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Capitolo II Procedimento e competenze

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Academic year: 2021

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Capitolo II

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2.1 Premessa

L’attuale procedimento per ottenere la concessione dell’affidamento è il frutto di continue riforme avvenute nel tempo, tra cui si colloca anche la riforma del codice di rito (c.p.p.) del 1989.

Esso coinvolge diversi attori e soggetti, ognuno con ruoli e funzioni diverse.

All’origine si faceva riferimento al codice di rito, dato che prima del 1975 non vi era alcuna riforma penitenziaria alla quale far riferimento per la disciplina del procedimento. Solo con la l. n. 354/75 si è avuto una regolamentazione per stabilire anche le competenze dei giudici. Solo che in competizione vi era anche il codice di procedura penale che dettava regole proprie e diverse. Così si creò, fino al 1989, una discrasia fra regolamentazione penitenziaria e codice di rito.

Per il detenuto, egli non è l’unico soggetto che è legittimato a presentare l’istanza. Ad esso si è affiancato, come figura principale, il condannato in stato di libertà.

Per il ruolo del magistrato di sorveglianza, invece, si è assistito ad un progressivo svuotamento del suo ruolo originario, consistente nell’essere “garante dei diritti dei detenuti”, a favore di un maggior ampliamento dei poteri decisionali.

Il Tribunale, quale organo giurisdizionale a decidere in via definitiva sull’istanza, ha perso parte del suo ruolo originario.

Gli intenti originari del legislatore erano quelli di rendere la procedura meno gravosa possibile per il condannato (scopo raggiunto solo a seguito delle riforme) ed istituire una forma di collegamento fra autorità giudicante e detenuto. Questo secondo intento, però, è stato disatteso dalla riforma del 1998 e ha creato dei problemi interpretatici dati dal fatto che si era proceduto a riformare il codice di rito nel 1989. Infatti, nell’art. 656 c.p.p. vi sono dei criteri per l’individuazione del magistrato di sorveglianza leggermente diversi da quelli stabiliti nell’art. 47 co. 4 O.P.

2.2 Procedimento di cui all’art. 47 O.P.

Il procedimento per la concessione della misura di cui all’art. 47 co 4 O.P. è lineare.

Si prevedono due modalità di concessione: una disciplinata al co. 2 e l’altra ai commi 3 e 4. La l. n. 10/2014 ha introdotto una variazione, lessicale e procedurale, che consente di porre fine alla lunga discussione se il magistrato possa o meno applicare provvisoriamente la misura.

Esso prende inizio quando la condanna è già stata eseguita ed il condannato è stato tradotto in istituto carcerario( co. 2). Dopo che egli ha trascorso anche solo un mese in tale stato, potrà avanzare l’istanza al magistrato di sorveglianza, secondo i criteri di competenza che sono identici a quelli di cui all’art. 677 c.p.p.

Prima che il magistrato decida sulla provvisoria sospensione dell’esecuzione e sulla correlativa messa in libertà del detenuto, questi ha l’onere di allegare una documentazione che sia sintomatica dell’esistenza dei presupposti per l’affidamento, sussista anche il pregiudizio relativo alla protrazione dello stato detentivo e non vi sia il pericolo di fuga. Infatti, la lettera della legge parla << quando sono offerte concrete indicazioni …>>

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C’è chi avanza a questo proposito delle questioni, correlate, di non poco conto. Infatti ci si domanda cosa succeda quando il condannato avanzi un’istanza “nuda”, cioè priva delle indicazioni indispensabili a provocare il provvedimento sospensivo.

Sicuramente sono da menzionare gli elementi non autonomamente deducibili da parte dell’organo giudicante ex officio.

Poi bisogna indicare le generalità del soggetto, la condanna subita, l’autorità giudicante a cui ci si rivolge.

Qualcuno prospetta la tesi che sia sufficiente che il soggetto indichi, fra le altre cose, un luogo dove svolgere l’attività lavorativa.(97

) Mentre altri avanzano la tesi che in presenza di un’istanza priva di tali indicazioni minime essa debba esser dichiarata inammissibile.(98

) C’è da sottolineare il fatto che, al di là di un’istanza nuda o corredata della relativa documentazione, al magistrato di sorveglianza gli si imponga un dovere di verificare, anche d’ufficio, se tale documentazione è allegabile(99

). Più precisamente, la riforma del 1998 è stata pensata per dare la possibilità a coloro che non sono in condizioni economiche vantaggiose di giovarsi di un procedimento che non sia per loro oneroso, come lo sarebbe se si imponesse di produrre la documentazione da allegare. E così si carica un soggetto, magistrato di sorveglianza, di un dovere che, in compenso, risulta meno gravoso.

Dunque, affinché il condannato possa esser ammesso all’affidamento, l’istanza dovrà contenere:

- (sussistenza dei) presupposti dell’affidamento,

- (sussistenza del) grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo, - assenza del pericolo di fuga.

Per quanto riguarda il primo requisito, si deve concordare con la tesi che ritiene ammissibile l’istanza presentata quando la residua sia inferiore a 4 (a seguito della riforma del 2014) anni di reclusione, che sia pena singola o congiunta, seguente a cumulo formale o meno poco importa.

Ancora. Per coloro che hanno commesso un reato di cui all’art. 4-bis, si deve notare che i requisiti son più stringenti, dovendo suddetti soggetti fornire al magistrato sia la sussistenza della collaborazione effettiva con gli organi di giustizia (art. 58-ter), sia la cessazione o l’assenza concreta di collegamenti con l’organizzazione di appartenenza (criminalità organizzata, eversiva o terroristica).

Una volta che l’istanza è inoltrata al magistrato di sorveglianza competente (<<in relazione

al luogo di esecuzione>>), questi dovrà valutare se sussistono i presupposti effettivi per

l’ammissione.

Nulla quaestio se il detenuto ha avanzato l’istanza con relativa documentazione, a seguito di espiazione di pena che porti la residua al di sotto di legge e fornisca gli elementi per l’applicazione.

Ma cosa succede se tale ipotesi non si materializza? La lettera della legge è chiara a tal proposito nell’ultima parte del periodo: intanto riprende l’esecuzione della pena, con correlativa traduzione in carcere del condannato eventualmente posto in libertà. Ma il dato

(97) Della Casa, ibidem, p. 804; Maisto, Guida dir. 99 f. 23, p. 42;

(98) Macorra, in Esecuzione pernale e alternative alla detenzione 1999, 104

(99) Bernasconi, in Esecuzione penale e alternative alla detenzione 1999, p. 157; Della Casa, ibidem, p.

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Più significativo lo troviamo quando espressamente prevede che <<non può essere

accordata altra sospensione, quale che sia l’istanza successivamente proposta>>.

Tale ultima preclusione (anche se drastica) è stata dettata dall’esigenza di evitare un fenomeno alquanto curioso: si presentavano casi in cui i condannati avanzavano, non una, bensì più istanze al solo fine di vedersi sospesa l’esecuzione. Così da poter trascorrere il relativo periodo in libertà.

L’intento di tale preclusione era quello di evitare il reiterarsi di istanze strumentali. (100

) A tal proposito, però, si son levati dei dubbi in relazione anche a diverse situazioni di fatto. Si pensi a quei soggetti che, non possedendo i requisiti (la pena è superiore al limite di legge; non menzionano un luogo in cui svolgere l’attività lavorativa; non sussiste il pregiudizio ed altro) avanzino la relativa istanza, vedendosela respinta ma che, in un momento successivo, maturino i requisiti di legge (hanno espiato una parte di pena; sussiste il pregiudizio) e vogliano avanzarla ancora una volta. Sicuramente diversa è, invece, la situazione di coloro che presentano lo stesso background nelle relative istanze avanzate. Così, altri hanno prospettato che la soluzione migliore all’interpretazione dell’art. è di riferire l’esclusione solo alla seconda ipotesi, consentendo a chi venga a possedere i requisiti di legge in un momento successivo la facoltà di avanzare la relativa istanza.(101) La ragione di un simile ridimensionamento della portata preclusiva del co. 4 art. 47 O.P. sta in una serie di considerazioni, che hanno un collegamento stretto con la tesi or ora prospettata.

