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PERCORSI NEL LAVORO ATIPICO Un indagine longitudinale nella provincia di Firenze. Rapporto 2009

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PERCORSI NEL LAVORO ATIPICO

Un’indagine longitudinale nella provincia di Firenze

Rapporto 2009

Firenze, Settembre 2009

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RICONOSCIMENTI

Il presente Rapporto è stato realizzato nell’ambito di una convenzione stipulata tra la Provincia di Firenze (Direzione Sviluppo Economico e Programmazione) e l’IRPET al fine di svolgere studi di comune interesse.

La stesura del Rapporto è stata curata da Michele Beudò dell’IRPET, autore anche dell’introduzione. Francesca Ricci ha scritto i capitoli 1 e 2.

L’indagine campionaria illustrata nel Capitolo 2 è stata svolta con metodo C.A.T.I. da Eurema Soc. Cooperativa di Firenze.

L’allestimento del testo è stato curato da Elena Zangheri dell’IRPET.

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Indice

INTRODUZIONE 5

1.

IL MERCATO DEL LAVORO IN PROVINCIA DI FIRENZE 17

1.1 Livelli di partecipazione e disoccupazione: caratteristiche e dinamiche dell’offerta di lavoro 17 1.2 Il genere e l’età come fattori di partecipazione ed esclusione dal mercato del lavoro 18

1.3 Gli interventi della Cassa Integrazione Guadagni 20

1.4 La domanda di lavoro in provincia di Firenze 21

1.5 Gli avviamenti al lavoro 22

2.

FLESSIBILITÀ E CARRIERE OCCUPAZIONALI 25

2.1 Gli obiettivi e il disegno della ricerca 25

2.2 L’identikit socio-anagrafico degli intervistati 26

2.3 La condizione attuale degli intervistati. Chi è dentro e chi è fuori? 29

2.4 Passato, presente, traiettorie e percorsi di lavoro 37

2.5 Aspettative occupazionali e strumenti di empowerment in un orizzonte di crisi 47 2.6 Gli intervistati e il lavoro: grado di soddisfazione, rappresentazione e giudizi di valore 50 2.7 L’impatto della crisi sul lavoro e sulle condizioni di vita 52

BIBLIOGRAFIA 53

Allegato

IL QUESTIONARIO DI INTERVISTA AI LAVORATORI 55

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INTRODUZIONE

• La flessibilità del lavoro: definizioni e inquadramento teorico

In termini molto ampi, per flessibilità del lavoro si deve intendere la possibilità per le imprese di variare il numero di individui occupati e le modalità della prestazione lavorativa, mediante minori vincoli ai licenziamenti, e maggior ricorso a contratti fixed-term, cioè di durata temporanea. Contrariamente a quanto di senso comune, varie forme di flessibilità sono presenti nella normativa italiana già dalla fine degli anni Settanta, tuttavia non vi è dubbio che in particolare dalla L. 196/1997 (il cosiddetto “pacchetto Treu”) si operi una cesura nella regolazione del mercato del lavoro, dopo la quale si comincia a parlare di “mercato duale”, a significare l’esistenza di una parte della forza lavoro cui si applicano tutele e vincoli severi nella possibilità di licenziamento, e un’altra parte, che riguarda prevalentemente le generazioni più giovani, per la quale si parla di “deregolamentazione” dei rapporti di lavoro.

La tematica dell’occupazione a termine, altrimenti detta non standard1, è stata accesamente dibattuta; qui di seguito si riassumono in modo estremamente semplificato solo alcuni punti. La flessibilità, consentendo alle imprese di attuare una certa variabilità della manodopera, permette di seguire le esigenze produttive del momento migliorando in tal modo il rapporto outoput-costi di produzione. Questa ottimizzazione della performance aziendale, risulterebbe un elemento positivo anche per il sistema, dal momento che le imprese sarebbero più competitive e di conseguenza richiederebbero -nelle fasi successive- anche più lavoro. I benefici, per questa via, si estenderebbero dalle imprese al sistema -e quindi anche ai lavoratori stessi.

Contini e Trivellato (2005) tra gli altri, basandosi su un notevole corpus di evidenze empiriche, hanno tuttavia sottolineato che il contributo netto alla crescita dell’occupazione sarebbe nel complesso lieve, sebbene da un punto di vista statistico la disoccupazione ne risulti diminuita. Oltre a ciò, non tutta l’occupazione creata è anche “buona occupazione”; si parla infatti di uno scambio in atto tra “disoccupazione” e “sottoccupazione”. In altre parole, la domanda di lavoro viene ridistribuita tra un numero maggiore di persone, una parte delle quali sono impiegate meno intensamente di quanto potrebbero e, in larga misura, vorrebbero, sia per gli orari ridotti, sia per la presenza di periodi di non impiego2 tra la fine di un contratto e l’inizio di quello seguente.

A questi fattori si aggiunga come elemento particolarmente preoccupante il fatto che il turn- over lavorativo non giova all’accumulazione di competenze e di capitale umano da parte del lavoratore, in particolare se -come in effetti pare accadere per una quota della forza lavoro

“flessibile”- oltre al lavoro si cambia frequentemente anche settore. Da un punto di vista macro, inoltre, anche per le imprese l’eccesso e l’uso indiscriminato di lavoro flessibile finisce per rivelarsi più negativo che positivo, delineando una “via bassa”, basata essenzialmente sulla compressione dei costi del fattore lavoro, alla crescita dell’impresa.

Invece, dalla prospettiva degli effetti della flessibilità sugli individui e sulle carriere, ancora Contini e Trivellato si chiedono in primo luogo se la flessibilità costituisca un passo indietro rispetto all’occupazione a tempo pieno e indeterminato, oppure un passo in avanti rispetto alla

1 Si considerano “standard” le occupazioni regolate con contratti a tempo indeterminato (incluso il part-time) e di tipo autonomo, e

“non standard” quelle con i contratti a termine.

2 Secondo la teoria economica, se diminuisce la domanda di lavoro (misurata solitamente in ore), deve esserci un riequilibrio (verso il basso) nei salari, nel numero dei posti di lavoro (jobs) disponibili, o nel numero di ore pro-capite lavorate. In Italia, che è un paese ad elevata rigidità salariale, eventuali variazioni dell’input di lavoro si scaricano sul lato della quantità, ossia sui posti di lavoro o sulle ore.

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disoccupazione. Si tratta di un interrogativo ripreso in questo rapporto e comunque già affrontato da IRPET con specifica attenzione alla situazione toscana (Giovani, 2005 e 2007), con la formulazione se la flessibilità sia una “trappola” per i percorsi lavorativi dei singoli, irretiti in traiettorie discontinue, spezzettate, composte di “frammenti di lavoro” che durano non solo, come ipotizzano alcuni commentatori, nella prima fase di ingresso sul mercato, ma anche successivamente ed anzi per periodi così lunghi da comprometterne uno sviluppo positivo; o se al contrario sia un “trampolino” che faciliti, dopo alcuni anni di lavori a termine, un esito di stabilità occupazionale.

In linea generale, tra i vantaggi assicurati dallo sperimentare episodi lavorativi di durata predefinita, vi sono: la possibilità di maturare esperienza, di acquisire capitale sociale, di segnalarsi a potenziali datori di lavoro, entrando in contatto diretto con quest’ultimi dall’interno del mercato. Tra gli svantaggi: come si è detto, un eccessivo turn-over e quindi la mancata formazione di un capitale di esperienze coerenti e cumulative, e uscendo dall’ambito strettamente lavorativo, una serie di costi di diversa natura (i “costi umani della flessibilità”) che vanno dall’impossibilità di programmare il proprio orizzonte biografico a causa della mancanza di un reddito certo, alle incertezze nella decisione di formare una nuova famiglia per le stesse ragioni economiche e anche psicologiche.

Ricondotta la questione ai termini delle evidenze empiriche, alcune indagini hanno fornito alcuni elementi di chiarificazione. Ichino, Mealli e Nannicini (2003), studiando l’effetto di episodi di lavoro interinale, hanno evidenziato l’importanza del mercato locale del lavoro come variabile interveniente. Solo in mercati del lavoro “forti”, avere fatto esperienze di lavoro interinale costituisce un valore aggiunto -ferme restando le altre condizioni- ai fini del reperimento in un secondo momento di un impiego a tempo indeterminato: così accade ad esempio in Toscana, stando ai risultati finali della ricerca. Invece, in mercati del lavoro più deboli -come in Sicilia- l’interinale non è di alcun aiuto se non per chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro, nel qual caso il beneficio resta comunque non molto rilevante.

