«ESISTE ANCORA IL DANNO “ESISTENZIALE”?»
Dr. Mauro Di Marzio
∗1. — Dinanzi al titolo «Esiste ancora il danno “esistenziale”?», con le virgolette e il punto interrogativo, mi sono chiesto se scegliere un tono di suspence, e rivelare solo alla fine quale sia stata la sorte del danno esistenziale, oppure se dire subito che il danno esi- stenziale esiste ancora.
Opto per la seconda soluzione: il danno esistenziale esiste.
Proverò:
— a riassumere qual è al momento lo stato di questa figura;
— a dire, infine, sia pure molto brevemente, quale è, a mio giudizio, il ruolo del medico legale nella «gestione» del danno esistenziale.
2. — Il danno esistenziale esiste ancora. Ma com’è nato? E quale è stato il suo im- patto sul sistema della responsabilità civile? Sarebbe corretto dire, ad esempio, che esso ha avuto l’effetto di un sasso in uno stagno? O non è più corretto pensare alla responsabi- lità civile come ad un torrente piuttosto che come ad uno stagno?
Se è vero che il diritto si evolve costantemente, non c’è dubbio che, dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, la responsabilità civile abbia subito molteplici scossoni, più che una semplice, lineare, progressiva, placida evoluzione.
L’immagine del torrente, dunque, è senz’altro più appropriata.
2.1. — Per quanto attiene all’aspetto giuridico della vicenda, tutto ruota sul rapporto tra l’art. 2043 e l’art. 2059.
Due norme di peso evidentemente diverso. Si potrebbe dire che l’una, l’art. 2043 («Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno») ha la forza delle dichiarazioni di principio.
La seconda, l’art. 2059 c.c. («Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge») si esprime nel modo ermetico delle disposizioni burocratiche: i casi determinati dalla legge, qualcosa che solo i chierici intendono. Si potrebbe dire che
∗Magistrato, Corte di Appello di Perugia
l’una norma è un peso massimo, l’altra un peso piuma. La parola più importante dell’art.
2043 è «danno», che esprime un concetto (quello di diminuzione, di perdita) in mancanza del quale cade giù buona parte del codice civile. La parola più importante dell’art. 2059 è
«non».
In principio, dunque, il codice civile guardava essenzialmente al patrimonio: era ri- sarcito senza limiti il solo danno patrimoniale. Dall’altro lato, sotto l’art. 2059, vi era il «non patrimonio», qualcosa che il legislatore dell’epoca non sapeva neppure definire in positivo.
Di qui un percorso ininterrotto.
La giurisprudenza, in particolare, si è preoccupata di individuare costruzioni utili a rispondere a pressanti esigenze risarcitorie altrimenti a rischio di confino nella sfera del
«non». La perdita di chances, il danno estetico, il danno alla vita sessuale, il danno alla vi- ta di relazione: figure — non certo cristalline sul piano della coerenza dogmatica — che te- stimoniano l’emergere, magari inconsapevole, di un concetto di «persona» come «indivi- duo nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito», come ha detto una volta la Corte costituzionale.
Poi, oltre un quarto di secolo fa, la svolta del danno biologico: il bene salute non ha rilievo patrimoniale, e però riceve tutela costituzionale, sicché, in caso di lesione, non può esserne impedito il risarcimento (che è la soglia di tutela minima), poiché altrimenti si vio- lerebbe la carta fondamentale. La risarcibilità del danno biologico entro il quadro di appli- cazione dell’art. 2043 c.c., comunemente ammessa fino alla primavera-estate dello scorso anno, mette in tal modo in crisi lo stesso caposaldo al quale si è inizialmente accennato, quello della bipartizione danno patrimoniale-danno non patrimoniale: vi è incontestabil- mente un danno non patrimoniale, il danno biologico, che si risarcisce indipendentemente dai limiti dell’art. 2059 c.c..
Per questa strada tende allora a consolidarsi una ricollocazione del confine tra gli artt. 2043 e 2059 c.c.; l’uno si espande ben al di là dei confini del danno patrimoniale, l’altro si contrae, rimanendo chiuso nel minuscolo angolo del pretium doloris.
2.2. — Questo processo, che potremmo dire di «personalizzazione» o di «esisten- zializzazione», non ha certo toccato il solo settore della responsabilità civile, ma ha riguar- dato l’intero mondo del diritto privato, e non solo quello.
Da dove scaturisce un simile andamento.