Primo. La rigidità della preclusione è, di per sé, difficilmente conciliabile con i principi del trattamento rieducativo dell’affidamento e con l’elasticità del giudicato, che è sottoposto, nel procedimento di sorveglianza, alla clausola del “rebus sic stantibus” di cui all’art. 666 co. 2 c.p.p. In quest’ottica, la possibilità di pervenire ad una rapida decisione (anche interinale) da parte del magistrato viene compromessa in ipotesi di reale necessità.(102)

Secondo. Si possono avanzare dubbi anche sul versante del principio di ragionevolezza. Infatti, la preclusione opera nel caso in cui il condannato, successivamente alla sospensione dell’istanza disposta dal magistrato, non sia stata accolta, mentre l’effetto preclusivo non si realizza quando, concesso l’affidamento in prova da parte del Tribunale, la misura sia stata in seguito revocata.(103)

Per il secondo punto (grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo), non si deve pensare al fatto che la detenzione possa arrecare un grave o irreparabile pregiudizio al detenuto,(104) essendo integrato, invece, quando fra il momento di presentazione dell’istanza ed i tempi per decidere intercorra un lasso abbastanza lungo da poter pregiudicare la possibilità di ammettere il soggetto all’affidamento e costringerlo ad espiare la pena nella forma ordinaria.(105)

Ancora. C’è chi prospetta la tesi che al fine di integrare il grave pregiudizio si debbano tenere in conto sia situazioni direttamente attinenti alla vicenda del condannato (es.,

(100) Bernasconi, u. op. cit. 1999, p. 162; Presutti, ivi, p. 46

(101) Macorra, u. op. cit. p. 85

(102) Della Casa, ibidem, p. 802

(103) Della Casa, ibidem fa presente che sono situazioni analoghe dal momento che, sia in caso di istanza

non accolta sia in caso di revoca a seguito di concessione, la situazione del condannato è la stessa: viene sottoposto ad espiare la pena nei modi ordinari

(104) Della Casa, ibidem

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disponibilità di un’offerta lavorativa ecc), sia situazioni valutabili con riferimento alla sfera psicologica di altri soggetti (es., impossibilità di provvedere a se stessi a seguito di chiusura dell’istituto in cui era ospitato)(106). Per il requisito dell’assenza del pericolo di

fuga, è da intendersi, almeno con riguardo al tema penitenziario, con riferimento al rischio di volontaria sottrazione dall’esecuzione della pena.(107)

Tenuto conto di questo, ci si domanda su quali basi bisogna dedurre che ci sia un pericolo attuale di fuga. Così si prospettano due tesi.

Per alcuni ci si dovrebbe basare sui precedenti penali del soggetto e del suo comportamento serbato nel periodo in cui sono stati sottoposti a qualche misura alternativa. Solo che tale teoria porta con sé un pericolo di non poco conto: ci si basa su precedenti penali di soggetti che devono esser stati dichiarati “recidivi” ai sensi della legge. E per coloro che magari non hanno subito altri procedimenti penali e non sono stati mai dichiarati recidivi, cosa succede? E’ evidente che tale teoria non regge il confronto con la realtà. Infatti, si penalizzerebbero soggetti che non sono portatori di alcuna pericolosità. La tesi opposta prende in considerazione il tipo di reato commesso, nel senso che, più grave è il reato commesso (esempio: omicidio preterintenzionale), più probabilità di fuga ci saranno da parte del soggetto. Ma anche questa tesi non regge il confronto né con i dettati legislativi (la gravità del reato non è sintomo del pericolo di fuga), né con quelli costituzionali (si annullerebbe l’intento rieducativo della pena sulla base solo di presupposti erronei e non concreti).

Tenuto conto tutto ciò, se il magistrato di sorveglianza valuta che sussistono le condizioni per l’ammissione, allora opera la sospensione dell’esecuzione della pena ed il detenuto dovrà essere posto in libertà. Egli manterrà in tale stato fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, che dovrà decidere entro 45 giorni.

Prima della riforma del 1998, la previsione di cui al co. 2 dell’art. 47 O.P. era la forma di affidamento privilegiata dal legislatore, poiché presupponeva l’assaggio di pena, condizione a cui il legislatore non voleva rinunciare facendo leva sul principio della certezza e su quello dell’ effettività della pena; principi indefettibili dell’ordinamento. Con le riforme successive ha assunto, invece, un ruolo marginale.

Presupposto indefettibile era la <<previa osservazione in istituto per almeno 1 (a seguito della riforma del 1986) mese in istituto>>.

Anche se la lettera della norma fa espresso riferimento al fatto che la misura può esser disposta <<ove si ritenga che la sua concessione, anche attraverso le prescrizioni di cui al co. 5, contribuisca alla rieducazione del condannato ed assicuri la prevenzione del

pericolo che egli commetta altri reati>>, il punto di riferimento è posto non tanto sul fatto

che la misura possa costituire una modalità di rieducazione del condannato grazie alle regole di condotta da imporgli, ma piuttosto sul fatto dell’applicazione della misura. In altri termini, la misura viene concessa perché sottrae il condannato al carcere, evitando così la sua portata desocializzante.

Non si dimentichi che, considerando la previsione che dispone l’intervento del servizio

(106) Della Casa, ibidem; Bernasconi, ibidem, p. 157

(107) Bernasconi, u. op. cit., p. 139 fa notare che la riforma del 1998 è sintomatica di un modus

operandi sganciato da qualsivoglia visione sistematica della materia, più propensi a cercare di

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sociale, il condannato, che versi in situazioni di emarginazione o disadattamento sociale, potrà reinserirsi nella società grazie ala “mediazione” di questo soggetto. Infatti questi dovrà cercare di rimuovere le difficoltà connesse all’intento risocializzativo. Ci si pose un problema. Cosa poter fare per quei soggetti che non sono economicamente abietti ma non vogliono far ingresso in carcere?

Con la riforma del 1998 si riscrisse il co. 4 e si pensò di far accedere, indiscriminatamente, tutti i soggetti che avessero problemi economici e non potessero permettersi una difesa efficace. Solo che, come era nell’intento originario del legislatore, costoro avevano bisogno del sostegno del servizio sociale, al fine di un reinserimento nella società. Mentre la riscrittura dell’art. 47 comma 4 ha avuto il merito di esser pensato principalmente ai fini di deflazione carceraria. Con evidente sovvertimento dello scopo dell’affidamento.

Col co. 4 dell’art. 47 si è previsto un meccanismo di sospensione “automatico”, nel senso che in presenza delle condizioni ivi previste, al magistrato di sorveglianza si impone la sospensione dell’esecuzione della pena con contestuale messa in libertà del condannato-detenuto.

Con la riforma del 2014, si è consentito al magistrato di provvedere alla provvisoria applicazione della misura, ponendo fine ad una lunga discussione in merito. Infatti si era acceso un forte dibattito sul fatto che la norma prevedeva, nella riforma del 1998, la sospensione, anche se provvisoria, dell’esecuzione ma non la contestuale applicazione della misura, e ci si è chiesti quale fosse la ragione per inibire al magistrato di sorveglianza la sua applicazione.(108)

Il comma 3, invece, prevede la procedura per l’istanza presentata dallo stato di libertà del condannato, quindi senza osservazione della personalità. Introdotto con la riforma del 1998 con l’intento di dare un’opportunità di ottenere l’affidamento a soggetti con difficoltà economiche, risultò, invece, la forma prevalente e quella più applicata da parte dell’organo giudicante.

Le condizioni per cui si possa concedere l’affidamento a chi è in stato di libertà al momento del passaggio in giudicato della sentenza sono essenzialmente 2: comportamento serbato dal condannato dopo la commissione del reato e prognosi, del comportamento serbato, di cui al comma 2, cioè ai fini della rieducabilità.