Inoltre, qualsiasi valore aggiunto scompare, sia in Sicilia che in Toscana, se le “missioni” da interinali continuano per molto tempo. Perciò gli autori possono affermare che non è il singolo incarico di lavoro temporaneo in sé e per sé a fare la differenza in un senso o in un altro, ma la carriera: una successione ininterrotta di lavori flessibili o precari che dir si voglia è in assoluto un fattore negativo.

Altre ricerche, alcune delle quali già citate, hanno inoltre evidenziato che, se è vero che la maggior parte dei “flessibili” riesce a ottenere un impiego stabile, una minoranza di questi rimane effettivamente “intrappolata” nella precarietà. Questo gruppo di “permanent movers”, che sarebbe quantitativamente in crescita, aggrega su di sé i lati più negativi del mercato duale, e si connota per precise caratteristiche socio-anagrafiche: genere femminile, bassa istruzione, occupazione in settori de-qualificati, residenza in territori economicamente periferici. E, in taluni casi, anche un’età non più giovane.

In questa indagine, voluta dalla Direzione dello Sviluppo Economico e della Programmazione della Provincia di Firenze, che cofinanzia le attività di ricerca IRPET nell’ambito dell’Osservatorio Regionale sul mercato del lavoro, l’intento è stato quello di riprendere alcuni di questi interrogativi per dare delle risposte anche a scala locale, sia provinciale che sub-provinciale.

La metodologia utilizzata ha previsto, oltre che l’uso di fonti statistiche come la banca dati IDOL della Regione Toscana e le rilevazioni dell’Istat sulle Forze di Lavoro, anche una ricerca empirica di tipo longitudinale, su un campione di 1.600 intervistati avviati al lavoro nel 2005 con diverse tipologie contrattuali, ai quali si è richiesto di raccontare in primo luogo la propria attuale condizione occupazionale in modo da ricostruire ex post, a distanza di 4 anni, le

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probabilità di rimanere occupati, di trovarsi in stato di disoccupazione, di essersi stabilizzati con un contratto a tempo indeterminato, e così via, data la condizione contrattuale di partenza.

Rispetto ai precedenti lavori IRPET, inoltre, la metodologia si è arricchita includendo nel campione un gruppo di controllo (400 individui avviati nel 2005 con contratto a tempo indeterminato), rispetto al quale comparare i “movimenti” degli altri intervistati.

Nella presente introduzione, dopo avere preso in considerazione seppur molto sommariamente alcuni nodi del dibattito disciplinare e dell’opinione pubblica sulla flessibilità del lavoro, riassumiamo i principali risultati. Prima di cominciare ad illustrarli, tuttavia, va fatta un’ultima precisazione: mentre la ricerca era in corso di svolgimento, si è pienamente manifestata, con risvolti anche fortemente preoccupanti, una congiuntura economica particolarmente negativa. Gli effetti sul mercato del lavoro si sono fatti sentire in maniera assai marcata dal 2009, dopo la fine della rilevazione telefonica; non è quindi difficile immaginare che i risultati sarebbero stati diversi (peggiori) se tale rilevazione fosse stata condotta pochi mesi dopo. E’ perciò doveroso cominciare il nostro commento proprio dall’impatto dell’attuale ciclo economico.

• L’impatto della crisi economica sul mercato del lavoro italiano e toscano

Nel corso del 2008, come è noto, si è manifestata una congiuntura economica di particolare negatività; dal sistema finanziario, dove questa si è originata per una serie di concause, la crisi si è in seguito estesa al sistema reale principalmente attraverso due canali di trasmissione: da un lato, tramite il peggioramento delle aspettative degli individui che, accompagnato alla riduzione della ricchezza degli operatori, ha determinato una riduzione dei consumi da parte delle famiglie con conseguenti effetti recessivi, e dall’altro mediante la riduzione del credito, che ha anch’esso indotto una contrazione dei consumi e degli investimenti (Irpet, 2008).

Nel paese, il peggioramento del ciclo è stato avvertito in particolare nel 2009, quando si è avuto, tra gli altri indicatori, un crollo del PIL nel primo trimestre (-6% rispetto allo stesso trimestre dell’anno prima), un deciso calo delle esportazioni, degli investimenti e della produzione industriale. La situazione della Toscana non è troppo diversa da quella nazionale. In particolare le esportazioni, per il secondo anno consecutivo, fanno registrare una forte caduta e più in generale si aggrava il segno negativo di tutti gli indicatori. La stima del PIL per il 2009 è del -4,9%.

Per quanto attiene più strettamente al mercato del lavoro, si è osservato che:

- la reazione da parte delle imprese3 alla recessione, al livello delle strategie aziendali, secondo una recente indagine (Irpet, 2009) è stata quella di: comprimere i margini (così ha proceduto ben il 65% del totale delle imprese interpellate in questa ricerca); razionalizzare i costi di produzione (64%); appunto, ricorrere a riduzioni del personale (26%, percentuale tutt’altro che irrilevante)4;

- nel 2008, sia in Italia che in Toscana si registra contemporaneamente un aumento del tasso di disoccupazione (in Toscana il tasso di disoccupazione -de-stagionalizzato- passa dal 4,3% al 5,1% nei corrispondenti primi trimestri del 2008 e del 2009), e un incremento del tasso di occupazione. Questo risultato apparentemente controintuitivo è spiegabile con: il perdurare degli effetti, già commentati precedentemente, dell’introduzione dei contratti non standard, i quali infatti possono incrementare il numero di occupati anche a parità di domanda di lavoro;

la regolarizzazione degli immigrati, che da diversi anni influenza le statistiche della RCFL

3 Si tenga presente che una parte della diminuzione della domanda di lavoro consegue anche dalla mancata apertura di nuove imprese, che in una diversa congiuntura si sarebbe indubbiamente verificata.

4 Per quanto emerge dai risultati di quest’analisi, non tutte le imprese hanno adottato una strategia meramente “difensiva”; al contrario, sul versante del cambiamento del mix prodotto-mercato, quasi la metà delle aziende hanno deciso di puntare ad un miglioramento qualitativo della propria offerta commerciale o all’implementazione di strategie comunque di ampio respiro.

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dell’Istat; il ricorso crescente alla cassa integrazione negli ultimi mesi, cosa che ha consentito di mantenere come occupati quote significative di forza lavoro, soprattutto del settore industriale; ma anche, infine, con il ritardo con cui la dinamica occupazionale reagisce alla diminuzione del PIL, tanto che le conseguenze della recessione sul mercato del lavoro sono maturate del tutto solo nell’ultima parte dell’anno e quindi i dati annui medi non ne hanno risentito che in parte (IRPET, 2009);

- se l’andamento dei principali indicatori strutturali del mercato del lavoro mostra un netto arresto dell’espansione occupazionale nella seconda parte del 2008, sia in Italia che in Toscana, già nel primo trimestre del 2009 si delinea un ulteriore peggioramento, a partire dal netto aumento della disoccupazione rilevato nel I trimestre dell’anno. Stavolta, inoltre, si ferma anche l’occupazione; diminuiscono le comunicazioni di assunzione ed è netta la negatività del saldo avviamenti/cessazioni al lavoro, in particolare nel caso dei contratti a tempo indeterminato ma anche per i contratti a termine; rallenta la natalità di impresa e cresce la mortalità; si fa pesante il dato relativo alla Cassa Integrazione. Nel dettaglio, in base alla rilevazione Istat in Italia il tasso di occupazione scende di nove decimi di punto rispetto al primo trimestre 2008, portandosi al 57,4%, per effetto soprattutto del calo della componente maschile nelle piccole imprese (inclusi i lavoratori autonomi), nell’occupazione a termine e nella riduzione dei collaboratori a progetto. L’andamento di questo tasso, a differenza di quanto accadeva nel 2008, prende ora lo stesso segno (negativo) del tasso di disoccupazione, che a propria volta passa dal 7,1% del primo trimestre 2008 all’attuale 7,9%.