Direi che scaturisce in primo luogo dalla ricchezza, dall’aumento del prodotto inter- no lordo, dal miglioramento delle condizioni materiali, dal benessere, dall’opulenza. La- sciamo stare, però, l’aspetto economico, e rimaniamo a quello giuridico. Ed allora, è chiaro che a monte del processo di «personalizzazione» c’è la Costituzione, che soprattutto nella sua prima parte, è tutta costruita sul concetto di «persona». E la Costituzione non è un santuario isolato in cima a un monte, ma vive in un intreccio penetrato nell’intero ordina- mento, attraverso molteplici riforme legislative (in settori ben più ampi dell’ambito privati- stico) che recano impresso lo stesso segno.
Pensate alle leggi: sull’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354);
in materia di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (legge 9 dicembre 1977, n. 903); in materia di accertamenti e trattamenti sanitari volonta- ri e obbligatori (legge 13 maggio 1978, n. 180); in materia di rettificazione di attri- buzione di sesso (legge 14 aprile 1982, n. 164); sul trattamento dei dati personali (legge 31 dicembre 1996, n. 675); in materia di pubblicità ingannevole e comparati- va (decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 74); in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa (decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito in legge 25 giugno 1993, n. 205); in materia di promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza (legge 28 agosto 1997, n. 285); in tema di disciplina dell’immigrazione e di condizione dello straniero (legge 6 marzo 1998, n. 40); diritto al lavoro dei disa- bili (legge 12 marzo 1999, n. 68).
E si può accennare ancora alle varie normative sulla cittadinanza, sull’adozione, sul- la tutela dei consumatori, sulle barriere architettoniche, sullo sciopero nei servizi pubblici, sull’handicap, sull’aborto, sui servizi socio-sanitari, e così via. Ed ancora alla normativa in materia di ecologia, a partire dalla legge 10 maggio 1976 n. 319, la c.d. «legge Merli» sul- la tutela delle acque dall’inquinamento.
2.3. — Questo il contesto in cui nasce il danno esistenziale: una volta che il danno biologico ha, per così dire, azzoppato l’originaria impostazione patrimonialista che domina- va il settore della responsabilità civile, è solo questione di tempo constatare che l’uomo — l’homo faber al quale guarda la Costituzione, l’uomo «animale politico», che lavora, che è inserito in formazioni sociali, che partecipa all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, che si riunisce pacificamente e senz’armi, che si sposta liberamente sul territo-
rio nazionale, che manifesta il proprio pensiero, che si costruisce una famiglia, che va a scuola, che risparmia eccetera — non vive di sola salute. E allora la tutela deve estendersi
«alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana» (Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356).
Negli anni ‘90 cominciano dunque a presentarsi qua e là talune pronunce di giudici di merito le quali non nascono dal coperchio della norma, ma — se posso dire — dalla pentola dell’esperienza quotidiana. Si soffermano su pregiudizi che non riescono ad essere compiutamente definiti mediante le categorie del danno patrimoniale, da un lato, e di quello biologico e morale dall’altro.
Pensiamo al caso eclatante della invalidazione di un congiunto: un accadimento de- stinato spesso a produrre danno patrimoniale ed a suscitare quasi sempre sofferenza, ma anche ad imporre al marito o alla moglie ogni intuibile cambiamento di prospettiva, di a- genda, che deriva dall’avere un handicappato in casa. Il coniuge con il quale prima si con- dividevano tempo libero e svaghi, eccetera eccetera (e naturalmente anche discussioni e litigi) richiede ora semplicemente di essere spinto in carrozzella, di essere accompagnato alla riabilitazione, di essere accudito nello svolgimento delle funzioni più elementari.
Pensiamo alle immissioni di rumore intollerabile. Anche in questo caso danno patri- moniale (spese per nuovi infissi, insonorizzazione) e danno morale (irritazione, rabbia per il torto subito). Ma soprattutto impedimento delle normali attività quotidiane: il rumore di- sturba il sonno, costringe a tenere le finestre chiuse, rende l’abitazione meno ospitale, ec- cetera.
Gli esempi potrebbero continuare a lungo, se ce ne fosse il tempo.
Si fa strada, insomma, l’idea che il peggioramento della qualità della vita, l’impedimento al libero sviluppo della personalità, lo stop imposto al «fare», anche non di- rettamente produttivo di reddito, è un danno. Naturalmente quando sono presenti tutti i requisiti della responsabilità aquiliana: la condotta di un agente imputabile, la colpa, il nes- so di causalità.
