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Il Conte di Cavour e Napoleone III a Plombières (21 luglio 1858) 1

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Uniti nella Libertà, Liberi nell’Unità

Il Conte di Cavour e Napoleone III a Plombières (21 luglio 1858)

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Narra il Cavour, che, appena egli fu introdotto nello studiolo dell’imperatore, questi entrò subito nel vivo dell’argomento; dichiarò sé pronto a sostenere con tutte le sue forze il Piemonte in una guerra contro l’Austria, pur- ché si trattasse d’una causa non rivoluzionaria, ma tale da potersi giustificare in faccia alla diplomazia e meglio ancora all’opinione pubblica di Francia e di Eu- ropa. Il ministro piemontese subito si fece a cercare questa causa. Propose: la po- co fedele esecuzione da parte dell’Austria del trattato commerciale.

L’imperatore non la giudicò sufficiente a determinare guerra sì grossa.

L’illegittimo prepotere della potenza austriaca nell’Italia che dovrebbe essere indipendente: i ducati, le Romagne, le Legazioni, le nuove fortificazioni di Pia- cenza. L’imperatore scartò anche questa causa: se n’era già parlato nel Congres- so di Parigi, e come farne ora motivo di guerra quando allora non era stato giu- dicato tale? I due uomini di governo presero a passare in rivista tutti gli Stati d’Italia per vedere da quale o in quale di essi sarebbesi potuto avere il cercato pretesto; e la loro attenzione si fermò sul ducato di Massa e Carrara. La condi- zione miserrima di quegli abitanti sarebbe stata espressa in un ricorso al re su- balpino, dove si invocherebbe la di lui protezione e anche l’unione di quelle ter- re al regno. Vittorio Emanuele non accetterebbe la dedizione offerta, ma pren- dendo a difendere la causa di quei popoli oppressi rivolgerebbe al duca di Mo- dena una nota altiera e minacciosa: il duca, facendo fidanza del soccorso austria- co, risponderebbe di certo arrogante ed oltraggioso; e il re manderebbe senz’altro le sue truppe ad occupare que’ luoghi: la guerra sarebbe senza fallo incominciata. La causa essendone il duca di Modena, poco meno che in uggia ai francesi, all’Inghilterra e all’altra Europa fuori dell’Austria come tipo di tirannel- lo sragionato e impertinente, la guerra riuscirebbe gradita all’universale.

1 Di Vittorio BERSEZIO. Testo tratto dal libro VII del Regno di Vittorio Emanuele II (Torino, 1893). Riportato da Giosuè Carducci alle pp. 430-435 di: Letture del Ri- sorgimento italiano (1759-1870); Bologna, Nicola Zanichelli, 1915. Sono state evita- te le note a piè del testo, per non appesantire la lettura.

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Questo stabilito, l’imperatore, prima di procedere oltre, volle si esaminas- sero due difficoltà rappresentate dal papa e dal re di Napoli: verso costoro egli trovavasi obbligato a certi riguardi: verso il primo, per non sollevare contro di sé i cattolici di Francia; verso il secondo, per conservare all’impresa le simpatie del- la Russia, che si era fatto come debito di onore di proteggere il re Ferdinando.

Cavour rispose: quanto al papa, facilissimo conservarlo nel tranquillo possesso di Roma, mercé il presidio francese che vi soggiornava, pur lasciando poi che le Romagne insorgessero. Il papa non aveva per nulla voluto ascoltare i consigli datigli dall’imperatore: sua colpa se quei paesi giovavansi della favorevole occa- sione di scuotere un giogo detestabile qual era il detestabile governo che la corte papale si era ostinata a non mai riformare. Del re di Napoli poi non occorreva darsi pensiero, a meno che egli non volesse scendere in campo a sostegno dell’Austria; pur lasciando anche colà che i popoli, se ne avevano i mezzi, si sba- razzassero del paterno suo dominio.