Il tasso di disoccupazione giovanile varia anch’esso in negativo di ben il –5,0% (dato de- stagionalizzato);

- la situazione toscana merita uno specifico approfondimento: nella nostra Regione la differenza tra il primo trimestre del 2008 e quello del 2009 è di -0,7% per il tasso di occupazione, e di +0,8% per il tasso di disoccupazione, che dunque raggiunge il valore di 6,2%. L’industria, le costruzioni, l’artigianato e -nei servizi- in particolare il commercio, sono i settori più colpiti5. La stima della caduta complessiva dell’occupazione è di circa 8mila Unità di Lavoro per il 2008, di ben 45mila per l’anno corrente, periodo in cui la crisi raggiunge l’apice, e di 10mila nel 2010. Nel triennio considerato, si raggiunge in tal modo la quota di oltre 60mila unità, di cui oltre la metà nel settore industriale. Si noti anche che ad una Unità di Lavoro, misura convenzionale utilizzata nelle statistiche, può corrispondere più di una persona occupata con orario ridotto.

La crisi non è un evento che riguarda esclusivamente i giovani, né va confusa con l’insieme dei problemi posti dalla flessibilità del lavoro. Nondimeno, questa porta all’estremo alcune problematiche collegate al lavoro temporaneo.

In primo luogo, i giovani -vale a dire il gruppo che è prevalentemente interessato dal lavoro flessibile- sono la categoria sulla quale da sempre si scaricano le conseguenze della variabilità in negativo del ciclo economico. Si tratta di licenziamenti individuali e collettivi, di perdite di posti di lavoro che seguono alla chiusura di molte imprese in diversi settori e con differenti dimensioni aziendali, di accresciute difficoltà all’ingresso nel mercato del lavoro dopo la fine degli studi, dell’allungarsi dei tempi di rientro dopo un periodo di in occupazione e, infine, del mancato rinnovo di una parte dei contratti a termine che, in condizioni normali, probabilmente avrebbero continuato a esistere o addirittura sarebbero stati convertiti in impieghi stabili6. In

5 In generale, quello che emerge da questa breve analisi è, da una parte, la difficoltà dell’industria a mantenere una dinamica della produttività forte e, dall’altra, l’attenuazione del processo virtuoso di terziarizzazione del sistema. Il settore dei servizi, nello specifico, cessa di rappresentare un elemento di innovazione all’interno del sistema (Irpet, 2009b)

6 Una recente stima a cura della Regione Toscana (2008) conteggiava in oltre 230mila i contratti a termine in scadenza a Dicembre dello stesso anno. Tuttavia, per una corretta lettura di questo dato è necessario sottolineare che: i) una parte -difficilmente

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quest’ultimo caso, si parla di mancate stabilizzazioni dovute alla recessione.

Una quantificazione più precisa dell’impatto della crisi appare ardua; ma ciò che va evidenziato è che questa congiuntura condiziona pesantemente l’andamento del mercato del lavoro, e in tal modo modifica anche l’interpretazione del lavoro non standard, aumentando il rischio che questo sia sempre più “trappola” e sempre meno “trampolino”.

In secondo luogo, le giovani generazioni sono anche tra coloro che non beneficiano -nonostante il varo di alcune recenti misure- delle prestazioni di protezione sociale. A carriere di tipo discontinuo e penalizzate economicamente si aggiunge così l’incertezza di beneficiare di sussidi di sostegno.

• La situazione nella Provincia di Firenze

Come già riferito in precedenza, una delle ragion d’essere di questa indagine è costituita dall’obiettivo di approfondire il fenomeno della flessibilità del lavoro nell’ambito territoriale della provincia del capoluogo fiorentino, e anche nelle sue sub-aree.

Ma quali sono le caratteristiche di questo tessuto economico e come si presenta il mercato locale del lavoro -variabile, quest’ultima, che come detto condiziona notevolmente l’interpretazione da dare alla flessibilità del lavoro?

Ancora alla vigilia dell’emergere del ciclo negativo, l’economia fiorentina faceva registrare un andamento migliore della media regionale, un risultato che è largamente attribuibile al favorevole mix produttivo dell’area7.

Anche dal punto di vista del mercato del lavoro, come si vedrà dal Capitolo 1, la provincia fiorentina detiene indicatori consistentemente superiori alla media regionale: il tasso di occupazione presenta un andamento migliore, così come accade per il tasso di disoccupazione.

E si può affermare che l’ottimo andamento degli anni precedenti costituisca un beneficio per l’oggi, determinando una situazione che se pure è messa a repentaglio dall’evoluzione della crisi, via via più profonda nel corso del 2009, beneficia ugualmente delle buone performance degli anni precedenti e perciò, finora, non presenta aspetti di marcata gravità. Ciò detto, anche a Firenze questo primo scorcio dell’anno ha fatto rilevare indicatori con segno molto negativo -ma all’interno di un sistema territoriale che nel complesso risulta ancora “tenere”.

Dal punto di vista territoriale, i Sistemi Economici Locali definibili come “good performers”

(Firenze, Chianti fiorentino, Mugello e Val di Sieve) si sono basati anche in questo caso su una vantaggiosa diversificazione delle attività economiche e, nel dettaglio, sul binomio industrie dinamiche/turismo di qualità. Sono invece riconosciute come aree “low performers” i Sel del Valdarno Nord e della Bassa Val d’Elsa. L’Empolese si colloca in posizione intermedia.

La nostra indagine non ha potuto spingersi a questi livelli di dettaglio, ma ha comunque proceduto distinguendo tre parti del territorio provinciale: l’area metropolitana fiorentina (Firenze e comuni di prima cintura), l’Empolese Valdelsa (con i confini delimitati amministrativamente dal Circondario), e infine il resto della provincia.

proroga”. Essi dovrebbero perciò essere esclusi dall’occupazione a rischio in conseguenza della crisi. In proposito, si potrà semmai parlare di una futura, prevedibile contrazione dei posti di lavoro attivati di natura stagionale; ii) le elaborazioni presentate escludono l’area del lavoro autonomo e di quello dipendente a tempo indeterminato (standard); tuttavia è evidente che una variazione congiunturale negativa si registrerà anche nella forma dei licenziamenti collettivi e individuali, e in particolare nella perdita di posti di lavoro connessa alla chiusura delle imprese (oltre che alla mancata nascita di nuove aziende). In questa nota si sta perciò prendendo in considerazione solo uno dei segmenti del mercato del lavoro interessato dalla crisi; iii) la maggior parte degli oltre 230mila contratti in scadenza potrà, ovviamente, essere comunque prorogata; il punto di interesse è in che misura ciò avverrà dato l’impatto negativo della crisi.

7 In particolare conta la più alta specializzazione, all’interno del terziario, nei trasporti e nel credito e, all’interno dell’industria, nella chimica, farmaceutica e nelle produzioni della meccanica (IRPET, 2008b), cui si deve aggiungere il peso, rilevante, della Pubblica Amministrazione.

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• I principali risultati dell’indagine

Il contributo originale della ricerca che presentiamo è dato dallo svolgimento di un’indagine telefonica campionaria. Sono state realizzate 1.600 interviste a individui che erano stati avviat al lavoro nel corso del 2005 e di cui quindi possiamo ora verificare, a distanza di 4 anni, gli esiti occupazionali. In particolare, il campione -stratificato per genere e territorio di residenza- era suddiviso in quattro gruppi: coloro che nel 2005 avevano avuto un’assunzione con un contratto a tempo determinato (di qualsiasi durata); con un contratto di apprendistato; con una collaborazione coordinata e continuativa; infine, con un contratto a tempo indeterminato (gruppo di controllo). Questa suddivisione ha permesso di confrontare quello che è il “normale”

corso di una carriera con alle spalle un contratto standard, con quei percorsi che invece sono cominciati nel segno della “flessibilità”8.

