al giudice, che è l’interprete chiamato ad af- fermare il diritto – letture tra loro diverse o addirittura incompatibili, sì da favorire una pluralità di incontrollabili prassi applicative.

2.- Quanto alle fonti per la produzione di nuovo diritto, va preso atto che molti dei più recenti inter- venti sul c.p.c. risultano realizzati con decreto-legge o con la relativa legge di conversione:

l’esempio più vistoso è quello del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazio- ni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 recante Misure urgenti per la crescita del Paese, che ha modi- ficato la disciplina dell’appello e del ricorso per cassazione (1); ovvero con provvedimenti che, per il loro serrato corso parlamentare, non consentono un esame approfondito dei contenuti, di tipo elet- tivamente tecnico: è il caso dell’art. 1, comma 20, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, Disposi- zioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, altrimenti detta Legge di sta- bilità, che ha modificato gli articoli 543, 546, 548 e 549 del c.p.c., ridisegnando il modello dell’espropriazione forzata presso terzi. Non è questa la sede per dar conto di altri interventi sulla

1 La letteratura sul punto è già piuttosto vasta. Sull’appello, anche per citazioni, v. Poli, Il nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2013, 120 ss.; Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella «iconoclastica» del 2012, ivi, 145 ss. Sulla coeva riforma del n. 5) dell’art. 360, cfr. soprattutto, anche con diverso orientamento sulle con- crete conseguenze della novella, Sassani, Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in Cassazione del ragionamento del giudice, in www.judicium.it dal 10 aprile 2013; Fornaciari, Ancora una riforma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.: basta, per favore, basta!, in www.judicium.it, dal 19 agosto 2012; Caponi, La modifica dell’art.

360, 1° comma n. 5) c.p.c., in www.judicium.it dall’11 novembre 2012.

L’Associazione fra gli studiosi del processo civile ha dedicato al decreto-legge estivo un incontro di studi tenutosi a Fi- renze il 12 aprile 2013, con le relazioni di Balena, Le novità relative all’appello, e di Bove, Ancora sul controllo della motivazione in Cassazione, di prossima pubblicazione negli Atti.

SOMMARIO: 1.- Una possibile definizione. 2.- Interventi da decreto-legge. 3.- Interventi da legge finanziaria. 4.- Le discipline transitorie e il diritto intertemporale. 5.- (segue) Il tempo regge l’atto o il processo? 6.- Necessità delle discipline transitorie a tutela dell’unità e coerenza delle discipline processuali. 7.- Il problema del nuovo diritto sulla Cassazione. 8.- Il problema del nuovo diritto sull’appello (con ricadute sulla Cassazio- ne) 9.- Riappacificare il processo col diritto processuale civile.

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legge processuale civile, anche nel recentissimo passato, che hanno fatto del c.p.c. una tela di Pene- lope tessuta e disfatta senza posa (2); intendiamo solo osservare che la scelta del veicolo, nei casi più recenti che abbiamo appena considerato, è stata all’evidenza operata in funzione delle ridotte possibilità di discutere il testo delle novelle, e ciò tanto nel cammino parlamentare quanto in sede di analisi culturale. Sotto questo aspetto, decreto-legge e legge finanziaria si equivalgono, quali mani- festazioni di utilizzo autoritario della funzione di produzione di nuovo diritto.

Riguardo alla prima tipologia di intervento, potrà dirsi che non è certo la prima volta che il legisla- tore utilizza la decretazione d’urgenza per introdurre norme a contenuto processuale; e tuttavia, fermo restando che proprio in materia processuale tale pratica andrebbe seriamente scoraggiata (3), va subito replicato che in precedenti occasioni s’è fatto ricorso a tale strumento o per rinviare l’entrata in vigore di leggi processuali in precedenza approvate (com’è avvenuto dopo la legge n.

353/1990, Provvedimenti urgenti per il processo civile, sino all’elaborazione di una legge ad hoc che della prima ha appunto regolato soltanto l’entrata in vigore (4)), o per utilizzare uno strumento di produzione semplificata e privilegiata allorché il contenuto del decreto-legge non facesse che ri- produrre testi varati da autorevoli Commissioni ministeriali, già ampiamente discussi nelle Aule parlamentari (5).

Si è trattato, in una parola, di interventi emergenziali che avrebbero potuto adottarsi soltanto nelle forme della decretazione d’urgenza, stante l’obbiettivo di differire l’imminente entrata in vigore di altre norme; ovvero di interventi rispetto ai quali la forma prescelta trovava una giustificazione (che potremo condividere o meno, a fronte dell’art. 77 Cost.) nel fatto che, in fondo, il problema era quello di tradurre in legge testi ampiamente noti, già sottoposti al dibattito culturale e addirittura ad analitica discussione e, in parte, approvazione parlamentare.

Col decreto-legge n. 83 del 2012, il discorso cambia radicalmente; già dal punto di vista formale, l’incongruità del veicolo prescelto è testimoniata dal regime dell’entrata in vigore delle nuove nor- me, che risulta addirittura svincolato dalla pubblicazione dello stesso decreto-legge (6); dal punto di

2 Per il solo secondo semestre del 2012 v. Costantino, Rassegna di legislazione (1° luglio – 31 dicembre 2012), in Riv.

dir. proc., 2013, 242 ss. Significativa è stata l’esperienza delle riforme recenti del processo esecutivo, realizzate con una serie ravvicinata di leggi di cui l’una è apparsa il tardivo emendamento dell’altra, intervenendo a più riprese sulle stesse norme che hanno così conosciuto diverse versioni a distanza di pochi mesi l’una dall’altra: cfr. il decreto-legge 14 mar- zo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, in più punti modificata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, a sua volta modificata dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52, poi per più aspetti corretta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. Nell’applicazione del nuovo diritto, ogni versione s’è aggiunta alle altre in applicazione della regola (v. infra) per la quale le nuove norme processuali trovano applicazione nei soli processi di nuova introduzione.