La formula che mi pare più sintetica e semplice è: perdita di attività realizzatrici del- la persona. Nulla, quindi, che abbia a che fare con la salute, né fisica, né psichica. Nulla che abbia a che fare con la sofferenza o altri moti dell’animo.
2.4. — Alla figura del danno esistenziale vengono subito contrapposte critiche di ta- glio diverso, non tutte meritevoli della stessa attenzione.
La critica di fondo è motivata dal timore della overcompensation, ossia di un ecces- sivo rigore risarcitorio che possa sbilanciare oltremodo il rapporto danneggiante- danneggiato a favore di quest’ultimo. Talora quest’impostazione prende un’inclinazione ca- tastrofista: l’affermazione generalizzata del danno esistenziale sortirebbe effetti negativi sul funzionamento complessivo del sistema della responsabilità civile, determinando il dif- fondersi delle istanze risarcitorie più futili, il gonfiarsi dei costi assicurativi, insomma il col- lasso del sistema.
Il cavallo di battaglia della prospettiva catastrofista è il tema dei cosiddetti danni bagattellari, attraverso i quali spesso si intende ridicolizzare la figura del danno esistenzia- le: il taglio di capelli sbagliato (si tratta di una sentenza proveniente proprio da Catania), qualche ora di attesa in aeroporto, qualche settimana di ritardo nell’attivazione del telefo- nino, la videocassetta delle nozze malriuscita. Sono esempi suggestivi, ma, in genere del tutto fuorvianti: i casi menzionati, tratti da sentenze effettivamente pronunciate, attengo- no infatti al settore della responsabilità contrattuale in cui anche il minimo danno va senz’altro risarcito.
In realtà, guardare al danno esistenziale come all’humus sul quale sono destinate a fiorire sempre nuove pretese risarcitorie è in buona parte sbagliato. La verità è che uno dei caratteri innovativi del danno esistenziale consiste, piuttosto che nel creare nuovi danni (che pure certamente ci sono), nella sua capacità di ordine, di razionalizzazione, di attri- buire una definizione appropriata a pregiudizi che, spesso, già in precedenza venivano ri- storati, ma attraverso forzature delle figure di danno conosciute, ovvero a strani artifici concettuali (si pensi ai danni «da rimbalzo» di cui ha fatto giustizia, tra l’altro, la sentenza n. 8828 del 2003, della quale parlerò tra breve).
La figura del danno esistenziale, anzi, porta con sé le ragioni di un contenimento dei risarcimenti, laddove guarda al danno in termini non di evento, ma di conseguenza: qual- cosa che nel processo si deve immancabilmente descrivere e provare. Sicché, prima di parlare di implosione del sistema della responsabilità civile sotto il peso del danno esisten- ziale, dovrebbe considerarsi che il cumulo dei risarcimenti di poste esistenziali certo ad og- gi non eguaglia (non ho dati statistici, ma credo la cosa evidente) il cumulo dei risarcimen-
ti di quel contagiosissimo danno-evento che è il due per cento di invalidità permanente da colpo di frusta.
3. — A questo punto subentra la «svolta» che culmina nella sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2003.
La manovra di «svolta», in realtà, inizia qualche settimana prima, il 31 maggio del 2003, ed ha la sua chiave di volta nella pubblicazione della sentenza n. 8828 della Corte di cassazione.
Che cosa dice, in due parole, la Corte: tutto il danno patrimoniale rimane sotto l’art.
2043 c.c.; tutto il danno non patrimoniale trasloca sotto l’art. 2059 c.c., il quale viene però reinterpretato in chiave costituzionale, nel senso che il risarcimento (la sentenza parla di riparazione, ma la distinzione qui non interessa) trova ingresso ogni qual volta la lesione vada a pregiudicare un valore dotato di protezione costituzionale. Fermo restando, chiari- sce la S.C., che l’art. 2059 c.c. «non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitu- tivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge, anche la ri- parazione di danni non patrimoniali».
È proprio dalla sentenza n. 8828 della Corte di cassazione che deriva — posso ipo- tizzare — il dubbio che il danno esistenziale abbia cessato di esistere, da cui il titolo di questa relazione. La ricomposizione di tutto il danno non patrimoniale sotto la disciplina dell’articolo 2059 c.c. — questa dovrebbe essere la tesi — avrebbe cancellato le differenze di fondo tra le tre figure di cui si compone il danno non patrimoniale, ossia il danno morale soggettivo (il patema d’animo transeunte), il danno biologico (la lesione della salute medi- calmente accertabile) ed il danno esistenziale (la compromissione di attività realizzatrici della persona).