Sempre in tema di concessione dell’affidamento, l’art. 47 co. 4, a seguito di un interpolazione assolutamente radicale operata dalla l. n. 165/98, delinea un'unica via di accesso alla misura. Infatti, a fronte di un dato letterale inequivoco, la procedura de qua è riferibile sia alla situazione di cui al co. 3 (affidamento <<senza osservazione>>) sia alla situazione di cui al co. 2 (affidamento <<con osservazione>>).(109)

Qualcuno afferma, invece, che bisogna effettuare una distinzione fra le due ipotesi, limitando l’operatività del co. 4 dell’art. 47 esclusivamente all’ipotesi di affidamento senza osservazione di cui al co. 3. Quindi la relativa istanza dovrà essere presentata al magistrato di sorveglianza. Mentre per l’ipotesi di cui al co. 2 l’istanza dovrà esser presentata direttamente al Tribunale di Sorveglianza.(110)

Altri, invece, sul presupposto che sarebbe contrario al sistema attribuire un potere più

(108) Bernasconi, ibidem, p. 139; Della Casa, ibidem, p. 801; Presutti, ibidem, p. 47

(108) Macorra, ibidem, p. 109

(109) Canevelli, in Riv. it. Dir. Proc. pen. 98, p. 818

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ampio al magistrato di sorveglianza rispetto al PM e che la norma di cui al co. 4 è mira a salvaguardare situazioni comunque meritevoli di tutela, restringe l’area applicativa dell’art. 47 co. 4 affermando che la stessa procedura è riservata a condannati che per qualsiasi ragione, non si siano avvalsi della procedura di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p.(111) Pertanto ne sarebbero esclusi i detenuti che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovino sottoposti a custodia cautelare in carcere sia perché chiamati ad espiare una pena detentiva superiore al limite di legge.

Ci si domanda se l’innovazione introdotta dalla riforma del ’98 sia pertinente alle due forme di affidamento.

Qualcuno, a tal proposito, avanza seri dubbi e perplessità. Infatti, il congegno sospensivo di cui al co. 4, se è congeniale all’ipotesi di affidamento senza osservazione in istituto, appare, invece, del tutto incongruo all’ipotesi di affidamento con osservazione. Infatti, quest’ultima forma di affidamento si prospetta quale trattamento alternativo “necessariamente propedeutico” al conseguimento della libertà del condannato. Invece, per effetto della procedura de qua (co. 4) si realizza un intento del tutto diverso, e cioè, una paradossale applicazione differita della misura ad un periodo di libertà piena e non assistita che precede e quasi prepara la concessione dell’affidamento.(112

)

A tal proposito, era stata chiamata a pronunciarsi la Corte Cost. al fine di dichiarare, riguardo il fatto che l’art. 47 co. 4 O.P., nella parte in cui non prevede la provvisoria applicazione della misura al condannato detenuto, violava gli art. 3, 25 co 2, 27 co. 3, 101 e 1112 Cost., l’illegittimità costituzionale. La Corte si espresse ritenendo manifestamente infondata la questione affermando che se il legislatore ha previsto in tal modo, lo ha fatto su basi esclusivamente di opportunità politica (o criminale), quindi su basi di cui non si può sindacare la scelta operata.(113)

La procedura di cui al co. 4 prevede che, se il condannato è detenuto, la relativa istanza sia presentata al magistrato di sorveglianza (competente in relazione al luogo di esecuzione, cioè sul locus custodiae). Tale previsione serve a salvaguardare quel raccordo (tra autorità giudicante e condannato) funzionale al reperimento di dati utili all’applicazione di un alternativa.

Gli atti dovranno poi essere trasmessi immediatamente al Tribunale di Sorveglianza che dovrà pronunciarsi nel termine (meramente ordinatorio) di 45 giorni dalla loro ricezione.

La riforma del 1986 aveva previsto, come condicio sine qua non per l’applicazione della misura, che il condannato avesse subito nel corso del procedimento un periodo di custodia cautelare.

Tale previsione suscitò subito dubbi di legittimità costituzionale per l’irrazionale disparità di trattamento nei confronti dei condannati che, per qualsiasi motivo, non fossero mai stati sottoposti a precedente limitazione della libertà.

In relazione al periodo di pre-sofferto in custodia cautelare era stata chiamata a pronunciarsi la Corte Cost. che, considerando tale condizione estranea ai fini propri dell’affidamento in prova e fonte di una discriminazione divenuta paradossale alla luce

strutturale dell’affidamento in prova a seguito della riforma. (111) Corte Cost. Ord. n. 99/375

(112) Corte Cost. ord. n. 89/586

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della regolamentazione varata dal nuovo c.p.p., aveva provveduto alla rimozione di tale preclusione.(114)

Dopo la rimozione ad opera della Corte Cost., l’art. 47 co. 3 O.P: non fa più riferimento al precedente periodo di libertà. Ma è indubbio che deve essere recuperato in via interpretativa(115), non potendosi ammettere che si sia voluto legittimare un’applicazione della misura sulla sola base del comporta-mento carcerario, quando sia mancato un periodo di libertà prima dell’inizio dell’esecuzione.

Un dato caratteristico della procedura di cui al co. 4, era che si addossava in capo al condannato il momento migliore per poter presentare l’istanza di affidamento. Più precisamente, il condannato, al fine di poter far uso delle sue facoltà (tra cui ricade quella di avanzare l’istanza de qua), deve essere posto a conoscenza del provvedimento del PM (ordine di esecuzione). Ma egli ne viene a conoscenza non prima di un lasso di tempo (che può essere anche considerevole). D’altro canto, il PM emana il provvedimento dell’ordine di esecuzione, (dopo la riforma del 1998) il contestuale provvedimento di sospensione e li notifica(116) al condannato (oltre che al suo difensore). Cosicché il condannato si vede tradotto in carcere per non aver saputo anticipare, con ragionevole lasso di tempo, il relativo provvedimento.

La notifica del provvedimento era stata prevista al fine di evitare differimenti sine die dell’esecuzione della pena, soprattutto per irreperibili e latitanti.

2.3 Magistrato di Sorveglianza

All’origine, nella l. n. 354/75, era stato istituito al fine di garantire i diritti dei detenuti e controllare che i provvedimenti dell’a. p., fossero conformi alla legalità; col tempo sono state aggiunte altre funzioni.

Infatti, in ordine alle misure alternative, il magistrato agisce, proprio per l’urgenza della situazione, in via propedeutica rispetto ad un successivo intervento del Tribunale.

La procedura da seguire è quella de plano,(117) cioè senza la presenza del condannato (detenuto, perché per il condannato in stato di libertà vige un altro tipo di disciplina). Un altro campo, che non sarà trattato approfonditamente ma solo per le connessioni che potrà avere con l’affidamento, è quello delle misure di sicurezza.

Per quanto riguarda il trattamento inframurario ed individualizzato di ciascun detenuto, bisogna dire, sin d’ora, che il magistrato svolgeva una funzione prettamente di garanzia dell’operato dell’a. p. Si vuol dire che l’a. p., in relazione alla sua attività “amministrativa”, doveva rispettare certi diritti inviolabili della persona che non potranno essere trascurati. E se ciò non avveniva, il detenuto (anche internato) poteva rivolgersi al magistrato, come garante dei diritti dei detenuti, al fine di veder revocato quel provvedimento lesivo dei loro

(114) Bernasconi, in Bargis 2000, p. 175 ss; Della Casa, in L. Pen. 2001, p. 409 fa presente, come disse il

legislatore stesso, che la riforma è dovuta al fatto che si voleva dare una maggior tutela a coloro che fossero sprovvisti di difensore di fiducia al momento della “consegna” del provvedimento del PM. (115) Bernasconi, in Bargis 2000

(116) Della Casa, ibidem, p. 800

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diritti. E così, in tema di trasferimento, di non applicazione di una serie di norme penitenziarie (ore di aria aperta; possibilità di vedere i familiari; igiene ed altro) e di sospensione del trattamento si poteva ottenere un controllo da parte di un organo, il magistrato di sorveglianza, che fosse maggiormente indipendente e imparziale, rispetto al controllo della stessa a. p.