Allora si affrontò la grande quistione: quale sarebbe il prefisso, voluto, ri- sulta mento della guerra? L’imperatore ammise di piano che gli austriaci sareb- bero stati scacciati affatto dalla penisola, al di là delle Alpi e dell’Isonzo.

Sull’ordinamento successivo dell’Italia furono di comune accordo determinate le seguenti basi, riservandosi tuttavia di farvi quelle modificazioni che gli eventi avrebbero consigliato. La valle del Po, la Romagna e le Legazioni avrebbero co- stituito il regno dell’alta Italia sotto la direzione di casa Savoia; al papa restereb- be Roma e il territorio che la circonda; il resto degli stati pontifici colla Toscana formerebbe il regno dell’Italia centrale: si lascerebbe come trovavasi costituito il reame di Napoli: questi quattro stati italiani si raccoglierebbero in una confede- razione simile a quella germanica, dandone la presidenza al papa, quasi conten- tino per la perdita della miglior parte de’ suoi dominii. Quanto ai sovrani che sa- rebbero chiamati a regnare a Firenze ad a Napoli, nel caso assai probabile che chi allora reggeva colà sarebbe caduto col cadere del dominio austriaco, la qui- stione fu lasciata sospesa: però l’imperatore lasciò capire che avrebbe visto vo- lentieri Murat salire sul trono che aveva già occupato suo padre, e Cavour insi- nuò che sarebbe forse opportuno mandare a palazzo Pitti la duchessa di Parma.

E a questo punto il francese domandò che cosa ci sarebbe per la Francia, se cioè il re subalpino le avrebbe ceduto la Savoia e la contea di Nizza. Cavour rispose che Vittorio Emanuele, professando nella sua politica il principio della naziona- lità, non poteva esimersi dal consentire alla riunione della Savoia alla Francia, per quanto doloroso gli fosse il rinunziare ad un paese che era la culla della sua stirpe e che aveva da tanti secoli date prove sì insigni di fedeltà e di devozione alla sua casa: ma riguardo a Nizza la cosa era un po’ diversa, poiché quelle po- polazioni, per origine, linguaggio ed abitudini, avevano molto più del piemon- tese che del gallico, e quindi per la cessione di esse non militava, anzi ripugnava, l’allegato principio. L’imperatore tacque un momento, e poi disse quelli essere per lui interessi d’ordine secondario, e che di essi sarebbe venuto più tardi il

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tempo di occuparsi. Circa le vicende e l’esito della guerra, Napoleone contava per cosa sicura la neutralità dell’Inghilterra; sperava nella malevolenza verso l’Austria del principe di Prussia per avere neutrale anche quest’ultima potenza;

dalla Russia diceva averne promessa formale, e più volte ripetuta, che in nulla si sarebbe opposta ai disegni imperiali riguardo l’Italia. La guerra quindi sarebbe stata esclusivamente combattuta fra l’Austria da una parte e Francia e Piemonte alleati dall’altra; ma anche a questi limiti ridotta, la non poteva dirsi né facile né senza pericoli. Bisognava pensare alla forza di resistenza dell’impero austriaco, alla sua tenacia, al vigore del suo ordinamento militare sempre saldo, sempre rinnovante i suoi mezzi anche dopo le maggiori sconfitte, come ne erano prova luminosa le campagne stesse del gran Napoleone: onde era da prevedersi che per costringere l’Austria a rinunziare all’Italia non sarebbero bastate due o tre battaglie vinte nelle valli del Po e del Tagliamento, ma sarebbe stato necessario penetrare nei confini dell’Impero, e a Vienna stessa colla spada sul cuore impor- re all’impero absburghese la pace voluta. Necessario quindi un grande sforzo di armi e d’armati: l’imperatore stimava indispensabile un esercito non minore di trecento mila uomini; duecento mila li avrebbe forniti la Francia; centomila li mettesse in campo, coll’aiuto d’Italia, il Piemonte.