3.1. — Parliamo allora della sentenza n. 8828 della Corte di cassazione.
Essa ha colpito l’attenzione e stimolato la fantasia della dottrina: Cendon l’ha com- mentata sotto il titolo «Se anche gli amanti si perdono, l’amore non si perderà»; Busnelli sotto il titolo «Chiaroscuri d’estate». Altri, sempre ricorrendo a figure suggestive, hanno parlato dell’articolo 2059 che va in paradiso, di ricomposizione dell’universo non patrimo- niale, di dogma infranto.
Questa la mia personale opinione.
La sentenza, affidata al consueto stile asciutto e preciso di Roberto Preden, è molto ambiziosa ed ha molti meriti. Non esito però ad ammettere che, ad una prima impressio- ne, a me era sembrata piuttosto debole. A distanza di poco meno di un anno ho cambiato opinione, ma alcune ragioni della negativa impressione iniziale meritano (credo) ancora di essere tenute presenti.
3.1. — Eccole qui:
— sentenza debole per ciò che dicevo all’inizio, ossia perché l’articolo 2059 c.c. è una norma rachitica, che a sopportare tutto il peso del danno alla persona, non ce la può fare: ed infatti è la stessa Corte di cassazione a riconoscere che non ce la fa, tanto che si deve appoggiare al 2043, che fissa «gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civi- le»; l’articolo 2059, così, finisce per essere trasformato in una sorta di 2043 bis, una brutta copia del 2043 dedicato al danno non patrimoniale;
— sentenza debole perché la n. 8828 ha un’impostazione, per così dire, un po’avara; il senso è: «risarcimento del danno alla persona si, ma solo se vengono lesi inte- ressi dotati di copertura costituzionale»; interessi col pennacchio e interessi senza pennac- chio: il danno al patrimonio si risarcisce sempre, il danno alla persona (non sarà parados- sale?) si risarcisce solo se c’è il pennacchio: dunque la persona conta meno del patrimo- nio? Qui la Corte di cassazione sembra avere introiettato quei moniti di ispirazione vaga- mente millenarista a cui ho accennato, mostra di essere preoccupata di piantare paletti, di circoscrivere l’ambito della risarcibilità, come condizionata dal timore che, altrimenti, possa accadere chissà che;
— sentenza debole perché la n. 8828 determina uno «scongelamento» del danno morale soggettivo (qualcosa che, a differenza del danno biologico e del danno esistenziale, non si vede, non si tocca, non si misura, ma si suppone soltanto), d’ora in poi risarcibile in un ambito assai più ampio di quanto non fosse in precedenza;
— debole, tra gli altri, mi era sembrato, almeno inizialmente, il passaggio della sen- tenza che, ad una lettura superficiale, e forse anche un po’ faziosa, potrebbe indurre a credere che la Corte di cassazione intendesse fondere nel crogiolo del danno non patrimo- niale quelle sue tre componenti che hanno impiegato alcuni decenni per trovare una pro- pria definizione non in negativo, ma in positivo. Mi riferisco al passo della sentenza in cui
viene detto che nella categoria del danno non patrimoniale non è «proficuo ritagliare […]
specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo».
Ma come? Dire al giudice civile — questa è stata la mia prima impressione — di sor- volare sulle differenze è come chiedergli di cambiare mestiere. Se dovessi indicare un mot- to da aggiungere nelle aule di tribunale, sotto «La legge è uguale per tutti», aggiungerei una citazione shakespeareiana, «I’ll teach you differences», te le insegno io le differenze.
La distinzione tra danno morale e danno esistenziale, tra danno esistenziale e danno bio- logico, tra danno biologico, soprattutto sotto specie di danno psichico, e danno morale, in- vece, è indispensabile per individuare le possibili sequele in cui il danno aquiliano si snoda, per incasellare quelle «conseguenze» in cui il danno consiste. E così, in definitiva, per dare né più né meno che a ciascuno il suo, evitando, tra l’altro, proprio quelle duplicazioni risar- citorie che la n. 8828 paventa.
Le differenze, insomma, sono le indispensabili lenti attraverso cui il giudice civile fa il proprio lavoro.
3.2. — Perché ho poi cambiato opinione.
3.2.1. — In primo luogo sono convinto che i paletti che la Corte di cassazione credo intendesse piantare — forse un po’ offuscata da quell’atteggiamento catastrofista di cui ho detto — non potranno lasciare scoperte aree meritevoli di tutela.
