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View of disegno n.6/2020

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Academic year: 2021

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diségno

diségno

6.2020

ISSN 2533-2899

unione italiana disegno

6.2020

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RIFLESSIONI.

L’ARTE DEL DISEGNO/IL DISEGNO DELL’ARTE

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Comitato editoriale - coordinamento

Paolo Belardi, Enrico Cicalò, Francesca Fatta, Andrea Giordano, Elena Ippoliti, Francesco Maggio, Alberto Sdegno, Ornella Zerlenga

Comitato editoriale - staff

Laura Carlevaris, Enrico Cicalò, Luigi Cocchiarella, Massimiliano Lo Turco, Giampiero Mele, Valeria Menchetelli, Barbara Messina, Cosimo Monteleone, Paola Puma, Paola Raffa, Cettina Santagati, Alberto Sdegno (delegato del Comitato editoriale - coordinamento)

Progetto grafico

Paolo Belardi, Enrica Bistagnino, Enrico Cicalò, Alessandra Cirafici Segreteria di redazione

piazza Borghese 9, 00186 Roma rivista.uid@unioneitalianadisegno.it In copertina

Oscar Piattella, L’albero del diségno. All’UID il segno per il “disegno” dell’albero, 2019.

Particolare.

Gli articoli pubblicati sono sottoposti a procedura di doppia revisione anonima (double blind peer review) che prevede la selezione da parte di almeno due esperti internazionali negli specifici argomenti.

Per il numero 6, anno 2020, la procedura di valutazione dei contributi è stata affidata ai seguenti revisori:

Fabrizio Agnello, Marcello Balzani, Salvatore Barba, Carlo Bianchini, Fabio Bianconi, Stefano Brusaporci, Pedro-Manuel Cabezos Bernal, Massimiliano Campi, Cristina Candito, Laura Carnevali, Emanuela Chiavoni, Massimiliano Ciammaichella, Alessandra Cirafici, Paolo Clini, Roberto de Rubertis, Laura Farroni, Federica Maietti, Giovanna Massari, Pina Novello, Ivana Passamani, Maria Elisabetta Ruggiero, Graziano Mario Valenti.

Le traduzioni in inglese dell’editoriale e dei saggi di Arduino Cantàfora, Franco Purini, George Tatge, Michele Dantini, Marco Tortoioli Ricci, Enrica Bistagnino e Maria Linda Falcidieno, Lia Maria Papa sono di Elena Migliorati.

Pubblicato in giugno 2020 ISSN 2533-2899 Direttore responsabile

Francesca Fatta, Presidente dell’Unione Italiana per il Disegno Editor in Chief

Alberto Sdegno Journal manager Enrico Cicalò

Comitato editoriale - indirizzo scientifico

Comitato Tecnico Scientifico dell’Unione Italiana per il Disegno (UID) Giuseppe Amoruso, Politecnico di Milano - Italia

Paolo Belardi, Università degli Studi di Perugia - Italia Stefano Bertocci, Università degli Studi di Firenze - Italia Mario Centofanti, Università degli Studi dell’Aquila - Italia Enrico Cicalò, Università degli Studi di Sassari - Italia Antonio Conte

Antonio Conte, Università degli Studi della Basilicata - Italia, Università degli Studi della Basilicata - Italia Mario Docci,

Mario Docci, Sapienza Università di Roma - Sapienza Università di Roma - Italia Edoardo Dotto, Università degli Studi di Catania - Italia Maria Linda Falcidieno, Università degli Studi di Genova - Italia

Francesca Fatta, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria - Italia Fabrizio Gay, Università Iuav di Venezia - Italia

Andrea Giordano, Università degli Studi di Padova - Italia Elena Ippoliti, Sapienza Università di Roma - Italia Francesco Maggio, Università degli Studi di Palermo - Italia Anna Osello, Politecnico di Torino - Italia

Caterina Palestini, Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara - Italia Lia M. Papa, Università degli Studi di Napoli “Federico II” - Italia

Rossella Salerno, Politecnico di Milano - Italia Alberto Sdegno, Università degli Studi di Udine - Italia Chiara Vernizzi, Università degli Studi di Parma - Italia

Ornella Zerlenga, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” - Italia Membri di strutture straniere

Caroline Astrid Bruzelius, Duke University - USA

Glaucia Augusto Fonseca, Universidade Federal do Rio de Janeiro - Brasile Pedro-Manuel Cabezos Bernal, Universitat Politècnica de València - Spagna Pilar Chías Navarro, Universidad de Alcalá - Spagna

Frank Ching, University of Washington - USA Livio De Luca

Livio De Luca, UMR CNRS/MCC MAP, Marseille - Francia , UMR CNRS/MCC MAP, Marseille - Francia Roberto Ferraris, Universidad Nacional de Córdoba - Argentina Ángela García Codoñer, Universitat Politècnica de València - Spagna Pedro Antonio Janeiro, Universidade de Lisboa - Portogallo

Michael John Kirk Walsh, Nanyang Technological University - Singapore Jacques Laubscher, Tshwane University of Technology - Sudafrica Cornelie Leopold, Technische Universität Kaiserslautern - Germania Carlos Montes Serrano, Universidad de Valladolid - Spagna César Otero, Universidad de Cantabria - Spagna

Guillermo Peris Fajarnes, Universitat Politècnica de València - Spagna José Antonio Franco Taboada, Universidade da Coruña - Spagna

diségno

Rivista semestrale della società scientifica Unione Italiana per il Disegno fondata da Vito Cardone

n. 6/2020

http://disegno.unioneitalianadisegno.it

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5 Francesca Fatta

8 Arduino Catàfora

20 Oscar Piattella 21 Paolo Belardi

27 Franco Purini

35 António Bandeira Araújo Lucas Fabián Olivero

Adriana Rossi 47 Fabrizio Gay

Irene Cazzaro 59 Camilla Casonato

73 George Tatge 81 Ornella Zerlenga 95 Marta Salvatore

111 Michele Dantini 123 Francesco Maggio

Stefano Dell’Aria 135 Paolo Borin

Cosimo Monteleone Rachele A. Bernardello Angelo Gazzetta Carlo Zanchetta

6.2020 diségno

Editoriale Copertina Una scatola di latta Immagine L’albero del diségno L’albero del diségno

RIFLESSIONI. L’ARTE DEL DISEGNO/IL DISEGNO DELL’ARTE Pensare

Note casuali e provvisorie sul disegno

A Descriptive Geometry Construction of VR panoramas in Cubical Spherical Perspective

Disegnate riflessioni e riflessioni sul Disegno:

le “anti-prospettive” degli astrattisti e dei realisti ai VchuTeMas

Disegnare per conoscere: anatomia, meccanica e architettura nei disegni di Viollet-le-Duc Conoscere

La fotografia metaforica

Teatri napoletani. Fonti iconografiche e realtà costituite a confronto

Prospettici ingegni. Strumenti e metodi per la costruzione della prospettiva applicata Immaginare

«Esattezza» nei territori dell’«intuizione». Paul Klee al Bauhaus Immaginare la ‘ricostruzione’. Un piccolo manuale sulla casa popolare Tra disegno e simulazione: una ricostruzione digitale del progetto dei Musei Civici di Padova di Maurizio Sacripanti

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161 Marco Tortoioli Ricci 169 Tommaso Empler

Alexandra Fusinetti 179 Marta Magagnini

Nicolò Sardo

191 Alberto Bravo de Laguna Socorro

205 Enrico Cicalò

215 Enrica Bistagnino Maria Linda Falcidieno 217 Alessandra Pagliano 220 Alessandro Luigini 223 Alberto Sdegno

Veronica Riavis

227 Giuseppe Amoruso 231 Lia M. Papa 235 Camilla Casonato 239 Graziano Mario Valenti 242 Alessio Cardaci 245 Ornella Zerlenga 251

Comunicare

Il disegno della comunicazione. La base di ogni identità è fatta di lettere Rappresentazione a rilievo nei percorsi museali

Figure in superficie. Apparati murali tra contesto e narrazione

Sobre dibujos, diagramas y comunicación en arquitecturas colectivas y de acción.