Oltre alle probabilità di “stabilizzazione”, di disoccupazione, inattività -e ovviamente di permanenza nello stato di occupato/a, l’indagine in questione si è posta anche altri obiettivi conoscitivi. Il questionario, ampio e dettagliato, ha previsto domande su: il rapporto degli intervistati con il mondo del lavoro, in termini di condizioni attuali e prospettive future;

specifici approfondimenti su alcuni aspetti legati alle particolari modalità contrattuali come nel caso degli apprendisti9, dei collaboratori a progetto e dei lavoratori a termine; l’esplorazione dell’impatto prodotto dalla crisi sulla condizione lavorativa degli intervistati e delle loro famiglie.

Rimandando il commento dei risultati di quest’ultime sezioni del questionario al Capitolo 2, sintetizzeremo adesso i principali risultati ottenuti.

Il 74% del totale degli avviati nel 2005 è occupato al momento dell’intervista, nonostante la mobilità lavorativa risulti abbastanza significativa (soltanto il 30% degli intervistati, infatti, continua a lavorare nella stessa azienda), mentre il 20% è disoccupato e circa il 5% inattivo (si tratta di intervistati che si sono dichiarati studenti, casalinghe, pensionati).

Un dato che va subito sottolineato è che, coerentemente con quanto ipotizzato in questa stessa introduzione, la probabilità di essere attualmente in stato di disoccupazione è positivamente correlato con l’essere giovani, donne e con modalità contrattuali di avviamento

“flessibili”. Circa quest’ultimo punto, ciò che sembra maggiormente interessante è quale delle tre tipologie non standard esaminate garantisca la più elevata probabilità di occupazione -nonché quale sia la “distanza relativa” rispetto agli avviati nel 2005 con tempo indeterminato.

In tal senso i risultati evidenziano che è attualmente disoccupato il 25% degli avviati a tempo determinato, il 22% degli apprendisti, il 17% dei collaboratori a progetto e il 14% degli avviati a tempo indeterminato (caratterizzati da un’età media più avanzata). Ad un primo sguardo, perciò, la forma contrattuale dell’apprendistato, di cui diremo diffusamente, e la categoria degli avviati con contratti a termine determinato, in parte associata a lavori più de-qualificati e comunque comprendente anche i lavoratori interinali, sono le due tipologie che meno danno protezione dal rischio di perdita dell’occupazione. Il miglior risultato ottenuto dai collaboratori è una conseguenza del maggior grado di istruzione media presente in questo gruppo, e con il fatto che si rileva una sorta di “continuità nella precarietà”, per esempio nel settore pubblico.

Per quanto riguarda, invece, la forbice, tutto sommato contenuta, tra probabilità di disoccupazione essendo avviati con contratti flessibili nel 2005 piuttosto che con contratti standard, una possibile spiegazione è che né la Toscana nè la provincia di Firenze in particolare fanno registrare, in assoluto, un numero elevato di disoccupati (salvo gli effetti della recente

8 Si veda il Capitolo 2 per una più dettagliata illustrazione della metodologia.

9 Nella scelta degli apprendisti si è tenuto conto delle modifiche intervenute nella normativa sull’apprendistato. Gli intervistati sono stati scelti in larghissima parte tra chi ha un contratto di “apprendistato professionalizzante”, caratterizzato da una durata medio-

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crisi) quanto semmai di persone in stato di sottoccupazione -anzi, questo scambio disoccupazione/sottoccupazione è probabilmente una caratteristica strutturale del mercato del lavoro dell’ultimo quinquennio10.

Il vero dato di interesse diviene a questo punto la percentuale di coloro che hanno potuto stabilizzarsi, uscendo dall’ambito del lavoro flessibile che inizialmente -come già verificato in altre indagini (Giovani, 2007)- può essere anche ricercato dal soggetto perché dà modo di svolgere un’occupazione coerente con le proprie aspettative e i propri studi, ma che nel lungo periodo è nettamente rifiutato.

Gli intervistati che hanno oggi un lavoro a tempo indeterminato sono la maggioranza: il 57%. Ma, come si ricorderà, in questo dato è compresa la quota di coloro che erano stati avviati con un contratto standard nel 2005, pari al 25% del campione. Il 38%, per contro, è occupato in maniera ‘flessibile’: in particolare, il 20% ha un lavoro a termine; l’11% ha un contratto di apprendistato o formazione lavoro; il 6% lavora con un contratto di collaborazione. Infine, in pochissimi si sono spostati verso l’area del lavoro autonomo: le diverse tipologie (dagli imprenditori agli artigiani; dai liberi professionisti ai commercianti) non superano il 5% del totale degli occupati.

Questi risultati dimostrano l’esistenza di una minoranza di persone (tra gli occupati) che hanno compiuto la transizione tra contratti “non standard” a “standard”, benché si tratti -appunto- di una minoranza.

Tra coloro che sono stati avviati al lavoro con un contratto flessibile, ad essersi stabilizzati (come a dipendente a tempo indeterminato o, ben più raramente, come lavoratore autonomo) sono il 37%, mentre il 34%, invece, risulta ancora occupato in maniera flessibile al momento dell’intervista e i restanti si dividono tra inattivi e disoccupati. Si tratta, come si può vedere, di un “tasso di successo” delle carriere, peraltro coerente con i risultati di precedenti indagini, che resta tutt’altro che elevato.

Più nel dettaglio, hanno avuto un contratto a tempo indeterminato il 63% degli occupati a tempo determinato, il 48% dei collaboratori a progetto e il 46% degli apprendisti (di cui però una parte ha ancora attivo il percorso di apprendistato). E’ possibile notare che nel caso del contratto a termine, sembra davvero essere presente, come affermato da Contini e Trivellato (2005), una polarizzazione tra un gruppo che comunque riesce nella stabilizzazione (la percentuale è la più alta tra i “flessibili”), e un altro gruppo che invece rimane ai margini del mercato del lavoro (è più alta anche la percentuale di disoccupati, nonché di inattivi). Per le altre due tipologie contrattuali, vale quanto già affermato: “continuità occupazionale nella precarietà”

per i collaboratori, debolezza di fondo della “formula apprendistato”, con molti abbandoni, mentre tra chi termina il percorso si rileva nuovamente una polarizzazione tra “stabilizzati” e

“disoccupati, entrambi con percentuali superiori alla media del campione.

Gli esiti delle carriere lavorative sono variamente condizionati da caratteristiche “ascrittive”, come il genere, l’età, e anche il territorio di residenza, e altre di tipo “acquisitivo”, come il titolo di studio, il settore della propria professione, e così via.

I risultati salienti che possiamo evidenziare con una semplice analisi bivariata sono i seguenti:

- in tutti gli ambiti della condizione lavorativa (la retribuzione, la durata del contratto a termine, la percentuale di stabilizzazione o il rischio di disoccupazione), le donne risultano essere svantaggiate rispetto agli uomini. La questione di genere si pone dunque fortemente;

- le differenze riconducibili alle specificità locali (area metropolitana fiorentina, Empolese, resto della provincia) sono minime nel caso degli avviati con contratto standard, mentre

10 D’altro canto, che 1 su 4 (circa) di avviati nel 2005 con contratto a termine o apprendistato sia oggi disoccupato/a, è un risultato che desta effettivamente delle preoccupazioni.

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nell’area del lavoro non standard la probabilità di rimanere flessibile risulta più elevata nell’aggregato territoriale “resto della provincia” che non nell’area metropolitana e nel Circondario Empolese-Valdelsa. Inoltre, un certo vantaggio comparato si può registrare per i residenti dell’area metropolitana. In generale, comunque, l’area di residenza non sembra essere un fattore discriminante nelle carriere personali, almeno all’interno della provincia di Firenze.

Per evidenziare altri elementi e cogliere l’effetto netto di ciascun fattore, abbiamo effettuato un’analisi statistica multivariata.

Definiamo innanzitutto un individuo-tipo che si connota per alcune caratteristiche (scelte dal ricercatore): ha un’età inferiore ai 40 anni, è residente nell'area “resto della provincia", ha come titolo di studio il diploma, è occupato nel settore servizi di mercato, e infine è stato avviato nel 2005 con contratto a termine. Questo individuo-tipo, che dunque assumiamo come benchmark, ha una probabilità nel 2009 di essere occupato a tempo indeterminato, del 44%; di essere ancora nella condizione di lavoratore flessibile, del 27%; di essere disoccupato, del 25%; e di essere inattivo, del 4%.