3 Ci permettiamo di rinviare a nostri precedenti scritti in materia: L’applicazione nel tempo del diritto processuale civi- le, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 431 ss.; La legge processuale civile e il tempo del processo, in Giusto processo civ., 2008, 637 ss.; Problemi di costituzionalità e di efficacia nel tempo degli ultimi decreti-legge sul processo civile, in Corr. giur., 1995, 1418 ss.; Orientamenti in tema di sospensione di termini processuali disposta con decreto-legge con- vertito con modificazioni, in Riv. dir. proc., 2002, 1262 ss. Più in generale, La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie (applicazione e vicende), III ed., Torino, 2009.

4 Si è trattato della legge n. 477 del 1992, che, a fronte delle difficoltà nell’applicazione immediata delle riforme recate dalla legge n. 353, ha alfine abbracciato la soluzione, giudicata più facilmente gestibile, del “doppio binario”, soluzione poi replicata da ultimo dalla legge n. 69 del 2009: cfr., quanto alla legge n. 477, Vaccarella-Capponi-Cecchella, Gli in- terventi sulla riforma del processo civile, Torino, 1992; Vaccarella-Capponi-Cecchella, I nuovi interventi sulla riforma del processo civile. La disciplina transitoria dopo il 30 aprile 1995, Torino, 1995.

5 È il caso del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, poi per più aspetti modificata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263.

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vista poi della sostanza degli interventi, s’è trattato di un pasticcio di dubbia lettura, sottratto a qual- siasi previa discussione e verifica in qualsiasi sede, scientifica come professionale, e del quale risul- ta tuttora ufficialmente ignota la paternità. E, per ironia della sorte, il pasticcio è stato realizzato proprio da un governo di tecnici: qualificato, in thesi, non per investitura popolare ma proprio e sol- tanto dalle particolari competenze specialistiche dei suoi componenti. (7)

Governo e Parlamento sono stati sordi a qualsiasi pur ragionevole proposta di emendamento (8).

3.- Il discorso non è destinato a cambiare, ove si prenda in esame la recente riforma “a sorpresa”

dell’espropriazione presso terzi. Non s’è trattato qui di un decreto-legge (ad efficacia differita), ma di un piccolo vagone agganciato ad un lungo treno che non può far soste, perché della finanziaria occorre garantire l’approvazione necessariamente prima della fine dell’anno solare.

Anche in questo caso, la riforma non ha conosciuto alcun previo dibattito in nessuna sede; ufficial- mente, il suo ispiratore non è noto; la responsabilità dell’iniziativa va ascritta al governo dei tecnici sebbene qualsiasi tecnico, che fosse stato preventivamente consultato, avrebbe di certo fatto presen- te che il terzo, il quale non è soggetto passivo dell’espropriazione forzata (9), non può ricevere un trattamento processuale deteriore rispetto a quello di qualsiasi convenuto (10) anche di rito speciale.

(11) Può ben dirsi che uno dei nuovi temi alla moda – la “non contestazione” – ha fatto una vittima davvero incolpevole, nella completa confusione di piani tra parti e terzi.

Il processo esecutivo, negli anni 2005-2006 e poi ancora nel 2009, era stato oggetto di consistenti riforme, che avevano inciso anche sull’espropriazione presso terzi (12); ma, in tali occasioni, nessu- no aveva accennato alla possibilità di ridisegnare il modello dell’accertamento dell’obbligo del ter- zo pignorato. Come avvenuto per la riforma dell’appello e della cassazione, si è scelto di adottare una soluzione a sorpresa, affidata ad un veicolo veloce soprattutto per non lasciare spazi alla rifles- sione pacata e, magari, a possibili proposte di emendamento.

Queste operazioni sono state compiute in un contesto nel quale gli operatori si trovano a dover ag- giornare i loro codici a cadenza sempre più ravvicinata, perdendo di vista unità e coerenza dell’impianto. Non deve sorprendere che le novità processuali più criticabili e criticate risultino es- sere proprio quelle che, introdotte con strumenti che escludono il normale dibattito parlamentare e che, prima del loro varo, non hanno contemplato alcuna forma di consultazione coi destinatari delle riforme, finiscono per abbattersi sul diritto vigente con la leggerezza di una clava. Inferto il colpo, la mano viene subito ritratta: non è dato sapere chi sia l’ispiratore delle novità, quali problemi parti-

6 A norma dell’art. 54, comma 2, della legge di conversione n. 134 del 2012, le nuove norme sull’appello «si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trente- simo giorno successivo a quello dell’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto», mentre a norma dello stesso art. 54, comma 3, la riforma dell’art. 360, n. 5) «si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello dell’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».

7 Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it dal 16 luglio 2012.

8 La vicenda è dettagliatamente ricostruita da Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in Libro dell’anno del diritto Treccani 2013, di prossima pubblicazione.

9 Ci permettiamo di rinviare al nostro Manuale di diritto dell’esecuzione civile, II ed., Torino, 2012, 201 ss.

10 Saletti, Le novità dell’espropriazione presso terzi, in www.judicium.it dal 4 marzo 2013.

11 Diamo per scontata la conoscenza delle polemiche che hanno fatto seguito alla sentenza della Corte costituzionale 12 ottobre 2007, n. 340, in Foro it., 2008, I, 721 ss., dichiarativa dell’incostituzionalità dell’art. 13, comma 2, del decreto legislativo n. 5 del 2003, poi abrogato pressoché per intero dalla legge n. 69 del 2009.

12 V., per tutti, Saletti, L’espropriazione presso terzi dopo la riforma, in Riv. es. forz., 2008, 283 ss.

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colari intendesse risolvere, di quali dati disponesse per la valutazione di impatto della riforma e so- prattutto se, in una valutazione complessiva dei costi e dei benefici, i problemi risolti (se ce ne so- no) giustificassero il prezzo della massa di questioni che ogni riforma, per quanto ben realizzata e ben accolta, porta inevitabilmente con sé.

4.- Altro discorso, che completa le osservazioni preliminari sopra svolte, è quello dell’efficacia da attribuire alle norme di nuovo conio in relazione ai giudizi pendenti.

Il problema si pone con frequenza crescente perché, com’è stato ben detto, il nostro compulsivo le- gislatore sembra ossessionato dal mito della riforma perenne (13), sul dubbio presupposto che le modifiche del rito possano da sole risolvere i problemi dell’amministrazione della giustizia. (14) Principio ispiratore nell’applicazione di tutte le più recenti novelle è stato quello per cui i processi pendenti debbano restare soggetti alle norme abrogate (è il noto fenomeno dell’ultrattività), con la conseguente formazione di un “doppio binario” (vecchio rito-nuovo rito); la soluzione è stata segui- ta ormai tante volte da apparire del tutto naturale ed obbligata, ed anzi – lo vedremo subito – c’è chi la eleva a sistema razionale.