Tres manuales como referencias gráficas

RUBRICHE

Letture/Riletture

The Elements of Drawing di John Ruskin. Il disegno tra arte, scienza, design e didattica nell’Inghilterra del XIX secolo Una ciudad con sentido.

Recensioni

Livio Sacchi (2019) Il futuro delle città. Milano: La nave di Teseo

Laura Farroni (2019). L’arte del disegno a Palazzo Spada. L’Astrolabium Catoptrico-Gnomonicum di Emmanuel Maignan. Roma: De Luca editori d’arte

Gilles Clément (2019). Breve trattato sull’arte involontaria. Testi, disegni e fotografie.

Roma-Macerata: Quodlibet

Domenico Mediati, Saverio Pazzano (2019). M.C. Escher in Calabria. Memorie incise di un viaggiatore olandese. Cosenza: Rubbettino Editore

Eventi

Geometrias’19 Polyhedra and beyond. La geometria del disegno

Cortona tra archeologia ed architettura. Rilievi digitali e patrimoni documentari BIM, Augmented, Virtual e Mixed Reality. Un brainstorming al Politecnico di Milano Simposio UID per l’internazionalizzazione della Ricerca 2019

Rip, Model & Learn: dialoghi interdisciplinari sul rilievo e la modellazione 3D per l’architettura e i beni culturali OLIVETTI@TOSCANA.IT. Territorio, Comunità, Architettura

La biblioteca dell’UID

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Editoriale

Francesca Fatta

Ad aprile di quest’anno finalmente è giunta la notifica da parte dell’ANVUR che la rivista diségno è stata inclusa tra le riviste scientifiche dell’area 08 fin dal primo numero.

Per la nostra società scientifica questo è il primo dei tra- guardi che ci eravamo ripromessi, a tutto vantaggio della ricerca e delle attività scientifiche del Disegno, rimarcate fin dal primo editoriale di Vito Cardone del 2016 in cui scriveva «Il processo di progettazione della nuova rivista è stato lungo e molto meditato. È stato messo a punto, a seguito della decisione di fondare la rivista, deliberata dal Comitato Tecnico Scientifico della UID nella seduta di novembre 2016, da uno specifico Gruppo di lavoro

del Comitato stesso, tenendo conto pure dei numero- sissimi suggerimenti pervenuti da vari colleghi dopo che fu annunciata l’importante scelta» [Cardone 2017, p. 6].

Un ringraziamento sentito va all’impegno del suo fonda- tore, al lavoro del comitato editoriale di coordinamento e di tutto lo staff che si è impegnato con grande rigore, adottando tutte le direttive ANVUR richieste da una rivista “scientifica”.

Il numero 6 è dedicato agli approfondimenti del 41°

Convegno UID Riflessioni / Reflections organizzato dai

docenti delle Discipline della Rappresentazione della

sede dell’Università di Perugia.

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L’incontro che si è svolto nei giorni 19, 20 e 21 Settembre 2019, con la responsabilità scientifica di Paolo Belardi e Roberto de Rubertis, ha registrato un vero record di pre- senze (oltre trecento) di cui, circa la metà, giovani studiosi, dottorandi e dottori di ricerca.

Si è trattato di un convegno ispirato al senso della rifles- sione, sia tangibile che intangibile, che segna la presenza congiunta – riflessa – dell’Università di Perugia e dell’Ac- cademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia.

Il tema del convegno, in questo continuo rimando tra l’ar- te del Disegno e il disegno dell’Arte, ha inteso mettere a fuoco un principio di dualità che regola le relazioni tra il disegno e quattro diversi soggetti: pensiero, conoscen- za, immaginazione e comunicazione. Il meccanismo della dualità che a primo sguardo può sembrare riduttivo, quasi un gioco predestinato, in realtà cattura la mente e si apre a molte altre “riflessioni”.

Il volume si apre con un testo dalle note intimiste di Ar- duino Cantàfora, tratto da Passaporto per la vita (Marinot- ti, Milano 2009). L’architetto artista, premiato con la Targa d’oro UID 2019, entra nel merito dei temi del convegno trattando del tempo della riflessione. «Il tempo della ri- flessione e quindi della conseguente rappresentazione, se pur costruito sulla cronologia, non è solo questo; si carica d’investimenti progettuali interpretativi e si trasforma im- mediatamente in tempo memore». Le immagini che ac- compagnano il saggio sono rappresentazioni “visionarie”

dell’autore relative a spazi domestici e città senza tempo.

Segue il commento di Paolo Belardi al disegno che il ma- estro Oscar Piattella ha realizzato espressamente per la nostra associazione in occasione della mostra dell’artista Nel Di-Segno del Colore allestita nella suggestiva Rocca Pa- olina. La dedica “Alla UID il segno per il ‘disegno’ dell’al- bero”, vuol essere una metafora augurale che considera il nostro aggregarci come una pianta che va crescendo e va coltivata con cura e sapienza.

I quattro focus si inaugurano con le relazioni di altrettanti quattro keynote speakers che aprono ad ampi punti di vista il tema delle “riflessioni” e danno il giusto respiro scientifico che fa da ponte tra arte, scienza e disegno.

Il primo, “Pensare”, si apre con un intervento di Franco Purini dal titolo Note casuali e provvisorie sul disegno. Egli sostiene che «Il disegno di architettura è […] anche uno strumento, ma in prima istanza è lo spazio in cui l’idea di architettura si rivela al suo autore e a coloro che vivran- no le architetture che il disegno definisce. Disegnare ci fa scoprire non solo ciò che appare ai nostri occhi ma

rivelandoci al contempo ciò che è sconosciuto, indefinito, transitorio».

Per il secondo focus, “Conoscere”, interviene George Tat- ge che con i suoi scatti fotografici celebra i riflessi che pos- sono essere colti nella quotidianità umana: «Mi piace l’in- definito, la sconfinatezza. Mi piace l’incertezza continua».

Michele Dantini apre il focus “Immaginare” con il testo

«Esattezza» nei territori dell’ «intuizione». Paul Klee al Bau- haus , nel quale si analizza il percorso dell’artista tedesco verso il «meraviglioso», con attenzioni tra ricerche otti- co-percettive e realtà riflesse, rarefatte da luci ed atmo- sfere.

Il quarto focus “Comunicare”, infine, è introdotto dal de- signer della comunicazione visiva Marco Tortoioli Ricci che ci da un quadro storico sul lettering «come centro di ogni progetto di identità, di ‘branding’ se si preferisce, partendo dal disegno di quelle lettere dal sapore imma- ginifico, ancora ricche di quell’eclettismo che permeò il passaggio tra XIX e XX secolo».

Per ogni Focus seguono le versioni estese dei contributi selezionati tra quelli che hanno conseguito le valutazioni più alte da parte dei referee del Convegno più quelli pre- miati come best paper di ciascun focus. Una volta raccolti i nuovi abstract, questi sono stati sottoposti ad un ulte- riore doppio referaggio, e quindi si sono selezionati quelli ritenuti più meritevoli.

Per le rubriche, in tema con le trattazioni del convegno, Enrico Cicalò, cogliendo l’occasione del bicentenario della nascita di Ruskin, propone la rilettura del classico, The Ele- ments of Drawing , un “manuale di disegno” che ci riporta alle teorie Art and Craft del disegno tra arte, scienza, desi- gn e didattica nell’Inghilterra del XIX secolo.

Enrica Bistagnino e Marialinda Falcidieno hanno curato la recensione del volume di Livio Sacchi Il futuro delle città

(La nave di Teseo 2019), Alessandra Pagliano, ha recensi- to il volume di Laura Farroni L’arte del disegno a Palazzo Spada. L’Astrolabium Catoptrico-Gnomonicum di Emmanuel Maignan (De Luca 2019); Alessandro Luigini, propone la recensione di Gilles Clément Breve trattato sull’arte involontaria. Testi, disegni e fotografie (Quodlibet 2019); e Alberto Sdegno e Veronica Riavis, hanno curato la recen- sione del volume di Domenico Mediati e Saverio Pazzano, M.C. Escher in Calabria. Memorie incise di un viaggiatore olandese (Rubbettino 2019).