Queste importanti determinazioni furono prese nel primo colloquio, che durò dalle undici antimeridiane fino alle tre ore del pomeriggio. L’imperatore congedò il Cavour, dicendogli di ritornare alle quattro. A quest’ora i due eccelsi personaggi salirono soli in una carrozza, di cui il sovrano di Francia si fece gui- datore; e durante altre tre ore scorsero la campagna in luoghi solitari di valli e foreste nei monti Vogesi. L’imperatore affrontò allora l’argomento del matrimo- nio del principe Napoleone suo cugino colla figliuola del re Vittorio; e domandò nettamente quali fossero a questo riguardo gl’intendimenti del re. Il ministro piemontese cominciò a destreggiarsi: mal sapeva il principe savoiardo quale im- portanza desse veramente l’imperatore a simile disegno: che se in verità ci te- nesse assai, egli, il re, non avrebbe da opporre invincibili difficoltà, ma che frat- tanto poco gli arrideva a mandare a marito così giovanetta di appena sedici an- ni, la figliuola, e che in ogni modo di questa non avrebbe mai voluto violentare la volontà e le inclinazioni. Ma l’imperatore insistette: che quel matrimonio egli lo desiderava proprio dimolto, che stimava, oltre che politicamente opportuno, sarebbe esso stato privatamente felice: il principe suo cugino, che a lui era caro più che un fratello, essere in fondo un eccellente carattere, ricco altrettanto di cuore quanto d’ingegno: avere manifestato un tempo idee un po’ spinte e ca- pricci un po’ cervellotici, ma da qualche anno aver messo assai d’acqua nel suo vino e dato prova di giudizio e di senno, così da avere di sé edificato i migliori spiriti del mondo politico e dell’alta società di Francia: capire che al re non gar- basse maritare così tenera la figliuola, ed egli essere disposto ad aspettare un anno o due se occorresse; ne stabilisse il re medesimo l’epoca; a lui basterebbe la data parola. E separandosi definitivamente la sera i due politici, Napoleone, con

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una stretta di ano al Cavour, disse per ultime parole: – Abbiate fiducia in me, come io la ho in voi! –

Il ministro piemontese, vedendo che Napoleone non faceva del matrimo- nio una condizione sine qua non dell’alleanza non aveva preso a tal riguardo nes- sun impegno; ma scrivendo al re affermava ed insisteva e dimostrava che quella condizione era necessario accettarla. L’alleanza si farebbe forse lo stesso; ma l’imperatore, che aveva lasciato scorgere quanto quel matrimonio gli stesse a cuore, offeso dal rifiuto, avrebbe recato nell’esecuzione dei patti un animo meno ben disposto. Egli era tale che non dimenticava mai né un benefizio né un’ingiuria: bisoganva ricordarsi che aveva del sangue còrso nelle vene, e presso di lui, sempre al fianco ne’ consigli di stato come in quelli di guerra, ci sarebbe sempre un altro che era sotto questo rispetto più còrso di lui, il principe Napole- one, il quale l’onta di quel rifiuto se la sarebbe legata al dito. Unirsi strettamente Piemonte e Francia, casa Savoia ai Napoleonidi, nelle condizioni presenti essere il migliore, l’unico buon partito: o la guerra sarebbe stata felice, e a Vittorio E- manuele assicurata la corona d’Italia, a Napoleone la durata della dinastia in Francia, l’una cosa afforzatrice dell’altra; o sarebbe stata disastrosa, e allora nes- suna più alleanza principesca possibile a Casa Savoia. Non badasse a vane con- siderazioni di certi pregiudizi aristocratici: se il proposto sposo non era di antica regia stirpe, apparteneva a famiglia a cui aveva dato più che regio splendore la gloria del gran Napoleone, era congiunto prossimo del sovrano del più florido e potente impero d’Europa, e d’altronde era figlio egli stesso d’una principessa di sangue reale purissimo dei regnanti del Wurtemberg. Riguardo alla felicità della principessa, questa non era da ricercarsi nel sangue più o meno regio dello spo- so: si rammentasse il re di tutte le principesse di casa Savoia dalla fine del secolo scorso al presente accasate in regi connubi e tutte in felicissime: aversi da aspet- tare quella felicità dai meriti dello sposo; e nel principe Napoleone, guarito or- mai da certi bollori giovanili, trovarsi meriti di cuore: egli così fedele alle amici- zie, generoso mecenate, liberale e magnifico; meriti di ingegno: egli studioso, frequentatore di dotti, non ignaro di nessuna nobile disciplina.