Va però rammentato che non sempre le discipline transitorie sul processo civile sono state ispirate al sistema del “doppio binario”, determinando la formazione di blocchi separati di contenzioso: è anzi, questa, una tecnica relativamente recente, che non appartiene alla tradizione storica e che solo in apparenza risulta, nella sua rozzezza, di una qualche utilità pratica per la migliore gestione nel tempo dei contenziosi civili.

Un veloce sguardo all’indietro testimonia che l’entrata in vigore del codice del ’40 (15) venne ac- compagnata da dettagliatissime discipline transitorie (r.d. 18 dicembre 1941, n. 1368, Disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie) integrate da una delle due note circolari ministeriali contenenti “direttive” ed “istruzioni” alla Magistratura (in particolare la n.

2691, Istruzioni sulle norme transitorie per l’applicazione del nuovo codice di procedura civile), impartite dal ministro Grandi (su cui scrissero mirabilmente Redenti (16) e Satta (17)). L’obbiettivo era di dare applicazione immediata, anche nei giudizi in corso, alle nuove regole processuali essen- do il nuovo codice giudicato «meglio rispondente all’evoluzione della scienza ed alle nuove esigen- ze politiche e sociali dei tempi», «punto di partenza per la formazione di un nuovo costume foren- se».

Anche la legge del ’50 venne accompagnata da disposizioni transitorie particolarmente dettagliate, che miravano – dietro la schiacciante pressione dei pratici, che avevano rigettato il modello del nuovo codice – a dare applicazione immediata alla controriforma: obbiettivo dichiarato del guarda- sigilli era «di estendere, fin dove era possibile, il nuovo rito alle cause in corso». Occorreva garanti- re il primato del nuovo diritto, che si sarebbe arrestato solo a fronte di situazioni processuali ormai consolidate o “esaurite”. Riemerge qui l’idea (18) che la norma abrogata è mortua et mortifera: un

13 Sassani, Il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Riv. dir. proc., 2012, 1429 ss.

14 Si tratta di «un vecchio idolum della nostra dottrina processualistica»: così Tarzia, Crisi e riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1991, 632 ss., 633.

15 Sia ancora consentito il rinvio, anche per essenziali richiami, al nostro L’applicazione nel tempo del diritto proces- suale civile, cit., part. 466 ss.

16 Le disposizioni transitorie per i processi di cognizione civile, Milano, 1942.

17 Le circolari ministeriali per l’applicazione del nuovo codice di procedura civile (appendice alla guida pratica), Pa- dova, 1942.

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errore che viene sanato dal nuovo intervento del legislatore, che perciò deve trovare la più ampia applicazione anche nelle situazioni pendenti. La legge n. 581 del 1950 recava una norma di delega al governo per l’emanazione delle norme transitorie, sulla cui base venne emanato il decreto legisla- tivo 17 ottobre 1950, n. 857, Disposizioni di coordinamento e di attuazione della legge 14 luglio 1950, n. 581, il cui obbiettivo è stato quello di «innestare le cause in corso nel nuovo sistema ed ac- cogliere con la maggiore possibile larghezza i voti delle curie».

Il principio del “doppio binario”, accolto anche dall’ultima più ampia riforma del c.p.c. portata dalla legge n. 69 del 2009 (19), è invece quello che ispira il più recente legislatore. Il risultato è stato quel- lo di favorire la nascita di varie generazioni di “vecchi riti”, sempre più ravvicinate grazie alla di- sordinata proliferazione delle riforme sul processo: è accaduto nel 1990 con la legge n. 353 (art. 90, novellato dapprima nel 1992 con una legge ordinaria, la n. 477, e poi nel 1994 e nel 1995 con due serie di decreti-legge più volte reiterati) (20); è accaduto poi con la riforma del 2005 (legge n. 80 di conversione del decreto-legge n. 35 sulla competitività, in più punti immediatamente modificata dalla legge n. 263 del 2005) che, a seguito di successivi ravvicinati interventi sulla norma transitoria (decreto-legge n. 115 del 2005, convertito dalla legge n. 168 del 2005; legge n. 263 del 2005, che ha riscritto la transitoria; decreto-legge n. 271 del 2005, non convertito nei termini, con disciplina poi riproposta dal decreto-legge n. 273 del 2005 convertito dalla legge n. 51 del 2006), è definitivamen- te entrata in vigore il 1° marzo 2006, saldandosi con la legge n. 52 del 2006, frattanto intervenuta (21); è accaduto di nuovo nel 2009 e verosimilmente accadrà ancora. I “vecchi riti” non interessano il solo processo di primo grado, ma l’intero giudizio nel passaggio dei gradi, favorendo l’ultrattività delle norme abrogate sino alla fase di rinvio dopo la cassazione.

È certamente curioso notare come proprio l’ultimo legislatore processuale si sia preoccupato della riduzione e semplificazione dei riti (22), quasi senza avvedersi che la stessa legge n. 69, come ogni legge di riforma del processo, importava di per sé l’automatica introduzione di un nuovo rito che per lungo tempo avrebbe coesistito col rito precedente, il quale a sua volta già coesisteva con quello ancora anteriore, determinando i noti problemi dell’ “ulteriore binario”. L’esistenza di plurimi bina- ri fa sì che il giudice, nella stessa udienza, sia chiamato ad applicare più riti di cognizione ordinaria, e ciò soltanto perché il legislatore trascura di dettare discipline transitorie che riportino quel rito ad unità. Si accontenta, il legislatore, di stabilire a quali regole debbano andare soggetti i separati bloc- chi di contenzioso, senza interrogarsi sulla razionalità della scelta di mantenere in vita un rito abro- gato per il contenzioso pendente (ne vedremo applicazioni esiziali in tema di giudizio di legittimità,

18 Giuliani, Disposizioni sulla legge in generale: gli artt. da 1 a 15, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, I, Torino, 1982, 186 ss.