Naturalmente sono stati tanti gli appuntamenti tra semi-

nari e convegni che si sono svolti tra la seconda metà del

2019 e l’inizio del 2020; Giuseppe Amoruso, interviene

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sul convegno Geometrias’19 Polyhedra and beyond, orga- nizzato da Aproged, Associazione degli insegnanti di geo- metria e disegno in Portogallo; Lia Maria Papa ci relaziona sul seminario Cortona tra archeologia ed architettura. Rilievi digitali e patrimoni documentari , curato da Paola Puma, dipartimento DiDA dell’Università di Firenze; Camilla Casonato tratta della Giornata di studi 2nd Brainstorming BIM, VR, AR, MR , curata da Cecilia Bolognesi, Fausto Brevi e Daniele Villa del Politecnico di Milano; Graziano Valenti tratta del II Simposio dei Docenti della Rappresentazione per lo sviluppo di programmi multidisciplinari orientati all’In- ternazionalizzazione , organizzato a Matera da Antonio Conte e Stefano Bertocci; Alessio Cardaci ci riferisce del Simposio Rip, Model & Learn: dialoghi interdisciplinari sul ri- lievo e la modellazione 3D per l’architettura e i beni culturali , organizzato da Carlo Bianchini, direttore del Dipartimen- to DSDRA ‘Sapienza’ Università di Roma; infine Ornella Zerlenga racconta della mostra OLIVETTI@TOSCANA.IT Territorio, Comunità, Architettura nella Toscana di Olivetti , or- ganizzata da Marco Giorgio Bevilacqua per la sede di Pisa.

In questo editoriale vorrei ricordare ancora due fatti importanti che riguardano la UID. Nell’occasione dell’as-

semblea dei soci che si è svolta il 18 settembre a conclu- sione del convegno, nella splendida Sala de’ Notari si è approvato all’unanimità il nuovo Statuto dell’Unione Ita- liana per il Disegno e il conseguente Regolamento della Associazione; un lavoro che è durato circa sei anni e che è stato portato a termine sotto la responsabilità di un gruppo di lavoro guidato da Mario Centofanti. Questo passaggio formale alla fine ci ha resi più forti e uniti, chia- rendo la nostra storia oramai quarantennale e definendo ancora meglio il percorso che ci attende.

Infine, la grande partecipazione dei giovani che ha carat- terizzato il 41° convegno UID ci ha portato a riflettere su questo importante patrimonio generazionale che va col- tivato e incentivato. Per questo a novembre si è lanciato il primo bando UID 2.0-3.0., concorso per le attività cultu- rali riservato esclusivamente per gli associati aderenti, da svolgersi per l’anno 2020 con l’intento di coinvolgere una generazione sempre più ampia e rappresentativa, invitan- do a proporre una loro visione del futuro delle discipline della Rappresentazione e dell’area del Disegno. Il bando si è espletato entro la fine del 2019 e adesso attendiamo gli esiti finali da parte dei vincitori.

Riferimenti bibliografici

Cardone, V. (2017). Editoriale. In diségno n. 1, pp. 5-8.

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Una scatola di latta

Arduino Cantàfora

Che sia stata la lontananza nella quale ora mi trovo, che sia stata la specificità di questa casa, di questa via, del nome di questa via, a impormi i vagare notturni, con i quali da un po’ di tempo ho preso l’abitudine a coabitare?

Chi o cosa sia il veritiero autore di questo scritto non riuscirò a stabilirlo e se all’inizio ho potuto ancora azzar- dare l’illusione di autonome scelte, è stato sufficiente, vi- ste correre poche decine di pagine, per rendermi conto che, lentamente o in un rapido precipitare, la gestione di un ferreo controllo dei contenuti non posso più ga- rantire di tenerla.

Il defunto professore di latinità, abitante gli impiantiti della casa, che ora io, al suo posto, sto calcando, mai avrei potuto immaginare che fosse in grado di aprirmi una necessaria ricognizione sui protagonisti e sulle ansie della mia vita.

Per riempire la sua ombra, che mi resterà in ogni caso di una vaghezza assoluta, altre ombre hanno forzato la soglia della mia veglia e, in un precipitare degli eventi, si sono accalcate fra le mura di questa stanza.

Dalla lontananza del ricordo, per anni sopito, hanno rias- sunto fluttuante e al contempo vaga certezza di presenza.

«Un pensiero per me!»

Mi stanno dicendo, guardandomi un poco melanconici.

«Resta ancora un attimo, non te ne andare, lasciami rac- contare.»

Ma mi sento nel dubbio e nella sofferenza, per non per- cepire un rassicurante dialogo fra di loro. Non sento il suono della voce, di un incontro ripreso, come quando, allora, ero fra ciò che stavano vivendo.

Fossi almeno riuscito a trasformarmi nel moderatore di un’assemblea, nella quale ciascuno potesse raccontare

Lectio magistralis, non sottoposta a revisione anonima, pubblicata con responsabilità della direzione.

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per sé e per tutti gli altri brani significanti, per ricomporre una loro pace, perché di cose da mettere in ordine ne avrebbero ancora molte.

Assolutamente nulla.

Mi pare che arrivino neppure a vedersi. Si trapassano con i reciproci sguardi in una indifferenza totale di ciò che all’altro è accaduto.

«Ma come! – dico io – Mi sembra di ricordare che vi siate voluti anche bene. Com’è possibile che non vogliate ora ricordarvene!»

«Guardatevi almeno un momento negli occhi. Se non vo- lete parlare, almeno uno sguardo!»

Nulla da fare. Stanno tutti con gli occhi puntati su di me e pure accostati gli uni agli altri, non si sono scambiati una sola occhiata.

«Zia Angelina, tu che sei stata sempre così buona, dì una sola cosa alle tue nipoti. Diglielo ora: è stato nulla. Attra- verso questo perdono hai perdonato tutti gli altri e hai capito il precipitare delle situazioni.

Una malattia insostenibile.

Impossibile, ne convieni, rientrare a casa, e se poi soffristi in modo indegno durante gli ultimi mesi della tua vita, obbligata sull’orrore di quel lettaccio, legata come una cosa molesta, con le lacrime che ti rigavano le guance, non porti rancore.»

«Se non vuoi dirlo per loro, dillo per me e dammi un po’

di pace.»

Ma poi domando a me stesso: quale diritto ho io di chie- derglielo, cosa ho mai io fatto per lei che lo giustifichi.

Posso solo ammutolire e ristare in silenzio.

E poi lei, come tutti gli altri, che in totale incoscienza ho convocato all’interno di questa stanza, avrà desiderato compiere un tale cammino, da me imposto? E anche se apparentemente si sono sciolti la lingua per farmi raccon- tare frazioni della loro vita, starò, in onesta verità, renden- do loro servizio?

A migliaia di chilometri distante, perché avrò mai dovuto scomodarli dal silenzio assoluto, là ove ora sono. Un si- lenzio per il quale non vi è modo di tornare indietro e da dove non si può andare avanti.

È certo che non possano parlare fra di loro, uomini, ani- mali e cose e pur ripassando attraverso il mio ricordo, mai più potranno essere.

In un’onesta riflessione, quel che posso io sentire, nella consapevolezza della sostanziale inutilità di questa convo- cazione, è la indubbia pertinenza al luogo nel quale si sta effettuando, a fragile sostegno di un mio pieno egoismo.

Fig. 1. A. Cantàfora, Ici les projets eux-mêmes sont souvenirs, 1985, olio su tavola, cm 30x40.

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Fig. 2. A. Cantàfora, Avec le temps I, 2016, vinilico + olio su tavola, cm 70x50. Fig. 3. A. Cantàfora, Avec le temps II, 2016, vinilico + olio su tavola, cm 70x50.

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Fig. 4. A. Cantàfora, Finestra I, 2012, vinilico + olio su tavola, cm 49,5x29,5. Fig. 5. A. Cantàfora, Finestra II, 2016, vinilico + olio su tavola, cm 49,5x29,5.

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Sarà sufficiente, per giustificarla?