Sempre per previsione di legge ed a seguito delle modifiche che sono intervenute, il magistrato svolge funzioni anche per le misure alternative ed, in particolare, per l’affidamento in prova al servizio sociale. Infatti, avanzata la relativa istanza, il magistrato dovrà sospendere l’esecuzione (anche se il relativo provvedimento, come detto prima, è di competenza del PM), provvedere all’eventuale scarcerazione del detenuto e, dopo la riforma del 2014, disporre la provvisoria applicazione della misura alternativa (art. 47 co. 4 O.P.). Come osservò qualcuno, il baricentro dell’attività del magistrato (e non solo) si è spostato dal controllo sulla legalità degli atti esecutivi (nei rapporti amministrazione-detenuto) all’attuazione dei principi costituzionali delle finalità rieducative dell’esecuzione della pena e di umanizzazione del trattamento penitenziario.(118)

Si potrebbe dire, in modo sintetico ma non esaustivo, che l’intervento (sia che sii propedeutico alla concessione della misura da parte del Tribunale sia di controllo della legalità di certi provvedimenti della a. p.) del magistrato è stato dettato per rispondere meglio ai dettati costituzionali riguardanti le garanzie che sono state previste in favore del condannato e del detenuto. Infatti, siamo sempre in tema di misure (anche per quelle alternative) che limitano fortemente la libertà personale del soggetto e che sono sottoposte al principio della riserva di giurisdizione ex artt. 13 co 2, 27 co 3, 102, 111 co 7 Cost. In tema di affidamento, secondo l’attuale disciplina, al magistrato di sorveglianza spetta un potere sospensivo interinale inquadrabile nel filone di competenze che sono previste negli artt. 51-bis (testualmente prevede la forma che deve avere il provvedimento del magistrato in ipotesi di sopravvenienza di un nuovo titolo di privazione della libertà: decreto motivato) e 51-ter (testualmente menziona l’ipotesi in cui l’affidato ponga in essere dei comportamenti che darebbero vita alla revoca della misura e del contestuale provvedimento, decreto motivato, di provvisoria sospensione). Secondo qualcuno, a seguito di tali previsioni si è realizzato uno spostamento dell’asse decisionale, anche se di carattere interinale, dal tribunale al magistrato di sorveglianza ed una “caduta

” del tasso di giurisdizionalizzazione del sistema. (119

)

La normativa penitenziaria non prevede quale debba essere la forma del provvedimento interinale del magistrato. In ragione della sua incidenza sulla libertà del condannato-affidato, e prendendo come riferimento l’art. 51-ter O.P., si preferisce aderire alla tesi che espressamente prevede che la decisione del magistrato debba esprimersi con decreto motivato.(120) E tale provvedimento si ritiene suscettibile di ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost.(121)

(118) Bernasconi, ibidem, p. 126

(119) Bernasconi, ibidem, p.159; Della Casa, in L. Pen. 98, p. 806;

(120) Della Casa, ibidem; contra F.P.C. Iovino, in Iovino-Kalb 1999, p. 203; C 2-10-98, in C. Pen. 99, p. ; C

7-3-00, in C. Pen. 01, p. 2492 la soluzione negativa (non si dovrebbe ritenere che il magistrato decida con decreto motivato) si impone anche per la non riconducibilità del provvedimento nell’ambito di quelli in tema di libertà.

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Compito ulteriore, a seguito della decisione se concedere, anche provvisoriamente, l’affidamento (la modifica del 2014 ha previsto tale possibilità), è quello di trasmettere immediatamente gli atti al Tribunale affinché si pronunci nel merito nel termine, meramente ordinatorio, di 45 giorni.

L’art. 68 co. 4 preclude la possibilità che i magistrati di sorveglianza vengano adibiti <<ad

altre funzioni>>. La norma merita qualche approfondimento.

Si vuol far riferimento al fatto che non si può far ricorso ai magistrati di sorveglianza per supplire magistrati che svolgano un tipo diverso di funzioni(122). Questa regola, però, subisce una deroga nell’art. 1 l. n. 58/89 il quale consente di far ricorso a tale “sostituzione” anche nell’ipotesi in cui si tratti di far fronte ad “imprescindibili e prevalenti” esigenze di un tribunale di sorveglianza. Ma forse si potrebbe obiettare che l’art. 68 co. 3 O.P. espressamente prevede e legittima il Presidente dell’organo collegiale (della Corte d’appello) a sopperire ad un magistrato di sorveglianza impedito o mancante mediante il ricorso ad un giudice svolgente un diverso tipo di funzioni giudiziarie. Però il meccanismo or ora menzionato richiede che il magistrato su cui ricade l’onere della sostituzione continui a svolgere le sue funzioni originarie nel suo ufficio di appartenenza.(123)

Dalla legge del ’75 in poi, le competenze del magistrato si sono sempre più ampliate, ricomprendendo anche le misure alternative, le sanzione sostitutive e quelle derivanti dalla conversione della pena pecuniaria (ex l. n. 663/89). Dopo la riforma del c.p.p., il quadro è diventato più variegato.

L’art. 489 co. 3 c.p.p. fa carico al magistrato (sorv.) di raccogliere, nel giudizio di revisione o nella fase dell’esecuzione , le dichiarazioni del condannato giudicato in contumacia. Ancora. L’art. 127 co. 3 c.p.p. affida l’incarico dell’audizione dell’interessato nel procedimento in camera di consiglio al magistrato ogniqualvolta si abbia a che fare con un soggetto detenuto o internato fuori della circoscrizione del giudice procedente. Lo stesso, ma con riguardo ai procedimenti di esecuzione, dispone l’art. 666 co. 4 c.p.p.(124)

Queste sono, in estrema sintesi (e senza la pretesa di essere stati esaustivi), le principali funzioni e competenze, potremmo dire “generali”, del magistrato.

Per quanto a noi interessa e, più precisamente, in riferimento all’affidamento in prova, le competenze del magistrato sono abbastanza definite.

Qualcuno osserva che non sia sufficiente demandare la pura e semplice cognitio ad un organo giurisdizionale per assicurare “garanzie di giurisdizionalità” alla trattazione di determinate materie.(125)

Una volta presentata la relativa istanza al magistrato, si instaura un procedimento, di sorveglianza, nel quale il magistrato ha un ruolo di non poco conto.

17 ss; contra C 5-4-1978, in Giust. Pen. 1979, III c. 148; C 26-6-86, in C. Pen. 1988 afferma che la partecipazione, in veste di supplente, di un magistrato di sorveglianza ad un dibattimento ed alla decisione della relativa sentenza non comporta la nullità del provvedimento.

(122) Della Casa, op. ult. cit., p. 19

(123) Della Casa, op. ult. Cit., p. 21

(124) P. Corso, in Esecuzione penitenziaria 2005, dopo aver trattato con disgressione argomentativa le

evoluzioni che si sono avute in tema di procedimento di sorveglianza, fa notare che agli inizi l’averlo previsto era segno di una innovazione da parte del legislatore di non poco conto. La successiva riforma (la “legge Gozzini”) ha tentato una reconductio ad unitatem della materia che precedentemente era stata rivisitata con la riscrittura dell’art. 71 O.P. e con l’introduzione ex novo della sequenza degli artt. 71bis- 71sexies ad opera della l. n. 1/77.

(11)

Come detto precedentemente, la competenza a decidere (con un potere sospensivo interinale) spetta, per il condannato detenuto, al magistrato che ha giurisdizione sull’istituto di pena in cui si trova l’interessato (art. 677 co. 1 c.p.p.) oppure competente in relazione al luogo di esecuzione (art. 47 co. 4 O.P.). Entrambe le norme sono chiare ed il loro coordinamento è lineare. L’istanza dovrà essere presentata al magistrato che ha giurisdizione <<sul luogo di detenzione del condannato>>, o, se si vuole, sull’istituto in cui è detenuto il condannato. In altre parole, le norme de qua fanno riferimento al locus

custodiae dell’interessato.

Per il condannato in stato di libertà, si veda il prossimo paragrafo relativo al Tribunale. L’istanza proposta dovrà essere attentamente vagliata dal magistrato. A tal proposito (e lo si è detto già nel paragrafo relativo ai presupposti), il magistrato deve effettuare un’attenta analisi dei presupposti e delle condizioni richieste dalla legge al fine di meglio decidere sulla sospensione dell’esecuzione, correlativa messa in libertà (o scarcerazione) del condannato detenuto e l’applicazione provvisoria della misura. Gli elementi e dati che dovrà prendere in considerazione sono vari. Ne elenchiamo solo alcuni a livello esemplificativo.

Intanto, la documentazione eventualmente allegata dal condannato. C’è da dire che, anche se l’interessato (anche a seguito di avviso effettuato dal PM nel provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione) non allega la relativa documentazione, si deve propendere per la tesi che ammette un vaglio ex officio da parte dello stesso magistrato. Sempre nella prospettiva di non aggravare l’onere di allegazione a carico dell’istante (soprattutto per quella politica criminale che voleva avvantaggiare i soggetti meno abietti di una procedura poco onerosa), si deve ammettere anche che il comitato di osservazione possa inviare, su richiesta dello stesso magistrato, la documentazione in esame.