19 Ci permettiamo di rinviare a Il processo civile e il regime transitorio della legge n. 69 del 18 giugno 2009, in Corr.

giur., 2009, 1179 ss.

20 A dire il vero, il legislatore del 1990 era dapprima partito dall’idea di un’applicazione immediata della novella anche nei giudizi pendenti, ma poi, con la legge n. 477 del 1992, ha abbracciato la soluzione, ritenuta più facilmente percorri- bile, del “doppio binario”: cfr. ancora Vaccarella-Capponi-Cecchella, Gli interventi sulla riforma del processo civile, cit.; Vaccarella-Capponi-Cecchella, I nuovi interventi sulla riforma del processo civile. La disciplina transitoria dopo il 30 aprile 1995, cit.

21 Ci permettiamo di rinviare a Note sull’entrata in vigore delle recenti novelle al codice di procedura civile, in Giur.

it., 2006, 2445 ss.

22 Art. 54 della legge n. 69 cit., sulla cui base è stato emanato il decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, Disposi- zioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, su cui v., tra gli altri, Sassani-Tiscini, La semplificazione dei riti civili, Roma, 2011; Carratta, La «semplifi- cazione» dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012.

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a proposito dell’abrogazione del sistema dei quesiti di diritto ad opera della legge n. 69 del 2009, ma il problema ha riguardato altri clamorosi incidenti (23)).

Insomma, quelle più recenti non sono state vere discipline transitorie, ma mere segnaletiche di dirit- to intertemporale (24); il loro obbiettivo è stato quello di individuare il diritto applicabile, non anche quello di creare un insieme coerente tra vecchio e nuovo, favorendo l’applicazione di un solo rito civile che sia, quanto alle cause pendenti, frutto virtuoso di quella combinazione. L’abnorme durata dei nostri giudizi civili facilita la convivenza, nel ruolo del giudice, di cause soggette a diversi riti laddove la diversità del rito non sarà mai giustificata da razionali esigenze di differenziazione del contenzioso: si tratterà di una diversità da semplice, casuale affastellamento. E non altro.

5.- L’esame della negativa incidenza delle riforme sul processo (per come realizzate) ha portato – ma, a mio avviso, si è forse confuso il sintomo con la malattia – a predicare la vigenza di un princi- pio che legherebbe la norma processuale non all’atto, ma al processo: tempus regit processum. (25) È un’idea che fa proseliti acritici (26), senza avere solide basi.

Il canone dell’applicazione immediata, anche nei giudizi in corso, delle nuove norme processuali riflette l’esigenza “progressista” dell’immediata incidenza delle riforme e così dell’immediata frui- bilità dei vantaggi che potranno derivare dall’applicazione di norme che il legislatore stima più giu- ste ed opportune di quelle che contestualmente abroga. È per questo che il legislatore, nel tempo, tendeva a dare il più ampio spazio applicativo alle norme nuove (pur nella consapevolezza che esse si calavano in un contesto variabile e che potevano conoscere la crisi del “conflitto”).

La coesistenza di norme abrogate e norme sopravvenute – che, nel processo, si traduce in quella de- gli atti rispettivamente soggetti alle une ed alle altre – inevitabilmente determina un conflitto, a fronte del quale è la difficile ricerca del compromesso tra due posizioni estreme: da un lato, quella dell’ultrattività delle norme abrogate per l’intera durata del giudizio, insensibile al diritto sopravve- nuto (è la soluzione che oggi, come abbiamo visto, tende a prevalere); dall’altro lato, quella dell’applicazione della norma sopravvenuta anche nella ricognizione della validità ed efficacia degli atti anteriormente compiuti. La prima soluzione, che sembra privilegiare il principio di perpetuatio, confligge col canone di applicazione immediata della norma processuale; la seconda soluzione, che privilegia il momento finale del processo in cui il giudice valuta nella prospettiva della finale deci- sione di merito l’intera attività compiuta, confligge col divieto di applicazione retroattiva.

La soluzione corretta non potrà essere né l’una, né l’altra.

Punto di partenza di qualsiasi analisi ragionata è l’identificazione dell’atto del processo in relazione al quale il conflitto immediatamente rileva. (27) Questo può avere infatti un duplice aspetto: conflitto

23 È il caso, ad esempio, dell’art. 624, comma 3, c.p.c., a proposito del meccanismo di sospensione-estinzione del pro- cesso esecutivo. La norma, introdotta nel 2006 dalla legge n. 52, è stata frettolosamente modificata nel 2009 (legge n.

69), ma stranamente il legislatore ne ha deciso l’ultrattività in tutte le procedure pendenti alla data del 4 luglio 2009, nonostante fosse stato universalmente riconosciuto che la norma originaria riusciva per molti versi incomprensibile, e per molti aspetti non poteva essere applicata (si pensi alla “estinzione” del pignoramento, alla imposizione della cauzio- ne sottratta al successivo controllo del g.e., alla “autorità” dell’ordinanza di sospensione-estinzione in altri giudizi). Pe- raltro, anche la versione 2009 non è esente da critiche per la sua approssimativa confezione tecnica: cfr. Quer pastic- ciaccio brutto dell’art. 624, comma 3, c.p.c., in Riv. es. forz., 2009.

24 Cfr., ancora, La legge processuale civile, cit., 121 ss.

25 Caponi, Tempus regit processum (un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo), in Riv. dir. proc., 2006, p. 449 ss.; Id., Tempus regit processum ovvero autonomia e certezza del diritto processuale civile, in Giur. it., 2007, 689 ss.

26 V., ad esempio, Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello, cit., 157, nota 29.

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rispetto all’atto, trattandosi di stabilire a quale delle normative succedutesi nel tempo esso deve es- sere soggetto (28); conflitto rispetto agli atti successivi, trattandosi di identificare soluzioni di com- patibilità che garantiscano unità e coerenza interna del singolo giudizio, che è quanto dire della serie degli atti soggetti nel tempo a normative diverse.