Non è un esame, usciranno tutti a pieni voti.

Non mi permetterei mai di giudicarli, qui o altrove.

La via del margine del bosco e questa casa sono davve- ro un ambiguo microcosmo, veritiero ricettacolo di tutto quello che vi si vuole immettere.

L’ho appreso, dopo quel primitivo sconcerto dell’essere lì che mi aveva obbligato a muovermi con estrema cautela.

Sono l’una e l’altra sgangherate e sufficientemente sciatte.

Non possono permettersi preclusioni di sorta.

Nello sconfinato disordine che le frequenta, non potreb- bero neppure accorgersene.

E forse è proprio questo caotico non luogo ad avermi stimolato una patetica ricognizione intorno alle origini di me stesso.

Ma, forse, sto solo cercando di rimettere un poco di ordi- ne, fra i cocci di più vite, che mi sono piovuti addosso, per averli voluti ascoltare e per dare un possibile senso alla mia, quasi stessi giocando al lavoro di Angelino.

Lui, insieme a tutti gli altri fantasmi che, tra le pareti di questa casa, stanno risimulando una vita dell’impossibilità di essere.

Esattamente come l’avevano vissuta da vivi.

Sto cercando una concentrata precisione, perché, in pie- na evidenza, servirà a nulla.

Quello che è stato è stato e la medesima acqua non ritornerà a scorrere sotto lo stesso.

E nel nome della via, complice del senso della casa, colgo l’opportunità di un vasto vagare che si associa, per altri indizi, ad altri contenuti eccentrici e pur puntuali che essa stessa potrebbe significare. Come è dello spazio dome- stico nel quale vivo.

I nomi attribuiscono carattere alla sostanza che evocano e se abito la via del margine del bosco, il contenuto è dichiarato dall’intrinseco significato del vivere sul limite della frontiera. Territorio di ambiguo scambio, come è di tutte le soglie.

Non mi importa, se ora non ne vedo la scomparsa distin- zione. È il nome che ascolto.

So di vivere là dove due ordini esistenziali, lungo la linea di confine, sono entrati in contatto conflittuale.

Dalla parte di qua vedo le strade che frequento, perché nelle città si ha diritto di scelta e di appartenenza: è lecito avere idee molto precise.

Mi piacerebbe scrivere un giorno sulle geografie urbane di affezione, sfortunatamente solo le mie, non avendo al- cuna possibilità per generalizzarle.

E così me le rappresento.

Vedo anche, come per ogni città, pagine di tristezza, dall’ottusità all’ingiustizia, dall’arroganza alla sofferenza, nell’ampia gamma di sfumature, così tipiche delle manife- stazioni umane e vi coabito.

E vedo il tempo della città e il tempo della natura che le sta intorno o che artificiosamente abita in essa. Capi- sco che sono differenti e al contempo intimamente legati, perché l’uno e l’altro, il tempo della città e il tempo della natura, ci situano il primo nella storia, il secondo nell’esi- stenza: le due facce del nostro essere umani.

Il tempo della storia vorrebbe essere per sempre, nel significato di semper, ad imperitura memoria e il tempo è tempus : il chiodo, clavus, infisso nella parete del tempio di Giove Massimo, al tempo delle Idi di Settembre, «perché era antica legge scritta con caratteri e parole arcaiche che nelle Idi di Settembre fosse infisso un chiodo nel lato destro nel tempio di Giove Massimo, dalla parte del tabernacolo di Minerva». Così in Livio.

I chiodi sono lì a rammentare gli anni che passano e con essi gli eventi della comunità, autorappresentata nella sto- ricità, per dare rilievo a episodi da ricordare per sempre.

Non è proprio così, anzi, è niente affatto così, è un con- tinuo sforzo di traduzione, altrimenti si perde tutto in un attimo e i chiodi restano lì a rappresentare più nulla.

I chiodi vanno bene quando riescono a trasformarsi in altrettanti canovacci per attori ben esercitati nella “com- media dell’arte della vita” che, su quel passato, riescono a significarsi.

Improbabili i cammini con salti nel buio, dimenticato il senso originario e fondatore delle cose.

Memoria precede Storia, è come memini: mi ricordo, voglio ricordare, è mneme, personificata da Mnemosi- ne, è anamnesis, come la confessione dei propri guai che struttura ancora la prima tappa del rapporto pa- ziente-medico.

Il tempo della riflessione e quindi della conseguente

rappresentazione, se pur costruito sulla cronologia, non

è solo questo; si carica di investimenti progettuali in-

terpretativi e si trasforma immediatamente in tempo

memore. E ogni volta tutta la retorica delle passioni

umane riappare come in un lampo e riappare pure tut-

to il nostro apparato linguistico verbale che, se ben si

costruisca sui tempi delle certezze di ciò che è e di ciò

che è già stato, è pure riempito di periodi ipotetici. Del

periodo ipotetico i Latini ne facevano una trilogia, e ci

ricordiamo bene di averla caramente pagata sui banchi

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di scuola con deturpanti segnacci blu sui timidi fogli dei nostri compiti consegnati.

Lo spettro della consecutio temporum si nascondeva die- tro la realtà, la possibilità e l’irrealtà. Consecutio temporum, la corrispondenza dei tempi verbali, come a dire che il numero dei chiodi si struttura almeno su tre livelli.

Fra tutti i possibili fili rossi di connessione abita il tempo della riflessione che può avere una durata infinita o risol- versi in un istante.

Rifletto e rappresento le cose nella pienezza del tempo del pensiero.

Fig. 6. A. Cantàfora, Teatri di città I, 2014, vinilico + olio su tavola, cm 80x120.

Sarà sempre un istante dopo, non potrà mai essere diret- to, non sarà mai la cosa, ma solo una possibile riflessione sulla cosa: una ipotesi.

È un mondo di specchi, come nella catottrica, il contenu- to della riflessione. E gli specchi, comunque li si lucidino, resteranno sempre un poco deformanti.

Certo, possiamo camminare per le vie della città comple-

tamente distratti o assorti in mille urgenze contingenti,

possiamo andare da un punto A ad un punto B per la

strada più corta, ignorando tutto ciò che incontriamo,

possiamo anche diventare dei professionisti dell’indiffe-

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Fig. 7. A. Cantàfora, Teatri di città II, 2014, vinilico + olio su tavola, cm 80x120.

renza, ma arriverà, prima o poi, il momento nel quale, sollevando lo sguardo, la incontreremo, lei, la città, e in- terrogandola ci interrogheremo e riconoscendo l’enor- me cantiere di fatiche accumulate, capiremo la sua anima profonda e come lo spazio e il tempo, in lei, queste fati- che raccontino.

Al di qua e al di là della grande Storia, sebbene essa esi- sta, penso alla piccola storia in cui tutto lentamente si metamorfosa e che dà conto di impossibili libri mai scritti.

E l’osservatore distratto si accorgerà delle luci e delle ombre che la abitano, come in un volto, e si accorgerà

delle sue incertezze e pure delle sue pieghe amare, come ancora in un volto. E si accorgerà della successione nel cuore stesso della simultaneità e proverà un brivido per la schiena, perché in un attimo coglierà in una intuizione irripetibile la complessità inestricabile delle sovrapposi- zioni e delle giustapposizioni.

Il tempo della sua intuizione gli paleserà, come d’incanto, l’altro tempo: quello della durata della storia.

A questo punto si smarrirà e (o) cambierà vita o non

solleverà mai più lo sguardo per incontrarla franco e

si lascerà cullare distrattamente dalle mode dell’idea di

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progresso, basate su luoghi comuni come globalizzazione, unificazione dei linguaggi per inevitabili fattori economici e modi di vita. Si troverà convinto assertore, senza nep- pure sapere il perché della sostituzione al posto della me- tamorfosi, che è il solo vero inevitabile e fatale incontro tra le genti. Ma la metamorfosi ha i ritmi dell’esistenza e non quantifica l’avere a scadenza immediata. Vivrà sem- pre più nella temporaneità, nel sempre più presto, vorrà tutto immediatamente, ancora prima di avere espresso il desiderio. Sognerà di trasferirsi da un luogo all’altro in un baleno. Dove arriverà, lascerà traccia di sporco e non se ne darà poi tanta pena. Si trasformerà in un tumore invasivo perché vorrà essere comunque e ovunque; dap- pertutto il suo modello sarà il migliore e che gli altri si sveglino se non l’hanno ancora capito!