Il comportamento del soggetto tenuto in stato di libertà, almeno per le ipotesi in cui l’esecuzione sia avvenuta ma vi sia stata successivamente una scarcerazione del detenuto (secondo il meccanismo di cui all’art. 47 co. 4 O.P.), successivamente alla commissione del reato sarà passibile di esser vagliato ai fini della concessione della misura. Sempre per quella tesi che vuole la misura de qua in un’ottica di finalismo rieducativo, si deve ammettere che i comportamenti antecedenti alla commissione del reato e quelli successivi alla fine dell’esito della prova non dovranno esser tenuti in debito conto, pena il rischio di attribuire all’affidamento un connotazione marcatamente retributiva ed ingenerare nel condannato condotte che non siano rispettose sia delle prescrizioni che potrebbero essergli impartite sia delle regole di civile convivenza.

La commissione di nuovi reati, durante il periodo di prova, è sicuramente suscettibile di entrare nel novero degli elementi valutabili dal magistrato. Ricordando, però, che la recidiva e quella reiterata (o specifica) prevista dalla legge (negli artt. 99 co. 4 e 101 c.p.) dovranno essere oggetto di un valutazione particolarmente attenta da parte dell’organo giudicante.

Entrano, sempre nel novero degli elementi valutabili dal magistrato, quegli atteggiamenti di resipiscenza e di risarcimento del danno alla persona offesa dal reato che costituiscono perno delle prescrizioni che il magistrato dovrà imporre al condannato. Per il primo dato, la semplice dichiarazione di innocenza non può dar luogo al rigetto dell’applicazione della misura perché, fra i diritti inviolabili della persona, rientra proprio quello di dichiararsi innocente. Per il secondo (risarcimento danni), in mancanza di una serie di dati (rifiuto di

(12)

trovare un lavoro remunerato; indisponibilità al pagamento di una somma di denaro; dilapidazione del proprio patrimonio), il magistrato potrà desumere elementi ai fini del rigetto dell’istanza, o meglio dell’applicazione della misura. La somma versata che sia inferiore a quella stabilita dal giudice di cognizione (del processo civile) non potrà mai dare adito al rifiuto quando si comprenda che il condannato ha una disponibilità monetaria (e finanziaria) non sufficiente a coprire la somma richiesta.

La giurisprudenza della Cassazione ha avvallato un’interpretazione estensiva sull’argomento, nel senso che, nonostante il dato normativo al riguardo nulla dica, il magistrato prima, il Tribunale (nella persona del proprio presidente e secondo le regole di delibazione proprio di quest’organo collegiale) poi dovranno effettuare una valutazione di elementi che facciano riferimento al caso concreto. Infatti, l’oggetto della valutazione, prima ancora che oggettivo (comportamenti; rifiuti ed altro), è soggettivo: l’uomo. Ed è per questa ragione che non si può ricorrere a schemi determinati a priori.

Perfino l’osservazione della personalità del condannato, condotta collegialmente in istituto, non potrà fare a meno della considerazione che si sta “studiando” un soggetto.

Ricordando sin d’ora che la decisione nel merito spetta sempre al Tribunale, si deve fare un’ultima considerazione.

Il magistrato che abbia negato l’applicazione, anche provvisoria, della misura (possibilità, come detto precedentemente, prevista dalla l. n. 10/2014) per le più svariate ragioni (ha considerato la o le pene superiori al limite di 3-4 anni; non ha considerato integrato il presupposto del grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo; non ha considerato irrilevante una determinata condotta ed altro ancora), dovrà trasmettere immediatamente gli atti al Tribunale. Così, la misura che è stata negata, potrà essere, invece, concessa dal Tribunale di Sorveglianza, senza (si spera) grave pregiudizio del condannato.

L’art. 70 co. 2 secondo periodo (<< …. Il magistrato che ha emesso il provvedimento non

fa parte del collegio>>) pone qualche problema di coordinamento.

Alla luce dell’insegnamento della Corte Cost. (sent. n. 97/364), in relazione all’art. 684 co. 2 c.p.p., qualcuno sostiene che si debba escludere che il magistrato che si è pronunciato sulla sospensione venga a trovarsi in una situazione di incompatibilità preclusiva di una sua partecipazione al giudizio del Tribunale successivamente investito della questione.(126) Ma in relazione sempre al magistrato, la norma dell’ O.P. espressamente prevede la sua non partecipazione ( <<… non fa parte …>>) al successivo collegio giudicante investito della questione. Dall’altro lato, l’art. 147 co. 2 c.p.p. espressamente prevede la possibilità di differire l’esecuzione della pena per chi (condannato) si trovi in situazioni di grave infermità fisica.(127)

Ora, qual è l’interpretazione corretta delle norme? Premettendo che la Corte Costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità costituzionale dell’art. 70 co. 6 O.P. (che dopo la riforma del ’86 espressamente che uno dei due magistrati ordinari che compongono il collegio sia quello sotto la cui giurisdizione è posto il detenuto o

(126) Corte Cost. sent. 364 del 1997 trattò la questione dal diverso punto di vista del magistrato che,

decisa la possibilità di differire l’esecuzione della pena in un determinato caso (condannato affetto da grave infermità fisica), fece parte del Tribunale di Sorveglianza investito della questione.

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l’internato), e che l’attuale art. 70, al co. 2, contiene una previsione diversa ( … il magistrato che ha emesso il provvedimento non fa parte del collegio giudicante), bisogna dire che la sua partecipazione al Tribunale di Sorveglianza ha una sua ratio inevidenti ragioni processuali. Infatti, partecipando al collegio che deciderà sulla misura (anche eventualmente negata), i componenti avranno una maggior aderenza al dato concreto. In altri termini, dati i tempi per la decisione nel merito da parte del Tribunale (spesso assai lunghi), considerando che lo stesso si basa su valutazioni di carattere fattuale (gli atti immediatamente trasmessi dal magistrato), la domanda sorge spontanea: ma se il magistrato stesso non partecipasse al collegio per rispettare un eventuale criterio di incompatibilità, si può essere sicuri che il Tribunale decide “correttamente”? Della situazione si potrebbe fortemente dubitare. Infatti, senza l’ausilio del magistrato, il collegio dovrebbe avere la possibilità di raccogliere informazioni (anche dal servizio sociale o da parte del comitato per l’osservazione intramuraria o, ancora, da parte degli organi di P.S.), elementi che siano indicativi della pericolosità del soggetto (magari derivanti dall’esito dell’osservazione) ed altro. Ma questi elementi, che sono vari, si riferiscono, con ogni ragionevole probabilità, ad un tempo che si può rivelare anche lontano dal momento in cui si decide (per es., si decide nel marzo del 2014, ma le osservazioni e gli altri elementi si riferiscono all’anno precedente, gennaio 2013).

Non solo. Vi è anche un’esigenza di tutelare il soggetto (condannato detenuto o meno) a che la sua condizione fisica, se già compromessa per vari motivi, non si aggravi ulteriormente. Tant’e che l’O.P. da la possibilità di sospendere l’esecuzione, provvedere alla scarcerazione del detenuto e (almeno dopo la riforma del 2014) e di applicare provvisoriamente la misura in situazione in cui “il protrarsi dello stato detentivo possa arrecare grave pregiudizio” al condannato (ex art. 47 co. 4 O.P.). E considerando che i dovuto) di lavoro degli stessi, potremmo dire che le condizioni del soggetto si potrebbero aggravare ulteriormente tempi per la decisione del Tribunale sono condizionati anche al carico (spesso oltre il in tutte quelle ipotesi in cui il magistrato non possa dare il suo contributo.

A sostegno di tale tesi vi è la Sent. n. 364 del ’97 della Corte Costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Bari in ordine al fatto che il magistrato di sorveglianza che partecipi al collegio si trovi in una situazione di incompatibilità.

2.4 Tribunale di Sorveglianza

Gli articoli ad esso dedicati sono principalmente menzionati nell’O.P. E sono: art. 70 e 71. Ѐ un organo collegiale e, secondo l’art. 70 O.P., nella fase decisoria è composto da:

a) Presidente del Collegio, che ha la funzione di “ago della bilancia” nel caso di parità di voti,

b) magistrati “ordinari”, di cui (come si è detto prima) uno deve essere quello sotto la cui giurisdizione è posto il condannato o l’internato, mentre l’altro è un magistrato di sorveglianza in servizio nel distretto o nella circoscrizione territoriale della sede distaccata (co. 3),

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c) due esperti di cui al co. 4 (che a sua volta fa implicitamente rinvia agli esperti <<scelte

fra le categorie di cui all’art. 80 co. 4>>).