Se ogni atto del processo non può che avere un suo tempo, e se il conflitto di norme insorge allorché atti successivi della serie risultino soggetti a leggi diverse perché mutate nel tempo, la situazione andrà risolta identificando, in relazione al singolo atto, la norma applicabile (risultato che chiama una soluzione di diritto intertemporale, inteso come diritto di risoluzione dei conflitti) e quindi ren- dendo tale atto coerente con la serie degli atti successivi, soggetti alla legge sopravvenuta (risultato che chiama, o dovrebbe chiamare, una soluzione di diritto transitorio, inteso come diritto di raccor- do tra vecchio e nuovo (29)). In un sistema ideale – ma lontanissimo, purtroppo, dalla realtà attuale – norme di diritto intertemporale e norme di diritto transitorio dovrebbero cooperare per la risoluzione del conflitto di leggi, favorendo l’applicazione immediata delle norme sopravvenute ed il loro ar- monico inserimento nel variabile contesto rappresentato dal contenzioso pendente.

6.- Il canone tempus regit processum vorrebbe per il processo un tempo unico laddove esso non è, per definizione, uno soltanto; tra le tante variabili, che un’attività estesa nel tempo inevitabilmente pone, v’è quella della successione delle norme processuali: è arbitrario – per quanto giustificato dall’ansia di individuare una regola sola, e di facile applicazione (30) – ridurre il conflitto di leggi all’individuazione di una sola tra le diverse discipline che il processo potrebbe aver conosciuto nell’arco del suo svolgimento. Lo stesso canone, riferito al processo nella sua unità che deriva dal passaggio dei gradi, produce l’inammissibile risultato della conservazione nel tempo di regole che lo stesso legislatore stima inadeguate o inopportune, garantendo sopravvivenza o ultrattività della vecchia disciplina che, limitando l’efficacia delle riforme, finisce per contraddire il canone della pa- rità di trattamento. La teoria del “diritto transitorio” o delle “terze norme” (31) risponde appunto ad un criterio di ragionevolezza, ponendosi l’obbiettivo di non differenziare i trattamenti se non in ra- gione di posizioni o diritti già definitivamente acquisiti (facta praeterita). Infine, la regola tempus regit processum non ha alcun fondamento di diritto positivo: né nelle preleggi, né nel codice di pro- cedura civile, che anzi si ispirano entrambi al principio dell’immediata applicazione delle norme processuali.

Il problema non si risolve quindi con nuovi sintetici slogan: è problema di stretto diritto positivo, che l’interprete deve indagare alla luce delle norme e del sistema. Consapevole del fatto che, quan- do il legislatore non detta regole di diritto transitorio – e le attuali tendenze sono appunto nel senso

27 È la posizione giustamente difesa dalla Cassazione: v., da ultimo, sez. I, 17 marzo 2005, n. 5820.

28 Ciò può comportare delicati problemi, in quanto vi sono attività processuali che constano di una serie di atti che po- trebbero ricadere in regimi diversi; in tal caso l’interprete, se non può isolare gli effetti dei singoli atti della serie, dovrà far capo alla nozione di “unità” dell’atto (o sub-procedimento), preferendo la soluzione dell’applicazione ultrattiva della legge sotto il cui imperio la serie ha avuto inizio.

29 Pace, Il diritto transitorio, con particolare riguardo al diritto privato (con prefazione di Rotondi), Milano, 1944, con ampie notizie storiche; Grottanelli de’ Santi, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Milano, 1970, part.

198 ss.

30 A fronte dell’insipienza del legislatore, che «troppo spesso si permette di dire a giudici ed avvocati di risolvere il pro- blema da soli»: così Caponi, op. loc. ult. cit. Già Giuliani, op. cit., 181, rammentava che «vi è orrore per il caos deter- minato dal conflitto di regole distanti nel tempo … Non è ammissibile il dubbio sulla regola da applicare: il principale effetto della legge è l’obligatio, la quale “non oritur nisi ex virtute legis”».

31 V., anche per riferimenti, G.U. Rescigno, voce Disposizioni transitorie, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 219 ss.

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di una totale svalutazione delle discipline transitorie sul processo – occorrerà far capo a nozioni ma- turate in ambiente civilistico (quali “diritto acquisito”, “fatto compiuto” nella prospettiva dell’atto (32); “legittima aspettativa”, “tutela dell’affidamento” nella prospettiva del soggetto) in relazione all’attività processuale realizzata applicando la legge abrogata, nonché ai princìpi generali del pro- cesso ed a quelli costituzionali sulla tutela dei diritti, che debbono dal canto loro garantire l’unità e la coerenza interna dei procedimenti giudiziari ogni volta che il legislatore ometta di curare gli op- portuni raccordi.

Il lavoro degli interpreti non viene facilitato dall’ultrattività delle norme abrogate; la facilitazione deriverebbe dall’applicazione di un rito unico e dalla possibilità di usufruire, per quanto possibile, dei miglioramenti derivanti dalle norme nuove.

7.- I problemi cui abbiamo sopra accennato in relazione a discipline autoritativamente imposte, in uno alle questioni indotte dalla necessità di decifrare norme formulate in modo poco perspicuo (33), hanno determinato nei pratici una pericolosa reazione di rigetto verso le discipline processuali. Que- ste, sempre più, sono avvertite come oscuri dispositivi suscettibili di impreviste applicazioni, per lo più volte a creare condizioni preclusive della decidibilità nel merito della controversia. La norma processuale si rivela non fautrice della razionalità, prevedibilità e giustizia del processo, ma un mol- tiplicatore di errori ed incidenti, non tutti prevedibili (con diligenza ben più intensa di quella ordina- ria), che del processo giungono a pregiudicare la funzione stessa: che, come amava ripetere Andrio- li, è esclusivamente quella di stabilire chi ha torto e chi ha ragione.

Il fenomeno è evidentissimo in tema di impugnazioni.

Da tempo, e già a partire dalle discussioni preparatorie della riforma del 1990 (34), la Corte recla- mava un regolatore del contenzioso, schiacciata dal numero delle sopravvenienze. Il legislatore ha colpevolmente rinviato il problema varando addirittura inopinate riforme in controtendenza (35), fin quando, col decreto legislativo n. 40 del 2006, ha inaugurato la stagione (che si sarebbe rivelata ef-

32 La meno recente giurisprudenza parlava sovente di “diritto quesito processuale”, quale limite all’applicazione imme- diata della nuova norma processuale: cfr., ad es., Cass. 5 febbraio 1942, n. 342, in Giur. it., 1942, I, 1, 230 ed in Foro it., 1942, I, 436, che individua la categoria del diritti quesiti processuali «fondati sulla regola generale che chi abbia po- sto in essere alcuni atti in conformità alla legge vigente, ha diritto a quegli utili effetti giuridici costituenti lo scopo al quale gli atti stessi erano preordinati». Conf. Cass. 23 maggio 1946, n. 641, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1946, I, 58.