Ma non dovrebbe essere così, perché tutta la bellezza del nostro essere umani risiede proprio nell’incontro dei tipi e nella migrazione paziente dei linguaggi.

Il tipo è metastorico concettualmente e nella sua poten- zialità applicativa. Per tutti i tipi è possibile ripercorrere un cammino che è per definizione dialettico e in cui ciascu- no si può sentire appartenente.

La risposta dall’altra parte, assolutamente coerente e fi- glia della stessa arrogante indifferenza, è la monocultura agricola, assassinio perpetrato sul territorio.

Sono cosciente che siamo oramai molto lontani dall’equivalenza dell’etimo urbs: città e urbum: aratro, come a dire che la città era fondata dai suoi propri agricoltori e che esisteva una coerenza irripetibile tra ogni città e il suo proprio territorio. Lo so, tutto questo non è più. E non è questione di rimpiangerlo, anche se non era brutto vedere arrivare di primo mattino gli ortolani dalle ortaglie che si estendevano appena là fuori porta, tra rogge e fontanili, sulla grassa terra del- la pianura lombarda. Arrivavano con i loro cavallini dal trotto allegro delle sonagliere. Noi stavamo andando a scuola e la maestra ci avrebbe mostrato il ciclo vitale di un chicco di grano.

Era una lezione semplice e fondamentale, ma era anche una lezione molto difficile, profondamente etica e dava forma al senso della vita.

La natura non ha nulla a che vedere con la storicità, ci de- finisce il senso dell’eterno ritorno e il piacere dell’aspet- tativa. Di quell’aspettativa per cui le cose si ripropongono identiche a loro stesse pur nell’irripetibile unicità di ogni soggetto: è la platonica “immagine mobile dell’eternità” in cui si situa il tempo dell’esistenza.

Se la storia è presenza di memorie, la natura è ripetizione e rinnovamento, alimenta l’altro bisogno di memoria in noi insito: l’attesa puntuale dell’apertura, ogni volta, della corolla di quel fiore.

Natura e storia, territorio agricolo e città fondano il pa- esaggio o l’avevano fondato nella capacità reciproca di situare il senso dell’infinito.

La città è dentro il paesaggio, come i giardini sono pae- saggio dentro la città, vale a dire nel tempo senza ritorno della storia.

La natura ha altri chiodi nel tempio-tempo di Giove Mas- simo o ha un solo unico grande chiodo all’inizio di tutto, prima di tutto e dopo di tutto, per il quale, noi umani, rap- presentiamo in ultima analisi un accidente insignificante.

È solo per il nostro bene che ci conviene ripetercelo in continuazione, perché se la natura può tranquillamente sopravvivere senza storia, la storia non può essere senza natura.

La vita ci ha preceduto e ci seguirà comunque; tutto apparirà come una rovina per altri spettatori, comple- tamente indifferenti all’ansia della nostra scienza e della nostra retorica delle passioni.

La terra vive da quattro miliardi e settecento milioni di anni, ce lo dice la scienza, quella in cui noi oggi crediamo, io non so se siano tanti o pochi, rispetto alla vita dell’uni- verso, non riesco neppure a figurarmeli, quello che so, ed è ancora la scienza e la storia a dircelo, è che, se diamo valore di ventiquattro ore a quei quattro miliardi e set- tecento milioni di anni della vita della terra, la presenza del nostro mondo, fondato dall’homo sapiens, il mondo della storia, il mondo del nome delle cose, il mondo dei chiodi nel muro, non è calcolabile in più di un decimo di secondo.

Un decimo di secondo “traurigfroh”, disperato e gioioso, visto che ne è cosciente.

E qui, nella via del margine del bosco, indirizzando lo sguar- do sul versante opposto, abbandonato l’affannoso bruli- chio della città, della cultura della città, tra le sue luci e le sue ombre, m’immagino che dalla parte di là fosse il regno della natura, della voce profonda della necessità, nei meandri boschivi istituita, dove il procedere labirintico era condizione intrinseca dell’avanzare, a meno di essere in grado di recuperare i codici di segni riconoscibili, come l’animale sa.

Al suo interno, nel cuore della macchia, abita il mistero

dell’altra vita. Per secoli, chi vi si è avventurato, l’ha fatto a

suo rischio e pericolo. Nella foresta l’uomo occidentale si

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Fig. 8. A. Cantàfora, Domenica, 2006, vinilico + olio su tavola, cm 80x120.

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è mosso non seguendo sempre un ordine razionale ma, quasi in preda ad un delirio, pensando solo che l’unica attività possibile, a giustificazione di tutti i pericoli cui lui andava incontro, fosse la rapina.

Per generazioni, l’una dietro l’altra, il nostro mondo, vi ha creduto.

Nella foresta non era rinvenibile la luce intelligibile, per- ché noi, nelle nostre paure, non riuscivamo a vederla, in un’ingiustizia di fondo, sovrapponente l’oggettivo perico- lo fisico, per la fragilità del nostro essere, a quello più ambiguamente sottile delle allegorie spirituali che, al suo interno, trovavano espressione di tutto il male possibile.

Non a caso Dante intraprende il suo viaggio là, nel cuo- re di quella selva oscura, per fatti relativi al suo dram- ma spirituale, trovando in quell’immagine la più consona evocazione del luogo della paura e non dello strutturato equilibrio che, al di là della mano umana, riesce a meravi- glia a sopravvivere, come sempre è stato.

Fatalmente la diritta via, con siffatto pensiero, è smarrita, per non essere più in grado, da parte nostra, a intenderla.

Tutto il patrimonio delle leggende lo racconta.

Nelle foreste s’incontrano tesori custoditi da draghi e solo grazie all’astuzia che permette di ucciderli se ne sortirà, dopo mille peripezie, con le tasche ricol- me d’oro. Anzi, per essere più precisi, le peripezie precedono sempre l’uccisione. A cose fatte, tutti gli impossibili cammini dell’avvicinamento, come per in-

canto si dissolveranno e dalla foresta se ne uscirà in un battibaleno.

La foresta è stata relegata a significare il buio delle co- scienze, per un contraddittorio senso di colpa, a copertu- ra di tutto il male che le è stato portato.

E nelle tipiche inversioni simboliche, velanti la verità del dove in realtà abiti il male, essa stessa da innocente è diventata l’incarnazione del peccato e della colpa.

Vi passeranno così giustificati eroi che la dovranno per- correre in lungo e in largo, dotati di incantate spade per sconvolgerla. Giustizieri, nella sostanza, di un indicibile che, per essere sinceri, abita più in noi che fuori di noi.

Ma grazie all’alibi costruito attraverso essa, la grande do- manda potrà spostarsi in un esterno, per accusare chi colpa non ha.

Nella nostra tipica concezione dell’idea d’infezione, pro- durremo piccoli mostri nelle provette dei laboratori del pensiero, per diffonderli nel buio della notte, al limitare dei suoi confini.

In un imprevedibile intervallo temporale immagineremo, dimentichi di averli noi stessi introdotti, che siano diven- tati enormi e pericolosissimi e che, da sempre, lì abbiano abitato e che sia giunto il momento di affrancarsi da quel- la mostruosa schiavitù, per liberarci in un atto di santa sal- vazione. Solo così si potrà bloccare l’orrore della pretesa d’indegni sacrifici cruenti, di una crudeltà inimmaginabile, che loro continuano a richiederci.

Fig. 9. A. Cantàfora, Domenica pomeriggio I, 2006, vinilico + olio su tavola,

cm 80x120. Fig. 10. A. Cantàfora, Domenica pomeriggio II, 2006, vinilico + olio su tavola,

cm 80x120.

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Ma sarà poi vero?

Da dove il male?

Da chi sa covarselo nell’anima.