Più precisamente, l’art. 70, ai commi 1 e 2, prevede la loro costituzione (distretto di Corte d’Appello e circoscrizione di sezione distaccata), la competenza “generale” (affidamento in prova al servizio sociale; detenzione domiciliare; detenzione domiciliare speciale; semilibertà; liberazione condizionale; revoca o cessazione delle suddette misure; riduzione di pena per liberazione anticipata; rinvio obbligatorio o facoltativo delle pene detentive ai sensi degli art. 146 e 147 n. 2) e 3) c.p.; per ogni provvedimento ad esso attribuito dalla legge), a decidere in ordine ai provvedimenti di cui al co. 4 dell’art. 69 O. P.

I commi successivi ( 3-8) prevedono: composizione “generale” (co. 3); nomina degli esperti effettivi e supplenti ( co. 4); modalità di decisione dei provvedimenti, sostituzione del Presidente impedito o assente, componenti del collegio decisionale (co. 5 ); partecipazione del magistrato di sorveglianza (co. 6); determinazione dei collegi giudicanti (co. 7); forma del provvedimento emesso in camera di consiglio e voto decisivo del Presidente (co. 8).

Tratteremo l’argomento approfondito dal punto di vista della misura alternativa e dei profili che si sollevano in relazione, da una parte, al voto determinante del Presidente e della partecipazione del magistrato “sotto la cui giurisdizione è posto il condannato o internato” (senza dimenticare la previsione di cui all’art. 70 co. 2 O.P.) e, dall’altro, agli esperti “scelti fra le categorie di cui al co. 4 dell’art. 80, nonché fra docenti di scienze criminalistiche” (co. 3).

Per il primo profilo (voto determinante del Presidente, partecipazione del magistrato di sorveglianza “che ha emesso il provvedimento” e “sotto la cui giurisdizione è posto il detenuto internato”), c’è da dire che la previsione della partecipazione del magistrato mira ad ottenere una corrispondenza al caso concreto. Tale previsione mira al fine di assicurare all’organo collegiale una conoscenza che non sia di “seconda mano”.(128

)

Ma il fatto che sia previsto il voto determinante del Presidente, che non ha avuto se non un contatto indiretto con l’interessato durante il procedimento di sorveglianza (nel quale viene assicurato il diritto di difesa del condannato), preclude la possibilità di raggiungere quell’aderenza al caso concreto che si voleva garantire. Infatti, il Presidente si forma il suo convincimento su elementi e situazioni diverse e magari dati e comportamenti lontani nel tempo, rispetto al provvedimento (sia di concessione che rifiuto dell’applicazione della misura) del magistrato che lo ha emesso.

Se la situazione è precaria nell’ipotesi in cui il detenuto non subisca alcun trasferimento (perché competente sarà il magistrato “del luogo di esecuzione”) e per il fatto che il magistrato ha una voce “labile” al momento della decisione del Tribunale, di certo si potrebbe dubitare dell’efficacia della previsione nell’ipotesi in cui il detenuto vanga trasferito e, contestualmente, avanzi reclamo davanti al Tribunale “del luogo di destinazione”. Ѐ evidente che qui il collegamento detenuto-organo giudicante monocratico viene meno, almeno sotto il punto di vista della conoscenza della situazione di fatto. Infatti, il magistrato del luogo di destinazione saprà solo del trasferimento effettuato, ma nulla saprà in relazione alle ragioni del perché, eventualmente, sia stata negata o revocata la misura alternativa. E se tale magistrato farà parte del collegio giudicante, ancor meno

(15)

aderente sarà anche la decisione presa. (129)

Per il secondo profilo (esperti “scelti fra le categorie di cui al co. 4 dell’art. 80, nonché fra i docenti di scienze criminalistiche”), bisogna domandarsi se tali soggetti fanno parte anche del comitato di osservazione e trattamento che è preposto all’osservazione del condannato detenuto ai fini della formulazione del parere prognostico sull’ammissibilità o meno all’affidamento in prova. Nel caso che la risposta sia affermativa (“Sì, sono gli stessi componenti in entrambe le situazioni”), ciò giova, evidentemente, ad una maggior rapidità di decisione del Tribunale che, ictu oculi, non dovrà procedere ad un esame su documenti presi durante il procedimento di sorveglianza. Infatti, gli esperti sono in grado di riferire meglio (anche mediante una discussione aperta) sulle eventuali condotte che meritano rilievo rispetto ad altri comportamenti e sapranno meglio indirizzare (almeno si spera) il convincimento del Presidente.

La situazione non è la stessa in due altre ipotesi. In caso di parità di voti e di astensione del magistrato, è evidente che il Presidente si trova in una situazione di non facile snodo, per la semplice e quasi ovvia considerazione che entrambi gli esperti hanno visioni divergenti sulla concedibilità dell’affidamento.

La seconda situazione, maggiormente preoccupante sotto il profilo della decisione e di quello della ragionevolezza nel merito, è quella in cui non facciano parte del collegio. Ѐ chiaro che il Tribunale valuterà l’ammissione o meno sulla base di pareri che quasi sicuramente non corrispondono alla realtà del caso. Per non parlare del fatto che il condannato dovrà aspettare (specie se detenuto a seguito di diniego o di revoca dell’affidamento con contestuale traduzione in carcere) la decisione in uno stato detentivo che smentisce le ragioni per le quali è stato previsto la misura stessa: evitare il carcere. E ciò aggraverà la possibilità di ottenere una qualche collaborazione da parte dell’interessato. Il Tribunale, per espressa previsione di legge, è l’organo giudicante deputato a decidere nel merito e in via definitiva sull’affidamento in prova (anche se, come detto prima, il suo ambito di operatività comprende altre misure e provvedimenti).

Ma quando viene investito della questione relativa alla decisione? In ipotesi diverse.

La prima riguarda la situazione del condannato detenuto che abbia proposto istanza al magistrato e questi abbia deciso, anche se in modo interinale, sulla relativa istanza. Come prevede l’art. 47 co.4 O.P., <<la sospensione della pena opera sino alla decisione del

Tribunale cui il magistrato di sorveglianza trasmette immediatamente gli atti e che decide entro 45 giorni>>. La norma non presenta particolari difficoltà interpretative. Una volta

che il magistrato abbia deciso sulla relativa istanza, il Tribunale si pronuncerà nel termine, meramente ordinatorio, di 45 giorni. Le situazioni che si prospettano sue due.

Il detenuto ha ottenuto la sospensione dell’esecuzione, la contestuale libertà e (sempre per la l. n. 10/2014) l’applicazione provvisoria della misura. Egli resterà in tale stato fino a quando non intervenga la decisione del Tribunale. Ѐ evidente che il soggetto interessato

(129) Della Casa, ibidem, p. 24 avanza qualche dubbio sul fatto che la norma riesca ad ottenere il fine per

cui è stata prevista. “Talora ciò dipende dal fatto che si realizza uno svuotamento in seguito a repentine

variazioni della situazione logistica del condannato: si pensi ad un provvedimento di sorveglianza particolare, con contestuale trasferimento del soggetto <<in istituto idoneo>>. L’eventuale reclamo dovrà essere proposto al Trib. Sorv. che ha giurisdizione sul nuovo istituto di assegnazione, con la conseguenza che nessuno dei due magistrati facenti parte del collegio potrà vantare una conoscenza diretta del reclamante”

(16)

non subisce alcun pregiudizio derivante dai tempi per la decisione, perché in stato di libertà (si potrebbe dire controllata dal servizio sociale; disciplina antecedente la riforma del 2014). Ma li potrebbe subire nell’eventualità in cui il Tribunale consideri tale periodo come non computabile ai fini dell’eventuale dichiarazione di esito positivo della prova. Mentre, nell’altra situazione, e cioè quando il magistrato non abbia ritenuto che il detenuto sia meritevole di accedere all’affidamento (la pena supera il limite di 4 anni; non sussiste alcun pregiudizio grave; sussiste il pericolo di fuga; il soggetto è portatore di pericolosità sociale; altri motivi) ed abbia disposto la sua traduzione in carcere (anche se il relativo provvedimento è di spettanza del PM), egli subirà delle conseguenze negative da tale scelta operata. Infatti, lo stato detentivo si protrarrà fino a quando il Tribunale deciderà magari l’applicazione definitiva della misura. Contestualmente, però, la legge prevede che, al fine di evitare un trattamento peggiorativo dell’interessato contrario sia del principio della rieducazione della pena sia del principio del ne bis in idem, il periodo trascorso nello stato detentivo venga computato ai fini dell’ammissione all’affidamento.