Facendo riferimento alle sole variabili statisticamente significative, la multivariata ci aiuta a osservare che:

- la probabilità di essere stabilizzato nel 2009 è influenzata negativamente -rispetto all’avere avuto un contratto a termine nel 2005- dall’essere stato avviato, piuttosto, con un contratto di collaborazione, ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’individuo-tipo. Nel dettaglio, la probabilità di avere un contratto a tempo indeterminato diminuisce del -10%. E lo stesso accade per l’apprendistato. Al contrario, se già si disponeva di una posizione stabile, le probabilità aumentano del +27% (rispetto all’individuo tipo che, lo ricordiamo, era stato definito come una persona con un contratto nel 2005 a termine). Coerentemente, avere avuto nel 2005 un contratto di collaborazione o un contratto di apprendistato avvicina invece alla possibilità di essere nel 2009 occupati con contratti flessibili (più che nel caso del contratto a termine), e ancora rispetto alla situazione di contratto a termine sembrano in certa misura proteggere dalla possibilità di essere disoccupati;

- per quanto attiene al titolo di studio, notiamo che il possedere la sola scuola dell’obbligo non giova alle probabilità di essere occupati stabilmente nel 2009, e neanche alla probabilità di essere occupati come flessibili. Questo elemento, perciò, è correlato negativamente rispetto all’occupabilità di una persona; ne è riprova il fatto che, al contrario, aumentano sia le probabilità di essere disoccupato (+8% l’effetto marginale) che di essere inattivo. Invece, il titolo di studio può paradossalmente favorire, se elevato, una permanenza negli impieghi

“flessibili”, ma nel lungo periodo risulta pagante sia per la stabilità che per l’occupabilità, e in ogni caso è garanzia di continuità occupazionale;

- quanto invece alla probabilità di trovarsi nello stato di lavoratore flessibile, il fattore età (avere più di 40 anni) determina un effetto marginale negativo di -5%. Questo risultato può apparire ovvio, ma bisogna ricordare a tal proposito che una delle problematiche emergenti in tema di flessibilità del lavoro è il protrarsi di questa anche in età adulta, tanto che Reyneri (2005) individua in questo profilo uno dei gruppi maggiormente esposti al rischio di povertà, insieme alle coppie con entrambi i componenti “precari”;

- sulla probabilità di essere disoccupato incide favorevolmente, come già accennato, l’avere una laurea (-8,5% l’effetto marginale rispetto all’individuo-tipo) e negativamente il possesso della sola scuola dell’obbligo (+8%), mentre in particolare l’essere impiegato nel settore dei

“servizi non di mercato” sembra allentare il rischio di trovarsi senza lavoro (-6%).

Ma che tipo di percorsi sono quelli che caratterizzano gli intervistati nel campione? Abbiamo cercato in particolare di distinguere: 1) le carriere tipiche e sicure, vale a dire carriere condotte

(13)

-dal 2005 al 2009- attraverso tipologie contrattuali prevalentemente standard; 2) carriere di successo, che a partire da lavori non standard, lavoro irregolare, stagionale, e così via, siano giunte ad una condizione di stabilità occupazionale e contrattuale; 3) carriere non di successo, che cioè presentano una situazione per cui il lavoratore si trova inizialmente e durante la sua carriera in impieghi standard, ma al momento dell’intervista è disoccupato o ha contratti non standard; 4) carriere nelle precarietà, ossia percorsi di soggetti che non hanno ancora raggiunto la stabilità (chi ha avuto solo impieghi atipici o precari, carriere dentro e fuori la disoccupazione o prevalentemente irregolari).

Ebbene, solo poco più di un terzo dei lavoratori flessibili nel 2005 hanno poi avuto una carriera che possa essere definita di “successo”, mentre nel totale del campione le carriere “nella precarietà” risultano essere circa la metà -il loro esito è cioè ancora oggi incerto. Interessante anche il dato relativo alle carriere di chi nel 2005 aveva una posizione stabile: in tre quarti dei casi, si è poi trattato di una carriera “tipica e sicura”, ma nel restante quarto del totale i percorsi sono stati segnati dall’insuccesso, ossia dalla disoccupazione o dalla perdita del posto di lavoro fisso11.

Nell’analisi svolta sin qui ci siamo concentrati sulle condizione all’avviamento e al momento dell’intervista (4 anni dopo). Ma cosa è successo durante quel periodo? L’esperienza della disoccupazione, per quanto momentanea, non tocca solo i lavoratori flessibili. Se nel complesso è il 46% degli intervistati a dichiarare di aver avuto periodi di disoccupazione, per gli avviati con modalità di lavoro flessibile la percentuale corrispondente sale al 51% (nel qual caso, per metà la causa è il mancato rinnovo del contratto), ma è coinvolto anche quasi un terzo (31%) degli avviati a tempo indeterminato. Se inoltre non ci sono differenze fra uomini e donne nella probabilità di incappare in periodi di disoccupazione, le donne sono però più penalizzate nella durata.

L’immagine che si ricava dall’insieme di queste risposte è quella di un mercato del lavoro estremamente mobile (più che “dinamico”), attraversato da traiettorie occupazionali all’insegna della flessibilità, dall’esito incerto, in cui sono coinvolti non solo coloro che hanno avuto esperienze passate di contratti non-standard, ma anche lavoratori con un impiego stabile.

• L’apprendistato

Come si è già fatto notare, il questionario utilizzato non conteneva solo domande sulle carriere e gli esiti occupazionali. Per ciascun gruppo di avviati, infatti, sono state poste delle domande specifiche. Adesso andiamo ad esaminare quelle relative a chi è stato avviato con un contratto di apprendistato.

Innanzitutto, solo il 39% di coloro che nel 2005, in provincia di Firenze, avevano intrapreso un percorso di apprendistato, lo ha portato a termine, mentre il 45% -percentuale assai rilevante- ha abbandonato il percorso di apprendistato, e il 16% lo ha ancora in corso.

Quali le cause che hanno indotto gli apprendisti ad interrompere il loro rapporto di lavoro? Il 43% ha smesso di lavorare (per motivi personali, studio, ecc.), e il 39% ha trovato un altro lavoro (“più stabile, soddisfacente, meglio retribuito, più consono alle aspettative/studi”).

Tra chi ha concluso, a sei mesi dalla conclusione dell’esperienza di apprendistato, il 77%

risulta occupato (e il 18% si dichiara, per contro, disoccupato). Fra gli occupati, il 58% ha un lavoro stabile, per circa l’80% nella stessa azienda in cui è stato apprendista. Il 17%, invece, è occupato, ma ancora con una forma contrattuale flessibile12. In linea generale, quindi, i risultati

11 Alcuni accorgimenti metodologici hanno consentito di escludere da questa stima i casi di chi, pur avendo perso un contratto a tempo indeterminato, ha egualmente avuto una carriera di segno ascendente, ad esempio trasformandosi in professionista, consulente, lavoratore autonomo, imprenditore, ecc.

12 I flussi verso il lavoro autonomo, infine, sono decisamente contenuti (2,6% a sei mesi dalla conclusione dell’esperienza dell’apprendistato).

(14)

alla fine del percorso sembrano incoraggianti -tuttavia, il nodo reale è proprio l’elevato numero di quanti hanno abbandonato.

Nell’esperienza degli intervistati, l’apprendistato è risultato utile nella ricerca di un lavoro? Il 60% risponde in maniera affermativa alla domanda, seppure con intensità e gradazione diversa:

il 25% lo ritiene molto utile, il 34% abbastanza utile. Non è da sottovalutare, tuttavia, un’area piuttosto consistente che giudica l’esperienza maturata poco (20%) o per niente (17%) utile ai fini della ricerca di un lavoro. Coerente con questi ultimi dati, non del tutto soddisfacenti, è anche la valutazione che gli intervistati fanno dell’apprendistato. Le posizioni rilevate dall’indagine sono eterogenee, ma denotano alcuni dubbi sul percorso intrapreso. Se infatti il 33% lo considera ‘un giusto periodo di tempo in cui si deve imparare il mestiere’ (cui si può associare il 10% di chi lo ritiene “un modo utile per entrare nel mercato del lavoro”), per il 31%, si tratta di “un modo per il datore di lavoro di risparmiare” e il 24% lo considera “un periodo troppo lungo di transizione verso un lavoro vero”.