E messo in atto un cammino, indietro non si può tornare.

Questo è il veritiero senso del destino.

Fino a quel momento dovranno prendere corso, ogni anno, in date prestabilite, sofferenze e pianti di giovani innocenti da offrire al drago e alla buia macchia di alberi e di rocce, dalla quale lui sortirà, in quel giorno, per pre- tendere secondo il patto prestabilito, ciò che gli è dovuto.

Il primo rapporto con queste atmosfere, cariche di ri- catti oscuri, lo ebbi proprio tra le pieghe delle messe in scena di zio Gaetano il cui carattere protoromantico sembrava proprio essere fatto per mantenerle vive e la cancellatura del volto di “Mezz’ommene” nasconde- va la mostruosità delle richieste di quell’entità a mezza strada fra l’umano e il bestiale, vero protagonista della zona d’ombra, del limitare e del confine. Mi piacerebbe veramente molto, ora, potermi ricordare per filo e per segno della complessità dei drammi oscuri che l’imma- ginazione dello zio riusciva a mettere in atto, dove, re e principesse, scudieri ed eroi, coabitavano sulla piccola scena delle sue invenzioni e soprattutto mi piacerebbe riascoltare l’interloquire del pubblico familiare che se- guiva con pari partecipazione le mie inquietudini con le unghie calcate nella pelle del ginocchio.

« Ma vattene, Gaeta’…»

Soprattutto se pareva loro che la mia tensione divenisse eccessiva.

E al mattino, rivedendo le figuranti marionette nello sca- tolone che era la loro casa e dalla quale riemergevano solo durante i miei soggiorni romani, mi stupivo che quell’ammasso di legni e di tessuti multicolori potesse, nel gioco della scena, divenire materia viva, così piena e così emozionante.

Di quella scatola mi resta dolcissimo ricordo e non posso più stabilire quanto vi abbia poi aggiunto io nel tempo, per accrescerne i contenuti. Ripensandovi, vi vedo im- presso nello smalto della latta colorata il tendone di un teatro, con un proscenio aggettante, negli assiti posati. Il telone circolare nella campitura bianca e blu si animava sotto i colpi del vento, e si animava pure una bandierina rossa, ondeggiante sotto le improvvise folate.

L’intorno rievocava un paesaggio da laguna.

In un campo retrostante, l’abside di una chiesa, sboc- concellato tra la ramaglia di un roveto, si affondava in un terreno vago, ricolmo di frammentati ruderi e nel primo piano, pur esso ricolmo di rovine, quattro personaggi dai bizzarri copricapo seguivano il moto di una gazza che da uno di quei capitelli, per metà scomparso nella terra, li guardava, come dell’insegnante gli allievi.

Il coperchio multicolore mi lasciava perplesso, non per- mettendomi di capire quale fosse stato l’originario conte- nuto, se di un’enorme quantità di biscotti o altro.

Fig.. 11. A. Cantàfora, Domenica pomeriggio III, 2006, vinilico + olio su tavola,

cm 80x120. Fig. 12. A. Cantàfora, Domenica pomeriggio IV, 2006, vinilico + olio su tavola,

cm 80x120.

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Autore

Arduino Cantàfora, Scuola politecnica federale di Losanna

Il testo qui riproposto è tratto da Arduino Cantàfora, Passaporto per la vita. Parte Seconda. Cap XI. Milano: Christian Marinotti edizioni 2009.

Ciò che sapevo, era l’attuale, racchiuso sotto un cielo di un celeste verdastro, animato da nubi dorate che si per- devano nella lontananza di una marina da palude.

Mezz’ommene e tutti gli altri, lì erano racchiusi, oramai da tanto tempo, da ben prima che io venissi al mondo e l’esordio di quel talento teatrale, zio Gaetano lo ave- va manifestato alle sorelle ai tempi della loro giovinezza, quando in loro aveva provocato le stesse tese reazioni che io ora stavo vivendo.

Il tempo trascorso, il contesto fortemente urbano roma- no, in un certo senso, dovevano avere attutito l’imma- nente urgenza dei contenuti di quel favolare, come pro- babilmente era stato ai tempi del loro Abruzzo lontano, tempi nei quali tutte le dicerie ascoltate non potevano che corroborarne la sentita intimità, in una giustificata tensione, di una paura reale.

È comunque certo che i suoi drammi scenici, ripensandoci ora, non erano modesta banalità e riuscivano sempre a collo- carsi sul limitare di una condizione di frontiera, là dove l’uma- no deve fare i conti con un naturale imperioso e angosciante.

E proprio qui si situava il suo gusto perverso, quando, all’interno della rappresentazione di una serena festa, giungeva la crudele domanda di quel Male, pretendente la sua fatale e necessaria porzione di felicità.

Come se agli uomini non fosse dato di vivere, al di fuori della sofferenza della quotidianità, spazio altro, senza do- verne pagare un prezzo prevaricatore.

Si poteva solo così pensare di mantenere pacificato il rapporto con quella natura, arcigna e crudele, più matrigna che madre.

Le favole dello zio mi hanno aperto le maggiori che, cam-

min facendo, noi tutti abbiamo incontrato e che sul crina-

le del sacrificio sono istituite.

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L’albero del diségno

Oscar Piattella

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L’albero del diségno

Paolo Belardi

«Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno.

Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.» [Calvino 1988, p. 53]

Inizialmente, quando insieme ai membri del Comitato or- ganizzatore abbiamo concepito il programma degli even- ti collaterali al 41° Convegno Internazionale dei Docenti delle Discipline della Rappresentazione/Congresso della Unione Italiana per il Disegno, ospitato nel 2019 dall’Uni- versità degli Studi di Perugia e dedicato al rapporto biu-

nivoco instaurato tra arte e disegno, avevamo pensato di di organizzare una mostra di scultura. E, in particolare, avevamo immaginato di esporre en plein air, nei giardini dell’Università, le repliche, realizzate con la stampante 3D e caratterizzate da finiture cromatiche provocatorie, di tre celebri sculture contemporanee quali Dibuixar l’Espai di Pepe Diaz Azorin, The Man Who Measures the Clouds di Jan Fabre e Study of Perspective di Ai Weiwei. Tre opere apparentemente molto diverse tra loro, perché mentre l’opera di Pepe Diaz Azorin è piantata saldamente nel cuore del campus universitario di Alicante, l’opera di Jan Fabre è itinerante nelle strutture museali più importanti del pianeta e l’opera di Ai Wewei è addirittura la tradu- zione tridimensionale di un ciclo fotografico. Ma anche tre opere simili, visto che incarnano tutte un inno alla capacità di trascendere il tempo e lo spazio in virtù della forza im-

Articolo a invito a commento dell’immagine di Oscar Piattella, non sottoposto a revisione anonima, pubblicato con responsabilità della direzione.

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Autore

Paolo Belardi, Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale, Università degli Studi di Perugia, paolo.belardi@unipg.it

maginifica del disegno-sguardo (ideativo nel primo caso, conoscitivo nel secondo caso e rivelativo nel terzo), pro- ponendo agli osservatori una ridda di interrogativi destina- ti a rimanere sospesi: perché disegnare nel cielo se poi non ne rimarrà traccia? perché misurare le nuvole se esse sono continuamente cangianti? e, soprattutto, perché far finta di non vedere ciò che è sotto i nostri occhi? Sarebbe stata una mostra sicuramente insolita, ma le difficoltà incontrate nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie per la rea- lizzazione delle repliche soffocarono sul nascere il proget- to. Tanto che temetti di dover riparare nella classica mostra di schizzi d’autore. Poi però ebbi la fortuna di assistere a un’appassionante lezione-confessione di Oscar Piattella, svoltasi nella biblioteca storica dell’Accademia di Belle Arti

“Pietro Vannucci” di Perugia, in cui il maestro marchigiano evocò più volte il nome di Yves Bonnefoy e recitò i passi più poetici del celebre saggio Le dessin et la voix, pubblicato nel 2005 all’interno della raccolta Lumière et nuit des ima- ges . Soprattutto fui colpito da quella che mi sembrò una vera e propria sentenza. «Disegnare, de-signare. Spezzare il sigillo, aprire l’involucro – che resta chiuso» [Bonnefoy 2010, p. 15]. Una sentenza che, rivendicando la capacità del disegno di assurgere a grimaldello volto a scardina- re l’apparenza per svelarci ciò che altrimenti rimarrebbe obliato, riassumeva in sé il senso più profondo del lega- me che avrebbe serrato in un tutt’uno le repliche delle sculture di Pepe Diaz Azorin, di Jan Fabre e di Ai Weiwei.