La terza situazione è molto diversa dalle precedenti. Sia il magistrato sia il Tribunale hanno ritenuto il condannato detenuto non meritevole di accedere all’affidamento. Avverso il provvedimento, ordinanza, del Tribunale (per quello del magistrato l’O.P. prevede già il vaglio del Tribunale) si può proporre ricorso per Cassazione ex art. 71-ter O.P.

La seconda ipotesi in cui viene investito della questione, invece, è quella del condannato che, per essersi giovato della procedura di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p. (a seguito della riforma del 1998), non sia stato tradotto in carcere e che, quindi, sia in stato di libertà. Costui potrà avanzare l’istanza per la concessione dell’affidamento <<al Tribunale che ha

giurisdizione sul luogo in cui l'interessato ha la residenza o il domicilio>>.

Un’altra domanda è: qual è il suo ambito si intervento?

Oltre alle ipotesi precedentemente trattate, il Tribunale ha competenze, sempre in tema di affidamento, che si ricollegano a profili della misura.

Intanto la legge non attribuisce la declaratoria di estinzione della pena al Tribunale, ma a tale attribuzione si può arrivare in via interpretativa. Infatti, l’art. 678 co. 1 c.p.p. collega l’operatività del procedimento di sorveglianza genericamente alle materie di competenza del Tribunale. Lo stesso fa l’art. 71 co 1 O.P. che espressamente prevede <<per i

provvedimenti di competenza del Tribunale di sorveglianza …>> Alla luce di queste

considerazioni, si ritiene che anche per la declaratoria di estinzione della pena si debbano seguire le forme tipiche di questo rito. (130)

Ancora. Per espressa previsione di legge (art. 70 co. 1 O.P.) il Tribunale è competente a decide della revoca o della cessazione dell’affidamento.

A norma dell’art. 47 co. 12 secondo periodo, il Tribunale è competente a “dichiarare

estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa” qualora il condannato si

trovi in disagiate condizioni economiche.

Secondo quanto dispone il comma 12 bis dell’art. 47 O.P., il Tribunale può concedere la detrazione di pena di cui all’art. 54 all’affidato <<che abbia dato prova nel periodo di

affidamento di un suo concreto recupero sociale, desumibili da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità>>.

(130) Presutti, Disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa penitenziaria al nuovo c.p.p.,

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Va aggiunto che, a tutte le summenzionate competenze, l’ambito di operatività del Tribunale si estende alla decisione in appello i provvedimenti del magistrato concernenti le misure di sicurezza; la dichiarazione di professionalità o abitualità nel reato o di tendenza a delinquere ex art. 70 co. 2 O.P.

2.6 Procedimento ex art. 656 c.p.p.

L’attuale formulazione del co. 5 dell’art. 656 c.p.p. è il frutto di continue variazioni dovute a diversi fattori, fra cui potremmo sin d’ora annoverare quell’orientamento che voleva che determinati soggetti portatori di minor pericolosità (condannati a pene inferiori a 3 mesi) fossero ammessi ad usufruire dell’affidamento. L’altro orientamento riguarda, invece, che la disciplina in questione, prima della riforma del ’98, imponeva al condannato l’onere di anticipare l’emanazione dell’ordine di esecuzione (con contestuale traduzione in carcere), “giocando d’anticipo”.

La norma prevede, oggi, che il PM valuti la situazione del soggetto in relazione ad un requisito (la pena non sia superiore a 3 anni) e, se sussiste, deve disporre i provvedimenti dell’ordine di esecuzione e contestualmente quello di sospensione dell’esecuzione. Entrambi i provvedimenti devono essere notificati al condannato ed al difensore (quello nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, quello che lo ha assistito nella fase di cognizione). Nell’avviso, il PM deve informare il condannato che, nel termine (perentorio) di 30 giorni dalla ricezione, può proporre istanza per ottenere l’affida-mento (testualmente la norma parla anche di altre misure o benefici). L’avviso deve, altresì, informare che, se non viene presentata l’istanza (o viene presentata oltre i termini) o viene dichiarata inammissibile , l’esecuzione avrà corso immediato. Da ciò si desume che il termine per proporre l’istanza è perentorio.

Per i presupposti di applicazione di tale forma di affidamento (senza osservazione), l’art. 47 co. 3 parla di comportamento serbato dal condannato <<dopo la commissione del reato

tale da consentire il giudizio di cui al co. 2>>. Mentre per il limite di pena per cui può

esser disposto prevede lo stesso art. 656 co. 5 c.p.p. (4 anni, a seguito della riforma del 2014). Per quanto riguarda, invece, il condannato (anche se in stato di libertà), a seguito dell’avviso di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p., egli dovrà fornire <<concrete indicazioni in

ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento e non vi sia il pericolo di fuga>>. La parte relativa al <<grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo>> come onere di allegazione non sussiste per la semplice ragione che,

come detto più volte, il condannato in libertà non viene pregiudicato dai tempi per la decisione nel merito del Tribunale.

L’istanza dovrà essere proposta al Tribunale <<che ha giurisdizione sul luogo in cui

l’interessato ha la residenza o il domicilio>> ex art. 677 co. 2 c.p.p. Tale conclusione è

dovuta al fatto che il soggetto è in stato di libertà. L’avvertenza è, però, collegata alla tesi che valuta (nell’ottica del favor rei, del rispetto del né bis in idem e del finalismo rieducativo della pena) il periodo trascorso in libertà come completamente detraibile dal

quantum di pena da scontare in carcere eventualmente stabilito dal Tribunale al momento

(18)

Questa forma di accesso all’affidamento in prova, oltre a prescindere dall’osservazione intramuraria, fa perno sul comportamento del condannato serbato durante il periodo di libertà goduto. Ѐ evidente che il soggetto non farà ingresso in carcere fino a quando il Tribunale non abbia deciso, in senso negativo (dichiarando l’istanza inammissibile; rigettandola), nel merito la relativa istanza. Non solo. Il comportamento serbato in libertà era preso in considerazione <<ai fini della valutazione di cui al co. 2 dell’art. 47>>, e cioè al fine di valutare se le prescrizioni che dovranno esser impartite al condannato (nel provvedimento finale) <<contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione

del pericolo che egli commetta altri reati>>.

Come si potrà notare, la difficoltà sta nel comprendere cosa succeda in due ipotesi diverse e per le quali la soluzione che si sceglierà non è appagante.

Infatti c’è da dire subito che, come già osservato da qualcuno, il periodo di libertà piena e non assistita precede e quasi prepara la concessione della misura. Ma tale impostazione (che era stata prevista a seguito della riforma del ’86 e poi estesa, correttamente, dalla l. n. 165/98) rispondeva alla pena costituzionale e si riteneva preferibile a quello carcerario in ragione delle caratteristiche personologiche del condannato rilevate tramite l’osservazione istituzionale. (131)

La previsione riformata era stata dettata da esigenze di perequazione (processuale e carceraria), cioè si voleva che determinati soggetti, in disagiate condizioni economiche, potessero giovarsi di un procedimenti sospensivo che evitasse loro l’ingresso in carcere. Il motivo era dato dal fatto che, non potendo sopportare i costi di una difesa efficace, non sarebbero stati in grado di produrre la documentazione “da allegare” all’istanza. Con evidente aggravamento della loro posizione. Solo che, nonostante questo intento, la procedura era destinata a non ottenere l’effetto sperato: chi mai potrà produrre, entro il termine di 30 giorni dalla ricezione del provvedimento, la “documentazione necessaria” se non i condannati attrezzati culturalmente ed economicamente ?(132)

Ecco, allora, che la formulazione dell’art. 656 co. 6 interviene a supplire a questa difficoltà. Infatti, si prevede che , se la documentazione non è stata allegata a seguito di avviso di cui al precedente comma, questa possa <<essere depositata nella cancelleria del Tribunale

entro 5 giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art. 666 co. 3>>.