PUBBLICAZIONI VERIFICATE:

«Comunicati dal Libero Maso de I Coi», n. 175, giovedì 11 agosto 2011, con que- ste note iniziale di don Floriano Pellegrini:

« È un documento importante, come si avrà prova schiacciante, leggendolo. Esso mostra, in modo esplicito, come il Cavour e Napoleone III cercassero a tutti i co- sti un pretesto (si usa proprio questa parola, e ripetutamente) per poter dichiarar guerra all’Austria; volevano farla, ormai avevano deciso di farla, ma avevano bi- sogno di una parvenza di legalità di fronte all’opinione pubblica e alla diploma- zia europea.

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« Quanta bassezza, quanta ipocrisia, quanta slealtà nei rapporti con l’Austria, lo- ro partner, e con i popoli d’Italia, le cui sofferenze servivano a pretesto, come e- splicitamente e sfacciatamente si dice, per giustificare in faccia a terzi le proprie mire politiche! E che razza di calcoli, per giungere a ottenere quanto si voleva!

Persino un matrimonio di terzi viene concordato, per motivi politici! Uno dei punti principali del progetto era la costituzione di un regno dell’Alta Italia, sotto la corona di Casa Savoia. Per il resto, lo stesso Cavour – e siamo nel 1858 – non pensava ancora all’unità d’Italia, ma a un’Italia con quattro Stati, esplicitamente nominati, che avrebbero dovuto formare una confederazione, sotto la presiden- za del papa, «quasi contentino per la perdita della miglior parte de’ suoi domi- nii». Due altre considerazioni, emergono con chiarezza:

« 1) La prima è che, se non veniva rispettata la volontà di una ragazza di sedici anni, la sua volontà di scelta per il matrimonio o meno e con chi, tanto più i no- stri mercanti d’uomini e di popoli si saranno ritenuti in diritto di scambiarsi i popo- li; Cavour stesso fa notare a Napoleone III che avevano delle mire di possesso che andavano oltre l’invocato principio di nazionalità e che, in altre parole, me- no diplomatiche, erano nient’altro che delle mire di potere, come se i popoli fos- sero merce che i governanti (i loro governanti!) si scambiano; è vero che Cavour era un buon affarista, ma fino a questo punto? Con questa stessa logica, nel 1859 il regno della Lombardia (esclusa Mantova) passerà dalla corona d’Austria (che ha però l’onestà di riconoscere che segue ancora il principio della sovranità per- sonale dell’imperatore, come dirà l’imperatore Francesco Giuseppe durante i colloqui a Villafranca) a quella dei Savoia (che vogliono far intendere di seguire le idee liberali e il principio della sovranità popolare) e nel 1866 il regno della Venezia (il Veneto, il Friuli cui era stata aggiunta Mantova) al neo-costituito re- gno d’Italia. La volontà dei popoli, tanto proclamata, era ancora violata. E oggi, non è forse ancora così?

« 2) La seconda: in almeno due punti si fa cenno agli spiriti rivoluzionari diffusi tra il popolo e ch’essi in gioventù – dice Napoleone III – avevano contagiato an- che suo cugino, ma poi ne era guarito. Sono considerati spiriti diabolici. Queste affermazioni lasciano molto perplessi e creano un’ombra cupa sia su Napoleone che su Cavour, i quali verbalmente, a volte, dicevano di appoggiare le rivendi- cazioni nazionali, dei popoli; poi, in pratica, le ostacolavano. Un atteggiamento di doppiezza e opportunismo, che il Cavour aveva rivelato già nel 1856, al con- gresso di Parigi. »

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