Decisi così di organizzare la mostra Nel di-segno del colore, poi curata con sapienza critica dallo storico dell’arte Aldo

Iori e allestita con garbo minimalista dal designer Fabri- zio Milesi negli spazi crepuscolari della rocca Paolina. Una mostra contrassegnata da figure geometriche sofisticate (a cominciare dalle infinite varianti del mazzocchio) e da tex- ture cromatiche pastose (eseguite per lo più ad acquarello o con tinte acriliche), ma a ben guardare contrassegnata anche e soprattutto da muri. Né avrebbe potuto essere diversamente, perché «il muro – così come notato con acutezza da Alberto Mazzacchera nell’incipit del suo scrit- to introduttivo al catalogo – attraverso le sue differenti declinazioni, dirette espressioni di molte fasi di ricerca che si sono avvicendate, contrassegna quasi ininterrottamente, specie se si scandaglia la superficie andando all’essenza del- la struttura, l’intera produzione artistica di Oscar Piattel- la» [Mazzacchera 2019, p. 15]. Forse mancavano gli alberi:

quegli alberi che, con la propria nitidezza architettonica, hanno sempre alimentato la vena poetica di Oscar Piat- tella. E allora, emulando in parte il gesto virtuosistico di Giotto, quando consegna al messo di papa Bonifacio VIII un “semplice” cerchio, e in parte il gesto di Chuang Tzu, quando disegna “il più perfetto granchio che si fosse mai visto”, Oscar Piattella ha impugnato la matita a carboncino e, disegnato di getto un grande cerchio (contornato da un grande albero la cui rigogliosità ricorda quella dell’al- bero disegnato da Colombo, alias Maurizio Nichetti, nella sequenza iniziale del film Ratataplan), lo ha suggellato con una dedica tanto evocativa quanto invocativa: “ALL’UID IL SEGNO PER IL ‘DISEGNO’ DELL’ALBERO”. Affidandoci il compito di custodire e coltivare l’albero del diségno.

Riferimenti bibliografici

Bonnefoy, Y. (2010). Osservazioni sul disegno. Il disegno e la voce. Aprica (CH): Pagine d’Arte.

Calvino, I. (1988). Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.

Milano: Garzanti.

Mazzacchera, A. (2019). Ragionamenti sul muro in Piattella. In Iori, A. (a cura di). Oscar Piattella. Nel di-segno del colore. Perugia: EFFE Fabrizio Fabbri Editore, pp. 15-19.

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RIFLESSIONI.

L’ARTE DEL DISEGNO/IL DISEGNO DELL’ARTE

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Note casuali e provvisorie sul disegno

Franco Purini

«Scrivere per me è disegnare, unire le linee in modo che diventino scritture, o disunirle in modo che la scrittura di- venti disegno.» [Jean Cocteau]

Nel 1953 Maurizio Sacripanti pubblicò un libro di non molte pagine, dal titolo Il disegno primo e il disegno di archi- tettura che fino a qualche decennio fa, per la qualità delle sue argomentazioni e per la sua scrittura limpida e scor- revole, sarebbe stato definito “aureo”. Il maestro romano, che qualche anno dopo conquistò una fama nazionale e internazionale con il progetto di concorso per il Grattacielo Peugeot a Buenos Aires, dalla sorprendente energia inno- vatrice materializzata nell’invenzione di una straordinaria macchina comunicativa, distingueva il disegno di architet- tura da quello dei pittori e degli scultori. L’autore di quel libro non riteneva certo il disegno di architettura impuro,

ma la distinzione proposta significava che egli lo riteneva uno strumento non autonomo, in quanto il suo ruolo era quello di esporre elementi di un edificio nella loro rela- zioni con l’insieme. Nell’arte del costruire, però, limitare il disegno alla sola illustrazione di soluzioni progettuali non è possibile, come peraltro dimostrano, in una posi- tiva contraddizione, i disegni prodotti dallo studio dello stesso Maurizio Sacripanti nel quale, concedendomi un cenno biografico, ho lavorato per qualche anno quan- do ero studente. Il disegno di architettura è per questo anche uno strumento, ma in prima istanza è lo spazio in cui l’idea di architettura si rivela al suo autore e a coloro che vivranno le architetture che il disegno definisce. Di- segnare non solo ci fa scoprire ciò che appare ai nostri occhi ma ci rivela al contempo ciò che è sconosciuto, indefinito, transitorio.

Articolo a invito per inquadramento del tema del focus, non sottoposto a revisione anonima, pubblicato con responsabilità della direzione.

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Continuando questa premessa il disegno di architettura ha per me un’evidente dimensione artistica, che assume diver- se gradazioni secondo il tipo di espressione grafica. Tale di- mensione è massima nelle impressioni dal vero, tradotte in straordinarie immagini, di Le Corbusier, di Louis Khan, in par- ticolare i disegni eseguiti con pastelli a cera tra i quali alcuni capolavori riguardanti l’Acropoli di Atene, di John Ruskin, so- prattutto gli studi sui capitelli gotici del Palazzo Ducale di Ve- nezia. La stessa intensità artistica caratterizza i famosi schizzi di Erich Mendelsohn, dalla coinvolgente dinamica spaziale, di Àlvaro Siza, dal segno rapido e conciso, di Giovanni Mi- chelucci, poetici grovigli neoespressionisti. Negli elaborati di progetto come piante, sezioni, dettagli il contenuto artistico è medio, aumentando con le vedute prospettiche o assono- metriche, ricordando in questo caso quelle di Alberto Sar- toris. Il valore di opere d’arte degli elaborati architettonici raggiunge di nuovo il massimo con i “disegni teorici”, ovvero quelle visioni che propongono nuove dimensioni tematiche alimentate da varie forme di utopie e da una volontà idea- lizzante, come nelle tavole di Antonio Sant’Elia. Per evitare equivoci interpretativi, va chiarito che il disegno teorico non può essere didascalico o semplicemente narrativo. Esso è sempre complesso, ermetico, razionale ma al contempo fantastico, comprendente a volte elementi irrazionali, in altri casi stratificato in più livelli tematici anche contrastanti. L’“ar- chitettura disegnata”, come viene chiamata a partire dagli anni Settanta, che a mio avviso è solo quest’ultimo esercizio grafico tra quelli ai quali ho accennato, è per quanto detto un disegno “scientifico” e insieme “poetico”, un disegno che tende a un’assolutezza formale associata alla logicità di un teorema. Infine non si può dimenticare che anche il rilievo, come si rende evidente nei disegni leonardeschi di Imola e di altri territori o negli studi delle terme romane di Palladio, può produrre disegni di notevole intensità espressiva.

Disegnare è un’attività indispensabile per comprendere il mondo, ricordarlo e trasformarlo. Se questa consapevo- lezza è diffusa tra i pittori, gli scultori, gli architetti e più in generale tra gli operatori del vasto campo del visivo, non è tanto condivisa, come dovrebbe, dagli intellettuali e in genere da ogni altro settore della società, anche se nume- rose sono le persone a ogni livello culturale che amano il disegno come una pratica complementare a quella scelta come prioritaria. Molti pensano che basti una fotografia o una descrizione a parole per capire la morfologia degli elementi costituenti lo scenario della nostra esistenza, dal paesaggio agli oggetti d’uso, dalle città e dagli edifici, dall’in- tero ambiente ai suoi singoli particolari, ma in realtà un’im-

magine fotografica non è sufficiente per farsi un’idea abba- stanza precisa della realtà. Per sapere cosa è un albero non c’è altro modo che disegnarlo, scoprendo la sua architet- tura, ovvero come il tronco è ancorato dalle radici, come da esso nascano i rami, come è strutturata una foglia, in sintesi come l’albero si configura in quanto entità in cui tut- te le parti costituiscono un organismo unitario. Lo stesso discorso si può fare per una roccia, per l’acqua, ricordando gli studi di Leonardo, per una montagna, come nei famosi disegni del Monte Bianco di Eugène Viollet-le-Duc o per la luna, che Galileo Galilei ha rappresentato in straordina- ri acquarelli, riprodotti da Ludovico Cardi, detto il Cigoli, nella Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore a Roma.