Non solo tale previsione renderebbe meno oneroso a chi, in disagiate condizioni economiche, si trovi anche in situazioni di impossibilità di presentare la documentazione relativa (si pensi, a titolo esemplificativo, a colui che si trovi in stato di degenza per un lungo periodo), ma a possibile perequazione processuale interviene il successivo periodo. Prevede che, se la procedura de qua non può essere svolta a vantaggio del soggetto, intervenga ex officio il Tribunale al fine di raccogliere la relativa documentazione. Infatti, è testualmente prevista una facoltà del Tribunale di <<di procedere anche d'ufficio alla

richiesta di documenti o di informazioni, o all'assunzione di prove a norma dell'articolo 666, comma 5.>>

La domanda potrebbe formularsi, in collegamento a quanto detto, in questi termini: ma tale

(131) Presutti, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie 1999, p. 49

(19)

procedura “sgravata” sia dei termini perentori (presentazione dell’istanza con relativa documentazione entro 30 giorni dall’avviso di cui al co 5) sia degli oneri correlati (presentazione della documentazione anche entro 5 giorni prima l’udienza; facoltà per il tribunale di provvedere alla raccolta della documentazione) giovano ad una migliore applicazione della misura de quo? La risposta potrebbe essere positiva dato che la formulazione testuale prevede che il Tribunale decida entro 45 giorni. Ma ciò non giova affatto all’intento per cui era stata prevista. Per una serie di fattori.

Primo. Il Tribunale spesso è oberato di un carico che difficilmente potrà fargli rispettare il termine richiesto dalla legge, cioè non sarà in grado di decidere l’istanza in 45 giorni. In aggiunta a questo, spesso si decidono i casi che sono a scadenza immediata, tralasciando gli altri.

Secondo. Qualcuno ha avanzato la tesi che i 45 giorni sia un termine ordinatorio sulla considerazione che, a differenza di ciò che accade quando vi sono casi di nullità, la legge penitenziaria non prevede nessun tipo di sanzione (processuale e sostanziale) per il caso di inosservanza del termine. Infatti, non viene previsto il relativo dies a quo dal quale si fa decorrere la decisione.

Terzo (ma non ultimo). Al fine di acquisire, anche d’ufficio, la documentazione che eventualmente il condannato non ha potuto allegare richiede che si instauri un processo o procedimento in cui venga garantito anche il contraddittorio fra le parti. Ed ecco che la legge prevede che davanti al Tribunale si osserva il procedimento di sorveglianza, che altro non è che un procedimento <<a contraddittorio pieno>>.

Tutti questi fattori rendono la procedimento relativamente efficace. Ma il fatto che il soggetto sia in libertà smorza i termini della questione perché (come detto e ridetto) il soggetto non subisce alcun pregiudizio dai termini per la decisione.

2.6.1 Poteri e compiti del Pubblico Ministero

A seguito della riforma del 1998, il PM ha compiti e poteri molto più limitati nel procedimento di esecuzione che in quello di cognizione (o di un qualche procedimento speciale).

I suoi poteri si riducono all’emanazione del provvedimento di esecuzione della sentenza di condanna con correlativa traduzione del soggetto in carcere e, dopo la l. n. 165/1998, all’emanazione del contestuale provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione. Si ricordi, ancora una volta, che tale ultimo provvedimento si è reso necessario per consentire ai soggetti meno abietti di giovarsi di un meccanismo sospensivo che non li gravasse di eventuali tempi per la presentazione dell’istanza. Tra l’altro, il PM è il soggetto che è meglio informato rispetto al condannato, in relazione a sentenza di condanna.

Oltre a questi compiti, ha il dovere, nel provvedimento che dispone l’ordine di esecuzione e del contestuale ordine di sospensione, di informare (<<con l’avviso>>) il condannato ed il suo difensore (quello che è stato nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, quello che lo ha assistito nella fase di giudizio) che può presentare istanza per la concessione dell’affidamento (la lettera della norma, art. 656 co. 5 c.p.p., parla di <<una misura

alternativa alla detenzione …>>) entro 30 gg. E lo informa anche che la stessa deve esser

(20)

Sempre nell’avviso, il PM deve informare il condannato che se l’istanza non è presentata o viene dichiarata inammissibile (ai sensi degli artt. 90 e ss D.P.R. n. 309/90), l’esecuzione della pena avrà corso immediato.

Una volta informato il condannato di queste sue facoltà (presentare istanza) e di queste sue scadenze (entro 30 gg dall’avviso), la relativa istanza dovrà essere presentata <<al PM, il

quale la trasmette, unitamente alle documentazione, al Tribunale di Sorveglianza …>>. A

questo proposito c’è chi avanza la tesi che la norma si riferisca al caso in cui il soggetto sia in libertà, non subendo alcun pregiudizio dai tempi per la decisione in merito, da parte del Tribunale, alla sua istanza. Mentre non sarà applicabile al condannato detenuto che, proprio per il so stato, sarà maggiormente esposto ad un pregiudizio per i tempi necessari ad emanare una decisione nel merito.

Ci si è posti una serie di domande. Se il PM emette l’ordine di esecuzione non considerando l’eventuale esistenza di condizioni di legge (la pena da espiare è inferiore a quella di legge; il condannato non è detenuto; altro), si potrà avanzare una qualche opposizione? Ma se il PM non emette l’ordine di sospensione, cosa si potrà fare? Mentre, se egli non informa il condannato delle sue facoltà, si potrà effettuare una qualche opposizione al suo provvedimento viziato?

A queste domande si risponde ricorrendo all’art. 655 co. 5 c.p.p., nel quale sono indicate le soluzioni ad eventuali problematiche correlate ai provvedimenti (si potrebbe dire “viziati”) del PM. Vi è un’unica via per tutti: proporre incidente di esecuzione.(133

) La lettera della norma al co. 5 parla testualmente <<I provvedimenti de PM dei quali è prescritta nel

presente titolo la notificazione al difensore, a pena di nullità, entro trenta giorni dalla loro emissione … >>. La norma si preoccupa anche di prevedere che, nonostante tale

nullità del provvedimento del PM (tra cui vi rientrano sia il provvedimento di esecuzione senza avviso delle facoltà, sia il mancato provvedimento di sospensione), <<senza che ciò

determini la sospensione o il ritardo dell’esecuzione>>.

Una tale interpretazione è dovuta al fatto che, nonostante la legge prevede per i provvedimenti del PM un qualche controllo, essi hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, e non sono suscettibili di autonoma e diretta impugnazione per ricorse in cassazione (come lo sono, invece, la maggior parte del provvedimenti del giudice).(134) E’ evidente che, se il condannato riesce ad ottenere, da parte del giudice del procedimento incidentale, ragione si deve optare per la rimessione in termini, cioè bisogna che il PM riemani un altro provvedimento dell’ordine di esecuzione ed il contestuale provvedimento di sospensione dell’esecuzione con correlativo avviso delle facoltà del condannato. Altrimenti si corre il rischio di veder vanificata l’esecuzione di una sentenza legittimamente emessa ed al contempo di non dar la possibilità al condannato di proporre un’istanza “corretta” (cioè presentata entro i termini di legge, corredata dell’eventuale documentazione, completa degli elementi non autonomamente deducibili da parte del magistrato di sorveglianza).

Quali sono i doveri del PM quando l’istanza non viene presentata o è presentata dopo i termini per la sua proposizione o, ancora, viene dichiarata inammissibile o respinta dal

(133) C 24-5-94, in C. Pen. 96, p. 848; 24-5-95, in C.E.D. Cass. n. 202353;C17-6-99, in C. Pen. 01, p. 202; C

4-4-01, in C.E.D. Cass. N. 219492

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Tribunale? Il PM ha il dovere, ex art. 656 co 8 c.p.p., di revocare l’ordine di sospensione dell’ordine di esecuzione. Con l’evidente intento che l’esecuzione della pena avrà “corso immediato”, cioè si dovrà disporre il contestuale provvedimento dell’ordine di esecuzione la contestuale traduzione in carcere del soggetto.

Quando si propone l’istanza ed il condannato ha subito una sanzione ex art. 4-bis O.P. oppure è in custodia cautelare al momento del passaggio in giudicato della sentenza o è stato dichiarato recidivo reiterato, il PM non deve disporre la sospensione dell’esecuzione. E’ chiaro che la pena sarà eseguita e, se del caso, il soggetto dovrà esser tradotto in carcere.

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