33 Si consideri, a titolo d’esempio tra i tanti, l’irrisolto problema della fase introduttiva delle opposizioni esecutive. Le norme, al riguardo, sono veri campioni di ambiguità: basti pensare che l’art. 616 c.p.c., nel testo introdotto dalla legge n.

52 del 2006, parla, dopo una prima udienza soggetta addirittura al rito camerale (art. 185 disp. att. c.p.c., ancora nel te- sto introdotto dalla legge n. 52 del 2006), di un provvedimento del g.e. che assegna un termine perentorio per

“l’introduzione” del giudizio di merito, ovvero per la sua “riassunzione” dinanzi all’ufficio giudiziario competente; se- condo la Cassazione, questa nuova “introduzione” di un’opposizione già introdotta con ricorso al g.e. deve essere rea- lizzata di norma con atto di citazione, a pena di inammissibilità (Sez. VI, 7 novembre 2012, n. 19264 quanto all’opposizione agli atti esecutivi; Sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 1152 quanto all’opposizione all’esecuzione), dovendosi dedurre dal “sistema” (del quale è parte integrante l’art. 624, comma 3, c.p.c.!) che il ricorso al g.e. introduce la sola fa- se sommaria, e che la fase di merito dell’opposizione necessita di un nuovo impulso «secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito» che sono, di norma, quelle ordinarie.

34 Mi riferisco alla notissima bozza Brancaccio-Sgroi, che venne discussa in un incontro di studio tenutosi a Trevi il 25 e 26 marzo 1988, e poi pubblicata in Documenti Giustizia, 1988, n. 7/8, 77 ss., ed ivi commentata da vari studiosi.

35 Tale è stata la legge n. 52 del 2006, con l’introduzione della regola d’inappellabilità – anzi, non impugnabilità – delle sentenze definitive delle opposizioni all’esecuzione e di terzo all’esecuzione, soluzione cui si è poi opportunamente ri- nunciato nel 2009 con la più volte citata legge n. 69 (e qui, ragionevolmente, una norma transitoria ha previsto che le opposizioni, pendenti alla data di entrata in vigore della legge 69 – 4 luglio 2009 – non rimanessero soggette alla regola abrogata, concludendosi tutte con sentenza appellabile: cfr. ancora Il processo civile e il regime transitorio, cit., 1185).

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fimera) dei quesiti di diritto. Questi, nati come un fattore di razionalizzazione del lavoro tanto degli avvocati quanto della Corte, sono presto divenuti, fin dalla primissima applicazione, un improprio quanto spietato regolatore: al punto che la Corte ha preteso la formulazione di un quesito di fatto, o di sintesi, anche con riferimento al motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c., nonostante il quesito non fosse affatto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. La giurisprudenza sui quesiti – che continuerà ad esercitarsi liberamente nei giudizi di cassazione pendenti alla data di entrata in vigore della legge n.

69 del 2009 che pure ha abrogato l’art. 366 bis c.p.c., ad ulteriore dimostrazione dell’irragionevolezza e dannosità della scelta di lasciare in vita le norme abrogate nei giudizi pen- denti – ha portato ad elaborare acrobatiche costruzioni sui criteri di redazione, sul carattere assertivo o interrogativo del quesito, sul quesito elaborato in forma di principio di diritto, sui quesiti plurimi, condizionati, alternativi, dubbi, sulla specificità richiesta in relazione al caso da decidere, sui quesiti astratti, sui quesiti quali riassunto sintetico ma completo dei motivi. Una stucchevole giurisprudenza ha impegnato per tre anni (più la fase di esaurimento, ben più estesa e che sarebbe incongruo defini- re “transitoria”) la giurisprudenza della Corte, sottraendo risorse preziose alla decisione nel merito dei ricorsi. L’esperienza ha lasciato (e, ciò che sembra più grave, sta continuando a lasciare) sul campo i resti di ricorsi fondati, dichiarati tuttavia inammissibili per difetto di un requisito – il quesi- to, formulato nel modo preteso dalla Corte con una giurisprudenza che s’è chiarita soltanto strada facendo – di cui, ovviamente, l’impugnante non poteva tener conto all’atto della redazione del ri- corso.

Possiamo forse dire che tanto è stata coraggiosa e costruttiva la giurisprudenza della Corte in sede di prima applicazione del ricorso straordinario, che ha fatto del nostro Giudice supremo un riferi- mento di civiltà (36); così è stata demolitoria e accidiosa l’esperienza dei quesiti, che verranno ricor- dati – addirittura oltre i loro demeriti – come uno dei passaggi più oscuri nella giurisprudenza di le- gittimità.

Abrogato l’ambiguo sistema dei quesiti, la legge n. 69 del 2009 ha introdotto un vero e proprio “fil- tro”, affidando ad una sezione ad hoc l’esame preliminare dei ricorsi. Ma la formulazione del n. 2) dell’art. 360 bis è troppo generica e comunque fa rinvio ad una «manifesta infondatezza», mentre quella del n. 1) è perplessa nella sua stessa formulazione letterale: il ricorso è inammissibile se il provvedimento impugnato ha risolto le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte, e l’esame dei motivi «non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa». Individuato un orientamento consolidato, e già questo potrà rivelarsi un serio problema, il ricorso, a ben vedere, potrà essere dichiarato inammissibile sia se si tratti di confermare, sia se si tratti di mutare quell’orientamento. (37)

È evidente che la discrezionalità riconosciuta alla Corte risulta di fatto incontrollabile, perché la formula utilizzata – sembra fatto apposta, in patente violazione del canone che vuole «giusto» il processo «regolato dalla legge» – potrà giustificare il consolidamento di qualsiasi applicazione del temutissimo “filtro”.