Anche la costruzione di un edificio si comprende meglio se qualcuno l’ha disegnato in una fase intermedia della sua realizzazione. Non si potrebbe infatti cogliere la coinciden- za sorprendente tra le rovine delle terme romane e San Pietro che stava sorgendo senza gli straordinari disegni dal vero di Maerten Van Heemskerck, così come, all’inverso, siamo in grado di anticipare la condizione di un edificio in rovina come nella rappresentazione della Bank of England di John Soane nel disegno del suo collaboratore Joseph Michael Gandy e nella descrizione grafica dello scheletro in cemento armato del Teatro degli Champs-Élisées di Au- gust Perret, un rudere concettuale che rende chiaro il rap- porto in quell’opera tra tettonica e architettura.

Dopo queste considerazioni introduttive, alle quali aggiun-

go la coincidenza nativa tra disegno e scrittura nonché il

senso propiziatorio, mnemonico e nominale del disegno,

che designa le cose, e in un certo senso le crea, credo sia

necessario chiarire quali sono gli ambiti del disegno nel

loro senso più esteso. Il disegno riguarda ciò che esiste,

ma anche ciò che non esiste ma potrebbe esistere. Inoltre

si può disegnare ciò che è non esistito e non potrebbe

esistere. Infine si può rappresentare anche ciò che esiste

proiettandolo nel futuro. L’immaginario di ciascuno di noi

nasce dal prendere coscienza del mondo, della sua concre-

tezza, sulla quale innestare un lavoro inventivo che traspor-

ta e trasforma l’ambito reale in un dominio metamorfico,

evolutivo, erratico tra temporalità diverse. Attraverso il

disegnare questo immaginario, come avviene per noi ar-

chitetti, si polarizza in nuclei tematici complessi, dando vita

a un labirinto nel quale i percorsi si sovrappongono intrec-

ciandosi in nodi che spesso è difficile o impossibile scio-

gliere. Procedendo in questa rapida escursione nel tema

del disegno, in esso la dimensione del tempo compare in

tre modi. Il primo è il tempo in cui un disegno è pensato

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e realizzato, un tempo che lascia sempre tracce che per- mettono di riviverlo. Inoltre c’è il tempo che è stato neces- sario per concepire ed eseguire un’opera grafica, da uno studio paesaggistico a una sezione prospettica, un tempo oggettivo che va dall’istante di uno schizzo a giorni inte- ri per una prospettiva complessa, un tempo vissuto però soggettivamente dall’autore del disegno, che può conside- rarlo lungo o breve. Inoltre il tempo di un disegno è quello necessario alla lettura da parte di chi lo sta osservando. Un altro ancora è il tempo rappresentato nella composizione grafica, che può essere il passato, il presente e il futuro, come avviene nella famosa tavola di Gandy già citata. Infine circola in ogni disegno di qualsiasi epoca il tempo straniato e irreale del sogno mescolato al tempo funzionale del fare.

Per un architetto il disegno è il vero vedere, ovvero il saper decifrare il mondo superando il più accidentale guardare, la semplice osservazione, e l’assimilazione nella memoria di quanto gli occhi hanno elaborato per pervenire oltre que- ste funzioni all’intuizione delle leggi formative che organiz- zano il mondo stesso conferendo identità al suo insieme e alle sue parti, consentendo al contempo di conservare nel- la mente, attraverso un’opportuna codificazione, ciò che si è acquisito. In questo vedere la capacità analitica si associa a quella sintetica per le quali le cose conseguono uno sta- tuto chiaro e duraturo. Questa interpretazione si configu- ra come una nostra immedesimazione negli elementi del mondo e al contempo nel distaccarsi da essi interponendo una adeguata distanza critica rispetto a ciò che è stato oggetto della nostra visione. L’immedesimazione procede infatti dai sensi e, successivamente dall’intelletto e dallo spirito, ma tutto ciò riuscirebbe astratto senza un’azione di allontanamento – la distanza critica appena evocata – che permetta di valutare il visibile con maggiore oggettività senza coinvolgere l’emozione e produrre trascendimenti.

Realismo e metafisica debbono quindi unirsi per rendere il vedere più profondo e operante. All’immedesimazione e al distacco si deve poi aggiungere l’attitudine a una concezio- ne evolutiva, e quindi positivamente instabile, della realtà.

Inoltre occorre che il disegno sia in grado, ovviamente in modi diversi a seconda di chi lo pratica, di suggerire il finito e l’infinito, vale a dire l’essenza conclusa delle cose e il loro partecipare di un’estensione illimitata di significati, di paral- lelismi morfologici, e di comparazioni dimensionali.

Un disegno manuale trova nel segno l’identità irripetibile di chi lo ha eseguito. Tale segno è infatti unico. Esso può assomigliare a segni analoghi ma non può essere uguale a un altro. In sintesi ogni disegno è fatto di segni totalmente

autografici. Esiste un’autografia anche nel disegno digitale, che può coincidere con quello manuale se si usa la penna per la tavoletta grafica, ma nei casi migliori, nei quali non si vuole adottare un linguaggio troppo omologato, è di solito il frutto di evidenti “intuizioni personali” che portano a uno stile riconoscibile. In esso, però, non si troverà mai l’ener- gia della mano , quel modo di imprimere al tratto qualità conoscitivo-artistiche che è inimitabile. Una qualità che è sempre il risultato di un’ossessione, vale a dire un tendere costante a un fine all’interno di una inquietudine fatta di certezze e di dubbi, di decisioni risolutive e di esitazioni prolungate, di accelerazioni e di rallentamenti, di sicurezze e di pentimenti in corso d’opera. L’ossessione va indub- biamente vissuta con tutto ciò che comporta, ma occorre anche controllarla, tenerla a bada, per così dire, altrimenti ciò che essa produce può essere confuso, fuori registro, casuale o ripetitivo. Nel segno, per finire, c’è sempre magia e mistero, perché c’è in esso un che di sconosciuto anche a chi lo traccia. A volte il segno è infatti più veloce di quanto si stia pensando e per questo ci sembra provenire da un nostro doppio. Ciò provoca in noi un certo smarrimento nonché un persistente senso straniante, come se il segno tracciato lo vedessimo nella sua realtà per la prima volta.

Va anche ricordato che chi disegna lo fa all’interno di una

“storicità del disegnare” materializzata in una serie di con- venzioni che vanno accettate, se si vuole far comprendere ciò che si è fatto. Al contempo però è anche necessario che chi disegna abbia costruito un suo preciso e incon- fondibile linguaggio grafico, frutto spesso di invenzioni che possono essere estreme. Da qui la contraddizione tra il farsi capire e la singolarità, anche ermetica, di un lessico grafico personale. A questo proposito studiare le incisio- ni di Giovanni Battista Piranesi può insegnare molto sul modo con il quale si può vivere questa dualità conflittuale.

Il suo mondo figurativo, fantastico, eccessivo, trasgressivo, estremo è immediatamente identificabile attraverso le modalità della rappresentazione prospettica, ma questa modalità rappresentativa dello spazio è stravolta da un po- etico senso della dismisura, da una luce molteplice, da una perturbante venatura di tragicità. La forma, l’unità dinamica della forma e delle sue componenti, la misura della forma, la sua struttura, il suo significato esplicito e quello implici- to sono gli ambiti nei quali il disegno agisce come luogo sia rivelatore del mondo reale o di quello immaginario, sia come progetto della trasformazione o di entrambi.

Nel disegno manuale il coordinamento tra la mente e la

mano è simultaneo e creativo, come ricorda Henry Fo-

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