Un punto di particolare interesse per la programmazione delle politiche del lavoro, infine, è quello della formazione. A tal proposito, risulta che il 70% degli apprendisti ha effettivamente effettuato le ore di formazione previste dal contratto. Di questi, il 43% ha fatto formazione esterna, e la maggioranza (64%) formazione interna. Coloro che non hanno effettuato le ore di formazione prevista, ne imputano la causa principalmente all’azienda (81%).

L’apprendistato è una delle forme di impiego che si fanno solitamente rientrare nelle cosiddette “work experiences”. Questo istituto, come i precedenti tentativi del sistema di regolazione di dare vita a contratti che legassero strettamente esperienza lavorativa e formazione (si veda il caso dei Contratti di Formazione e Lavoro tra gli altri), sembra necessitare di un attento monitoraggio, nella qualità dei percorsi -considerata anche la durata, non breve, di questi- e quindi nella capacità di assicurare esiti soddisfacenti alla conclusione.

In particolare, i contenuti formativi sono talvolta non adeguati (o, seppure in una minoranza di casi, del tutto assenti); inoltre in taluni settori non pare giustificata l’idea dell’apprendimento, per un minimo di almeno quattro anni nel contratto di apprendistato professionalizzante, ora peraltro in via di riformulazione, in mansioni che forse non richiedono tale impegno.

La questione è indubbiamente molto complessa, ma è chiaro che i numeri dei risultati occupazionali, in special modo considerando l’elevato tasso di abbandono, non possono essere considerati soddisfacenti.. In questo senso i risultati dall’indagine sono tra i più chiari tra quelli ottenuti.

• Il ruolo della formazione e dei Servizi Pubblici per l’Impiego

L’apprendistato non esaurisce, ovviamente, le occasioni formative offerte dal mercato del lavoro, siano queste svolte on the job oppure con corsi di formazione extra-impresa. Stando alle elaborazioni in nostro possesso, dalla formazione professionale dipendono almeno in una certa misura, le possibilità di futuro lavorativo degli intervistati. In altre parole, la probabilità di continuare a lavorare, la possibilità di stabilizzarsi o di migliorare la propria condizione lavorativa dipendono oltre che dalle condizioni esterne -e, in ultima analisi, dallo stato di salute del mercato del lavoro- anche dalla capacità di attivare alcuni strumenti di empowerment, la cui funzione è quella di incrementare l’occupabilità e la qualità delle condizioni di lavoro.

L’indagine ha esplorato anche questo ambito dell’esperienza lavorativa, rilevando che soltanto un quarto degli intervistati ha frequentato negli ultimi tre anni uno o più corsi.

Tuttavia, all’interno di questo gruppo numericamente minoritario, nella maggior parte dei casi (il 70%) i corsi hanno rilasciato un attestato di frequenza, e in più nel 37% hanno avuto come esito il conseguimento di una qualifica professionale.

(15)

La partecipazione ai corsi di formazione è più frequente fra le donne (28%) che fra gli uomini (22%). A dispetto dell’idea e dell’importanza del “life-long learning”, inoltre, l’indagine mette a fuoco che la partecipazione ai corsi di formazione è elevata fra i giovani, ma diminuisce al crescere dell’età, denotando fra gli adulti una scarsa attivazione dello strumento formativo.

La partecipazione ai corsi di formazione, infine, si conferma strettamente legata al livello di istruzione, a conferma del fatto che “più si è formati e più ci si forma”.

Quale l’efficacia della formazione professionale nell’esperienza degli intervistati? Le indicazioni che emergono sono piuttosto chiare: la formazione è utile a migliorare la propria condizione lavorativa, ma non per uscire dalla disoccupazione o dalla precarietà, che è in effetti una esatta definizione del concetto di “occupabilità”.

Per il 62% degli intervistati, la formazione è stata in effetti molto/abbastanza utile a migliorare la propria condizione lavorativa, ma le percentuali, come emerge dal grafico, si riducono significativamente se consideriamo coloro che ritengono la formazione utile per trovare un’occupazione stabile (33%) e per uscire dalla disoccupazione (28%).

Ci soffermiamo, per concludere, sulle strategie e sui canali di ricerca di lavoro attivati dagli intervistati. Anche all’interno del nostro campione, la modalità più diffusa per la ricerca di lavoro si conferma il meccanismo del “passaparola”. Il 55% degli intervistati, infatti, si è rivolto ad amici, parenti e conoscenti; il 42% si è rivolto direttamente a datori di lavoro potenziali, inviando il proprio curriculum. Meno frequente risulta il ricorso ai canali “formali”. Poco più di un terzo degli intervistati (il 36%) si è rivolto ai Centri per l’impiego; il 19% ha utilizzato internet; il 18% si è rivolto ad agenzie di lavoro private e interinali.

• La crisi economica nelle risposte degli intervistati

Abbiamo in precedenza evocato la crisi economica come ulteriore variabile che complica il tema della flessibilità del lavoro. Anche in questo caso il questionario aveva comunque previsto una serie di quesiti; si chiedeva ad esempio quali erano le previsioni degli intervistati per la propria condizione lavorativa nell’anno prossimo, ma anche se questi credevano che vi sarebbero state delle difficoltà economiche per sé e la propria famiglia.

Dalle risposte ottenute, in effetti, il 71% degli intervistati ritiene che la propria famiglia risentirà dell’attuale crisi economica (molto il 24%; abbastanza il 47%). Si noti anche che le maggiori preoccupazioni sono espresse da coloro che sono in affitto o hanno almeno un reddito con contratto “non standard” all’interno del nucleo familiare. Si conferma perciò, ancora una volta, la “solitudine” delle fasce più deboli della popolazione di fronte a una congiuntura negativa, in un paese che ancora non dispone di un moderno sistema di welfare abitativo o del mercato del lavoro, di tipo universalistico.

L’osservazione che, in chiusura, viene sollecitata da quest’ultimo risultato della rilevazione (come più in generale, dalle statistiche sul lavoro prodotte correntemente da diversi istituti di ricerca), è la seguente. La flessibilità del lavoro, abbiamo detto, è un fenomeno la cui evoluzione viene a dipendere dallo stato del mercato del lavoro: quando questo presenta un andamento non positivo gli aspetti maggiormente critici di questo tipo di contratti si esasperano.

E con maggiore forza riportano al centro del dibattito la necessità di adeguare il sistema di welfare ad un mercato del lavoro che per una sua parte crescente è assai distante da quello del passato.

(16)
(17)

1.

IL MERCATO DEL LAVORO IN PROVINCIA DI FIRENZE

1.1

Livelli di partecipazione e disoccupazione: caratteristiche e dinamiche dell’offerta di lavoro

La prima parte dell’analisi è dedicata a ricostruire, attraverso le informazioni desumibili dalle fonti statistiche ufficiali, la situazione del mercato del lavoro in provincia di Firenze, focalizzando l’attenzione sulle caratteristiche e sulle dinamiche della domanda e dell’offerta espresse dal territorio.

Benché, come noto, le informazioni di livello provinciale e subprovinciale siano disponibili con un certo ritardo temporale (i dati più recenti fanno riferimento al 2008), l’analisi mette in luce i primi segnali di crisi anche sul territorio fiorentino.

Le difficoltà sembrano interessare, almeno in questa fase, i segmenti più deboli dell’offerta, in particolare i giovani e le donne, mentre dal punto di vista territoriale le statistiche prodotte dal Sistema Informativo Lavoro della Regione Toscana -le uniche che permettono di scendere nel dettaglio sub provinciale- evidenziano per il Circondario Empolese Valdelsa una situazione di maggiore criticità rispetto al dato provinciale complessivo.

Con riferimento al dato provinciale, nel 2008 il tasso di occupazione per la popolazione fra i 15 e i 64 anni in provincia di Firenze si attesta al 69,0%. La consistenza dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, dunque, risulta ancora una volta superiore al valore regionale (pari al 65,4%), confermando una tendenza consolidata nel corso degli ultimi anni.

Nella graduatoria delle province toscane Firenze si colloca al primo posto, con il tasso di occupazione più elevato, seguita da Siena (67,5%) e Arezzo (66,8%).