La prima spiegazione affacciata dalla stessa Corte chiarisce trattarsi di un’inammissibilità che si confonde con l’infondatezza nel merito dei motivi di ricorso. (38) Si tratta quindi di una selezione fondata sulla manifesta infondatezza, pur discorrendosi di inammissibilità, e che presuppone l’esistenza di una giurisprudenza della Corte di tipo consolidato su qualsiasi argomento; laddove è

36 Sulla fondamentale sentenza n. 2593/1953 e sui suoi rapporti col testo costituzionale e cogli stessi lavori dell’Assemblea costituente v. Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005, part. 42 ss.

37 Monteleone, Il punto sul nuovo art. 360 bis c.p.c. (sull’inammissibilità del ricorso alla cassazione civile), in Giusto proc. civ., 2010, 967 ss.

38 Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19051.

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evidente che il principale problema della nostra Cassazione è proprio quello di continuare a produr- re orientamenti ondivaghi, stante il numero delle occasioni in cui essa deve pronunciarsi, in breve torno di tempo, su identiche questioni. (39)

Se il sistema dei quesiti è stato sostanzialmente malinteso, quale selezione fondata sul «filtro a que- siti» (40), il “filtro” vero e proprio ci ha consegnato un testo contraddittorio ed ambiguo, la cui esatta portata potrà essere chiarita, nel tempo, soltanto dalla giurisprudenza della Corte; ma, come già ac- caduto per il sistema dei quesiti, almeno nella prima applicazione i ricorrenti dovranno tirare ad in- dovinare, non essendo chiaro come il bisticcio tra inammissibilità e infondatezza potrà reagire sulla selezione preliminare dei ricorsi.

8.- La confusione di piani tra inammissibilità e infondatezza è stata la vera stella polare della rifor- ma estiva delle impugnazioni, e segnatamente dell’appello; l’attenzione di tutti è stata immediata- mente attratta dal nuovo “filtro” di inammissibilità, legato alla prognosi infausta sull’accoglimento, nel merito, del gravame. L’inammissibilità è dichiarata in limine con ordinanza, della quale non è chiaro l’autonomo regime di impugnabilità (41). Con un sussulto circense, l’inammissibilità dell’appello per prognosi infausta nel merito potrà aprire la strada al ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, a determinate condizioni, creandosi così un nuovo canale di accesso im- mediato al giudice di legittimità (soluzione in controtendenza con l’esigenza, sempre ribadita, di se- lezione dei ricorsi).

Dietro questa misura deflagrante, ce n’è un’altra meno vistosa: la riforma dell’art. 342 c.p.c., che introduce una diversa forma di inammissibilità legata alla confezione tecnica del gravame (da di- chiararsi con sentenza), rischia di fare più vittime dello stesso “filtro” perché l’appello, da tradizio- nale impugnazione a critica libera, rischia di vedersi trasformato in impugnazione limitata. Proces- sualisti esperti dichiarano, in tutta franchezza, che soltanto a distanza di qualche tempo dall’entrata in vigore della riforma hanno acquisito piena contezza delle possibili conseguenze del ritocco dell’art. 342 c.p.c., e ne denunziano l’illegittimità costituzionale. (42)

La riforma estiva ha portato anche un ritocco del n. 5) dell’art. 360 c.p.c., al dichiarato scopo di li- mitare i ricorsi fondati sul vizio di motivazione. Quale che sia il risultato raggiunto (43), vera o no che sia la conclusione giusta la quale un accorto difensore potrà comunque recuperare il vizio della sentenza ricorribile vestendolo col n. 3) o col n. 4) dello stesso art. 360 (44), non v’è dubbio che la previsione rappresenta un ulteriore tassello del mosaico, in costruzione dal 1990 con la riforma

39 Cfr., per tutti, Taruffo, L’incerta trasformazione della Corte di cassazione italiana, in Problemi e prospettive delle Corti supreme: esperienze a confronto, a cura di S. Chiarloni e C. Besso, Napoli, 2012, 123 ss., spec. 131 ss.

40 Così, significativamente, D’Ascola, Ricorso per cassazione e falsa applicazione di norme di diritto, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M. Acierno, P. Curzio e A. Giusti, Bari, 2011, 139 ss., 161.

41 Cfr. Monteleone, Appendice di aggiornamento al manuale di diritto processuale civile, VI ed., Padova, 2012, 4, se- condo il quale l’ordinanza di inammissibilità sarebbe impugnabile col ricorso straordinario sebbene la sentenza di primo grado risulti a sua volta impugnabile con autonomo ricorso ordinario.

42 Scarselli, Sulla incostituzionalità del nuovo art. 342 c.p.c., in www.judicium.it dal 16 aprile 2013.

43 V. gli scritti, già citati, di Fornaciari, Ancora una riforma, cit., e di Bove, Ancora sul controllo della motivazione in Cassazione, cit., del quale ultimo v. anche Giudizio di fatto e sindacato della Corte di cassazione: riflessioni sul “nuo- vo” art. 360, n. 5), c.p.c., in Giusto proc. civ., 2012, 677 ss.

44 Cfr. Sassani, Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza, cit.

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dell’art. 282 c.p.c., tendente a far acquisire centralità alla sentenza di primo grado, ponendo in se- condo piano tutto il corredo delle impugnazioni.

Strada facendo, tra quesiti e filtri la legge 12 novembre 2011, n. 183 ha aggiunto un comma all’art.

283 c.p.c., autorizzando il giudice dell’impugnazione, che dichiari l’istanza di inibitoria inammissi- bile o manifestamente infondata, a «condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250,00 e non superiore ad euro 10.000,00». (45) Si era anche tentato, con solu- zione felicemente abortita (46), di assoggettare gli appelli e i ricorsi per cassazione ad una istanza di prosecuzione o manifestazione di perdurante interesse al gravame, da depositarsi in un termine pe- rentorio decorso il quale l’impugnazione sarebbe stata dichiarata estinta, col conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata. (47)

Si legge nella sentenza delle SS.UU. 19 giugno 2012, n. 10027, che l’ordinamento ha il compito di assegnare la maggiore efficacia possibile alla sentenza di primo grado (48), «presunta conforme a di- ritto», vuoi nell’esecutorietà vuoi nell’autorità «nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pre- giudiziale e lite sulla causa pregiudicata», dovendo tendere, nel contempo, a «scoraggiare il protrar- si della lite», scoraggiare, cioè, la proposizione delle impugnazioni.