Tabella 1.1

TASSI DI OCCUPAZIONE (15-64 ANNI) NELLE PROVINCE TOSCANE DAL 2003 AL 2008

2003 2004 2005 2006 2007 2008

Massa Carrara 52,3 56,6 56,1 60,2 60,0 58,2

Lucca 57,6 63,5 61,9 64,4 62,0 61,5

Pistoia 62,9 63,6 66,4 65,4 65,0 63,4

Firenze 64,6 65,5 66,5 67,7 67,6 69,0

Livorno 55,5 58,8 57,6 59,9 58,8 61,2

Pisa 64,3 61,7 64,5 63,9 64,8 66,5

Arezzo 64,4 64,7 63,3 65,5 66,5 66,8

Siena 69,0 66,9 66,6 65,5 67,3 87,5

Grosseto 59,5 60,7 61,8 64,7 65,4 66,3

Prato 66,7 63,6 65,7 63,8 64,2 64,2

TOSCANA 62,3 63,2 63,7 64,8 64,8 65,8

Fonte: ISTAT, Indagine Forze di Lavoro13

I dati Istat evidenziano una lieve crescita nel 2008 rispetto al 2007: +1,4% nella provincia di Firenze. Il fenomeno caratterizza non solo il capoluogo regionale, ma anche altre province della Toscana come Pisa, Livorno e Grosseto. Al contrario, in altre province come Massa Carrara e Pistoia la variazione annuale è negativa.

Gli incrementi del tasso di occupazione, specificatamente per Firenze e la Toscana, come già

13 L’Indagine Istat sulle Forze di Lavoro rappresenta la principale fonte informativa sulle caratteristiche e sulle dinamiche evolutive del mercato del lavoro. I risultati della rilevazione, svolta presso un campione rappresentativo di famiglie, sono diffusi nel dettaglio provinciale con cadenza annuale sotto forma di media.

(18)

detto nell’introduzione possono risultare controintuitivi in una congiuntura critica come l’attuale. Vi sono più spiegazioni possibili: il ruolo assunto nelle statistiche dagli immigrati regolarizzati, il ritardo del ciclo del mercato del lavoro rispetto a quello dell’economia finanziaria dove la crisi ha avuto origine, e molte altre. Del resto, i primi dati del 2009 evidenziano più chiaramente l’arresto della crescita occupazionale.

Ad ogni modo, la negatività della situazione del mercato del lavoro è evidente, anche nel 2008, dalla ripresa del fenomeno della disoccupazione, che per la prima volta dopo molti anni torna a crescere.

Vero è che Firenze ha sempre presentato un tasso di disoccupazione sistematicamente più contenuto del dato regionale: nel 2008, ad esempio, il valore provinciale di quest’indice si attesta al 4,4%, collocando Firenze al terzultimo posto nella graduatoria delle province toscane.

Il valore più contenuto si registra in provincia di Siena, che si posiziona all’ultimo posto della classifica regionale con un tasso pari al 4,0%.

Grafico 1.2

TASSI DI DISOCCUPAZIONE IN PROVINCIA DI FIRENZE E IN TOSCANA DAL 2003 AL 2008

3,0 3,5 4,0 4,5 5,0 5,5

2003 2004 2005 2006 2007 2008

Firenze TOSCANA Fonte: elaborazioni Irpet su Dati Istat RCFL

Seppure si registri un lieve aumento del tasso di disoccupazione, la situazione del mercato locale del lavoro in provincia di Firenze nel corso del 2008 si presenta nel complesso positiva.

Ad un tasso di occupazione elevato si accompagna un tasso di disoccupazione ancora contenuto.

Si può affermare che l’ottimo andamento degli anni precedenti determini un beneficio anche per l’oggi: una situazione che tuttavia sarà messa a repentaglio con l’evoluzione della crisi, via via più profonda nel corso del 2009. Anche a Firenze, dunque, questo primo scorcio dell’anno fa rilevare indicatori con segno negativo.

1.2

Il genere e l’età come fattori di partecipazione ed esclusione dal mercato del lavoro

Il quadro delineato nasconde al suo interno alcuni elementi di fragilità, del resto già noti, che potrebbero ulteriormente acuirsi. Le difficoltà congiunturali, infatti, sembrano insistere sugli elementi più deboli del sistema. In particolare sui giovani e sulle donne che -come si evince dall’analisi dei dati Istat- rappresentano gli elementi più esposti al rischio all’interno di un

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sistema territoriale che nel complesso risulta ancora “tenere”.

Cominciamo con il segmento femminile. Nel corso degli ultimi anni in provincia di Firenze, così come nel resto della regione, la presenza femminile sul mercato del lavoro si è rafforzata: il tasso di attività passa dal 62,5% del 2007 al 65,2% del 2008. In parte, questo aumento dell’offerta di lavoro femminile si traduce in disoccupazione -stante la domanda di lavoro in calo- ma è comunque il segnale che le famiglie decidono strategie di partecipazione al mercato del lavoro anche per i membri in precedenza inattivi, allo scopo di incrementare il reddito complessivo del nucleo in un periodo di difficoltà per chi è già occupato.

Il tasso di occupazione femminile è invece passato dal 55,4% del 2003 al 61,4% del 2008, con un incremento di circa sei punti percentuali nell’arco di soli cinque anni.

Tuttavia, come appare evidente dal grafico, il gap fra il tasso di occupazione maschile e femminile si è mantenuto decisamente consistente. Nel 2008 le donne fiorentine sono ancora in svantaggio di oltre 15 punti percentuali rispetto alla componente maschile. E anche il tasso di disoccupazione femminile sale, nel 2008, di 0,5 punti percentuali (dal 5,3% al 5,8%), dato destinato a crescere ancora nel 2009.

Grafico 1.3

TASSI DI OCCUPAZIONE PER GENERE IN PROVINCIA DI FIRENZE DAL 2003 AL 2008

53 59 65 71 77

2003 2004 2005 2006 2007 2008

Maschi Femmine

Fonte: elaborazioni Irpet su Dati Istat RCFL

A causa del fatto che la crisi ha colpito più duramente il comparto manifatturiero, le donne non sono il gruppo sociale che più risente della negatività del ciclo. Sottolineare del loro svantaggio relativo è però utile a ricordare il persistere dello squilibrio occupazionale tra uomini e donne.

Invece, sono da sempre i giovani a fare le spese di eventuali criticità dell’andamento dell’economia -in particolare nel nostro paese dove le tutele occupazionali sono rivolte prevalentemente alle generazioni oggi adulte o in età avanzata.

Al momento in cui si scrive, la disaggregazione per classi di età risulta disponibile a livello provinciale solo per alcuni dati. In particolare, il trend del tasso di occupazione dei giovani (25- 34 anni) e dei giovanissimi (15-24 anni) presenta nell’ultimo quinquennio un andamento oscillante e più incerto rispetto a quello degli altri gruppi di età, evidenziando appunto una maggiore esposizione alle fluttuazioni del ciclo economico.

Il valore del tasso di occupazione per la coorte 15-24 anni si attesta al 28,3%, e quello di

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disoccupazione al 9,2% (molto più elevato della media complessiva14). Mentre il primo dato è peggiore di quello dell’anno precedente15, il secondo va migliorando: questo trend deve essere interpretato, in tutta probabilità, come ”effetto scoraggiamento”, che porta a differire la ricerca di un’occupazione proseguendo gli studi, viste le poche opportunità offerte dal mercato del lavoro attualmente.

Ma la condizione giovanile sarà approfondita meglio e con maggiore disponibilità di dati nei paragrafi che seguono, guardando non solo alla condizione occupazionale e all’impatto della crisi, ma anche alle “carriere” nella flessibilità.

Tabella 1.4

TASSI DI OCCUPAZIONE E DI DISOCCUPAZIONE PER CLASSI DI ETÀ IN PROVINCIA DI FIRENZE DAL 2003 AL 2008

2003 2004 2005 2006 2007 2008

Tassi di occupazione

15-24 anni 34,9 28,8 28,9 32,5 30,3 28,3

25-34 anni 76,2 82,8 77,6 79,5 78,8 81,8

35-44 anni 86,7 85,9 87,8 88,1 86,5 85,5

45-54 anni 77,4 78,3 83,6 82,9 83,4 84,3

55-64 anni 35,0 36,8 36,8 36,0 39,0 17,7

Tassi di disoccupazione

15-24 anni 11,9 18,5 15,1 9,0 12,0 9,2

25-34 anni 5,3 5,2 5,9 7,4 4,3 -

35-44 anni 3,4 3,6 3,0 2,7 3,3 -

45-54 anni 2,0 3,8 3,2 3,1 1,7 -

55-64 anni 0,9 2,1 3,4 4,8 1,9 -

Fonte: ISTAT, Indagine RCFL

1.3

Gli interventi della Cassa Integrazione Guadagni

Dopo un periodo di forte flessione delle ore di Cassa Integrazione erogate sul territorio provinciale, a partire dal 2009 il dato corrispondente conosce un’impennata di notevole entità;

alla fine del primo trimestre 2009, la variazione complessiva di CIGO e CIGS è del +139% in Toscana e +88% a Firenze. Come si vede dalla tabella, questo risultato è la sintesi della crescita della CIGO (mentre la CIGS addirittura scende); a tal proposito, si ricorda che la CIGS interviene in casi di crisi non congiunturale.

Gli interventi di sostegno si sono concentrati verso il settore tessile-abbigliamento ma anche in molti altri comparti (per esempio la meccanica), e nell’edilizia.

Pur non essendo un indicatore che permetta di leggere trasversalmente quando accade sul mercato del lavoro, la Cassa Integrazione è una fonte più aggiornata di altre, e insieme ai dati amministrativi forniti dai Centri per l’Impiego consente di seguire tempestivamente l’evoluzione della crisi.

14 Sia per il tasso di disoccupazione che per il tasso di disoccupazione di lunga durata l’Italia si caratterizza per un rilevante peso della disoccupazione “da inserimento”, che riguarda cioè la ricerca del primo impiego.

(21)

Tabella 1.5

ORE AUTORIZZATE DI CASSA INTEGRAZIONE ORDINARIA E STRAORDINARIA PER PROVINCIA. TOSCANA I trimestre 2009. Valori assoluti e variazioni %

I trimestre 2009 Variazioni % 2009/2008

CIGO CIGS CIGO+CIGS CIGO CIGS CIGO+CIGS

Arezzo 224.032 613.600 837.632 151 435 310

Firenze 538.278 172.687 710.965 177 -6 88

Grosseto 209.239 184 209.423 282 -99,5 124

Livorno 1.460.798 63.564 1.524.362 3608 -88 164

Lucca 171.534 45.638 217.172 101 212 117

Massa Carrara 149.249 183.264 332.513 40 146 84

Pisa 376.616 4.341 380.957 53 -42 50

Pistoia 79.918 34.369 114.287 176 173 175

Prato 92.625 157.434 250.059 2 56 31

Siena 348.500 87.372 435.872 529 299 464

TOSCANA 3.650.789 1.362.443 5.013.232 268 23 139

Fonte: IRPET-Regione Toscana

1.4

La domanda di lavoro in provincia di Firenze

Secondo i dati rilevati dall’Indagine Excelsior16, alla fine del 2007 il 25,8% degli imprenditori fiorentini ha dichiarato di avere intenzione di assumere nuovo personale. La percentuale di imprenditori intenzionati ad assumere risulta inferiore di due punti percentuali rispetto al dato regionale (pari al 27,8%).

Dei circa 17 mila ingressi previsti nelle imprese fiorentine nel corso del 2008, la maggior parte dovrebbe avvenire -stando alle dichiarazioni degli imprenditori- con forme contrattuali

“flessibili”. Come appare evidente dal grafico, infatti, soltanto poco più di un terzo (il 35,7%) dei nuovi ingressi avrà la forma del contratto a tempo indeterminato. Negli altri casi, invece, si ricorrerà a modalità di inserimento non standard: tempo determinato (54,2%); contratti di apprendistato (7,7%); altre tipologie contrattuali (2,3%).

Grafico 1.6

ENTRATE PREVISTE DAGLI IMPRENDITORI FIORENTINI NEL 2008 PER TIPOLOGIA CONTRATTUALE

Apprendisti 7,7%

Tempo determinato 54,2%

Altre tipologie contrattuali

2,3% Tempo indeterminato 35,7%

16 L’Indagine Excelsior -realizzata a cadenza annuale su un campione rappresentativo di imprese- ha l’obiettivo di quantificare ed indagare le caratteristiche della domanda di lavoro espressa dal tessuto produttivo provinciale. L’indagine permette di analizzare da un lato le caratteristiche delle imprese che intendono assumere nuovo personale (in termini di dimensioni, localizzazione geografica e settore di attività economica) e dall’altro di esplorare i principali requisiti delle risorse umane in termini di livello di istruzione, formazione, esperienza ed età.

(22)

Anche nel 2008, come in passato, la domanda di lavoro delle imprese fiorentine si polarizza verso risorse umane in possesso del diploma di scuola media superiore (il 45,5% del totale) e della sola scuola dell’obbligo (il 31,4%). La richiesta di persone in possesso di un diploma di laurea interessa invece soltanto l’11,6% del totale delle assunzioni previste.

Vi è, in ogni modo, una certa correlazione fra il livello di istruzione e la modalità contrattuale di inserimento sul mercato. Nel caso delle assunzioni a tempo indeterminato, ad esempio, la richiesta di laureati sale al 16,1%. In maniera del tutto speculare, la percentuale di coloro che possiedono soltanto la scuola del’obbligo rappresenta il 38,2% nel caso degli inserimenti flessibili.

Tabella 1.7

ASSUNZIONI PREVISTE PER LIVELLO DI ISTRUZIONE E TIPOLOGIA CONTRATTUALE IN PROVINCIA DI FIRENZE. 2008

Tempo indeterminato Altre Tipologie TOTALE

Titolo universitario 16,1 9,2 11,6

Diploma superiore (5 anni) 46,1 45,2 45,5

Istruzione professionale e tecnica (3-4 anni) 3,9 5,4 4,9

Qualifica professionale regionale 5,1 7,5 6,6

Nessun titolo (scuola dell'obbligo) 28,7 32,8 31,4

TOTALE 100,0 100,0 100,0

Fonte: Sistema Informativo Excelsior

1.5

Gli avviamenti al lavoro

Le caratteristiche e le dinamiche della domanda di lavoro in provincia di Firenze possono essere indagate anche attraverso i dati raccolti ed elaborati dal Sistema Informativo dell’Amministrazione Provinciale che, diversamente dall’Indagine Excelsior, conteggiano gli avviamenti al lavoro registrati dai Servizi per l’Impiego e, dunque, le assunzioni effettivamente avvenute17.

In un contesto regionale in cui si avvertono in maniera palpabile le difficoltà del mercato del lavoro -gli avviamenti conteggiati in Toscana nel corso del 2008 sono 15mila in meno rispetto al 2007, per una flessione percentuale su base annua di oltre due punti percentuali- la provincia di Firenze non mostra, in apparenza, segnali di crisi. I dati del Sistema Informativo Lavoro dell’Amministrazione, infatti, rilevano fra il 2007 e il 2008 un incremento dell’8,6% a cui corrispondono, in termini assoluti, oltre 18 mila avviamenti in più.

Tabella 1.8

FLUSSO DI COMUNICAZIONI DI AVVIAMENTI PER GENERE E CPI. 2007 E 2008

2007 2008

CPI Maschi Femmine TOTALE Maschi Femmine TOTALE

Firenze 49.833 57.634 107.467 64.502 72.716 137.218

Borgo San Lorenzo 5.309 4.775 10.084 4.229 4.222 8.451

Figline Valdarno 4.471 4.052 8.523 3.830 3.576 7.406

Pontassieve 2.974 2.889 5.863 2.684 2.367 5.051

San Casciano 8.595 6.066 14.661 7.260 5.146 12.406

Scandicci 7.252 6.862 14.114 6.627 6.439 13.066

Sesto Fiorentino 12.777 12.254 25.031 12.054 12.047 24.101

Empolese Valdelsa 15.418 15.888 31.306 13.960 14.148 28.108

TOTALE 106.629 110.420 217.049 115.146 120.661 235.807

Fonte: Sistema Informativo Amministrazione Provinciale

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