Ovviamente, il pubblico dei destinatari delle norme processuali non può non consolidarsi nel suo peggiore convincimento: il cammino del difensore è ormai disseminato di vere e proprie trappole, predisposte con norme di approssimativa fattura e così di non chiara interpretazione, destinate ad esser lette in un clima di generale sfavore per il sistema dei controlli. Inizia a farsi strada l’idea, pur non confessata apertamente, che per la redazione degli atti di impugnazione si renderà opportuna la supervisione di un “esperto” che sappia districarsi tra i tanti tranelli che un legislatore incattivito predispone senza posa, riuscendo a fare del processo un terreno disseminato di insidie, un percorso ad ostacoli sempre più spesso occulti.

Si rifletta su un semplice dato: se l’ordinanza con cui la Corte d’appello dichiara inammissibile il gravame per prognosi infausta (e cioè per una manifesta infondatezza nel merito) non si giudichi ri- corribile per cassazione, non soltanto ogni Corte d’appello potrà dare un’applicazione incontrollata della riforma, ma neppure potrà sollecitarsi alla Corte Suprema un intervento regolatore, proprio laddove il concetto indeterminato utilizzato dal legislatore dovrebbe rendere più utile ed opportuno il pronunciamento del giudice di legittimità. Salvo immolarsi all’inammissibilità, per utilizzare il meccanismo dell’art. 363 c.p.c. «nell’interesse della legge».

9.- Questo breve scritto – lo abbiamo già detto – non ha la pretesa di illustrare il contenuto delle ul- time novelle sul codice di procedura civile, né quella di analizzare nel dettaglio quelle più recenti, e più dubbie, sulle impugnazioni e sull’espropriazione presso terzi: che abbiamo non a caso indicato come paradigmatiche dell’attuale approccio del legislatore ai problemi della giustizia civile. Ciò che interessa segnalare è soprattutto la questione di metodo: un legislatore occulto, sottraendosi a qual- siasi confronto, sta inquinando il codice di procedura con interventi improvvisati ed eterogenei, che non rispettano la logica del settore nel quale pure dovrebbero integrarsi.

Si tratta di un fenomeno inedito e pericoloso, che chiama una reazione immediata.

45 Impagnatiello, La nuovissima disciplina dell’inibitoria in appello, in Giusto proc. civ., 2012, 109 ss.

46 Cfr. la legge 17 febbraio 2012, n. 10, recante Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 212, recante disposizioni urgenti in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento e disciplina del processo civile.

47 Impagnatiello, op. loc. ult. cit.

48 Cfr., se vuoi, Orientamenti recenti sull’art. 282 c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 265 ss.

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Quando la nozione di «giusto processo giurisdizionale» è stata posta in relazione ad una previsione di legge regolatrice del processo (art. 111, comma 1, Cost.), il modo migliore di leggere un princi- pio a molti apparso tautologico (e forse inutile) è stato quello di contrapporre la legge al giudice, in modo da escludere che il giudice, nel vuoto ed in luogo della legge, potesse determinare a suo libito le modalità e le forme del processo giurisdizionale (49). Ma quando le norme processuali vengono ritagliate attorno a concetti assolutamente indeterminati; quando si rimette all’interprete di contribu- ire alla costruzione di una fattispecie che deliberatamente nasce “aperta”, e resta suscettibile di esse- re composta in tanti modi diversi anche prescindendo dalla terminologia tecnica utilizzata (nel caso delle impugnazioni: la categoria dell’inammissibilità), o dal riferimento al soggetto destinatario del- la norma (nel caso dell’espropriazione presso terzi: chi non è parte viene confuso con chi ha la qua- lità di parte); quando si confondono le categorie, travasando per fini di comodo l’una nell’altra; al- lora diventa molto alto il rischio della violazione dei principi costituzionali, ad iniziare dal canone fondamentale della ragionevolezza.

Quando il legislatore lega la sanzione dell’inammissibilità-infondatezza ad un’impugnazione che

«non ha una ragionevole probabilità di essere accolta» (art. 348 bis, comma 1, c.p.c.), il risultato è quello di investire l’interprete di una funzione esagerata ed impropria – quella della costruzione del- la fattispecie – e di porre, al tempo stesso, la regola presentata come processuale su di un terreno che non è quello proprio del diritto processuale civile. Né la categoria in sé, né il utilizzo apparten- gono infatti al repertorio consolidato della procedura civile, e dunque non possono calarsi armonio- samente nel sistema.

Allo stesso modo, quando si attribuisce al comportamento negativo di un terzo – il terzo pignorato ex art. 543 c.p.c. – il valore della ficta confessio ai fini della pronuncia di un provvedimento che proprio contro quel terzo è poi destinato a divenire esecutivo (l’ordinanza di assegnazione), siamo fuori della logica sia del processo di cognizione sia di quello di esecuzione, e pertanto siamo in pre- senza di una norma che è impossibile integrare nel sistema consolidato.

Sullo sfondo, c’è poi un “sistema” che in se stesso fatica a presentarsi come “consolidato”: se ogni riforma del processo comporta una diversità di riti con riferimento a giudizi che poi si troveranno a convivere tutti assieme sul tavolo del giudice, sarà difficile trovare un fondamento di razionalità in ognuno di quei diversi riti. Se il legislatore riconosce l’erroneità di una riforma, per come è stata concepita o per come viene applicata, non ha senso lasciarla in vita per i giudizi pendenti: ciò vale, abbiamo visto, per il malinteso sistema dei quesiti di diritto, che sta continuando a mietere vittime spesso incolpevoli; vale per il meccanismo di sospensione-estinzione, che nella problematica ver- sione originaria, quella del 2006, continua a trovare applicazione in tutte le procedure pendenti alla data del 4 luglio 2009. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Insomma, il diritto processuale civile «non sostenibile» ha già fatto un ingresso prepotente nel no- stro sistema, inquinando la considerazione che della materia hanno i normali destinatari delle norme processuali; il rischio è che si produca una reazione di rigetto indiscriminata, imputando all’intero sistema la perdita di qualsiasi razionalità e utilità.

49 Ci permettiamo di rinviare ancora a La legge processuale civile, cit.

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