Se il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto in caso di lesione di interessi dotati di tutela costituzionale, il nocciolo della questione si focalizza ora sull’individuazione di quegli interessi, cioè sull’identificazione dei danni ingiusti non soltanto ai sensi dell’articolo 2043 c.c., ma anche ai sensi dell’articolo 2059 c.c.. Il quesito, dunque, diviene questo: è possibile sovrapporre il danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c. (la lesione di un interesse giuridicamente protetto) al danno ingiusto di cui all’art. 2059 c.c. (la lesione di un interesse giuridicamente protetto a livello costituzionale)? O, viceversa, c’è un’area en- tro la quale opera il congegno risarcitorio del danno patrimoniale e, al contrario, non è do- vuto risarcimento del danno non patrimoniale, in particolare del danno esistenziale?
È assai difficile che questa seconda area possa essere individuata.
Da dove partire, infatti, per verificare se la lesione ha attinto un interesse dotato di protezione costituzionale. Direi, indubbiamente, dall’articolo 2 della Costituzione, che tutela
i diritti fondamentali della persona. Senz’altro dall’articolo 3 della Costituzione, che ruota intorno alla dignità e all’uguaglianza. Ma queste due norme sono norme aperte, clausole generali inserite in un vasto tessuto normativo fatto di rimandi alla stessa Costituzione (si vedano in particolare i primi 47 articoli), alla legislazione ordinaria che ho ricordato all'ini- zio, a quella sovranazionale.
E questa complessiva trama normativa ha tratto così palese e marcato alle «attività realizzatrici», che è assai difficile, se non impossibile, pensare ad «attività realizzatrici» so- cialmente meritevoli di considerazione (e dunque anche meritevoli di risarcimento) ma a- vulse da tale contesto.
3.2.2. — In secondo luogo, mi pare che l’atteggiamento un po’ timoroso della sen- tenza n. 8828 non sia stato, almeno finora, contagioso.
È stata recentemente pronunciata dalla Corte di cassazione una convincente sen- tenza sul caso Barillà: un uomo ingiustamente detenuto per circa sei anni e mezzo, al qua- le è stato riconosciuto un risarcimento sia per danno patrimoniale, sia per danno biologico, sia per danno esistenziale: in sostanza per la perdita, delle relazioni affettive, la condizione di restrizione, e tutto quanto intuibilmente era derivato dalla detenzione ingiusta.
Una sentenza persuasiva, che fissa in modo pacato le distinzioni tra danno morale soggettivo, danno biologico e danno esistenziale, non sembra soffrire di particolari timi- dezze e neppure di eccessiva baldanza, si mostra semplicemente misurata e solida, come ci si attende da una sentenza di Cassazione.
Se un aspetto negativo c’è, è che la sentenza è stata pronunciata dalla Cassazione penale e, se i giudici penali cominciano a scrivere sentenze migliori dei giudici civili, allora il mondo (del diritto) comincia davvero ad andare alla rovescia. Però, forse una ragione c’è, ossia che i giudici penali, sapendo meno di diritto procedura civile, hanno meno pre- giudizi e meno remore.
3.3.3. — In terzo luogo, l’osservazione della Corte secondo cui non sarebbe «profi- cuo ritagliare […] specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo» non credo sia destinata ad avere seguito. Ed anzi, è possibile che la Corte non intendesse affatto affidare a quella frase chissà quale decisivo significato.
Tornando alla sentenza n. 8828, infatti, è facile constatare che, per la stessa Corte di cassazione, «il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale» (ossia un pa- radigmatico danno esistenziale) è «ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente», sicché il ristoro delle due «voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento» ben può essere cumulato.
Del resto, passando alla sentenza n. 233 del 2003 della Corte costituzionale (che è poco più che una chiosa della n. 8828), questa ha con chiarezza affermato che nei danni non patrimoniali derivanti da lesione di valori personali sono compresi «sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente ga- rantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medi- co (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona».
4. — Oggi, in definitiva, il danno esistenziale si presenta come componente del tri- partito danno non patrimoniale. Questo, dunque, ha ormai perso la sua connotazione ne- gativa: sappiamo cioè perfettamente che la formula «danno non patrimoniale» costituisce un semplice involucro esteriore che ingloba tre distinte figure, quella del danno morale soggettivo, quella del danno biologico e quella del danno esistenziale.
Anzi, per meglio dire, da un lato quella del danno morale soggettivo, dall’altro lato quelle del danno biologico e del danno esistenziale. L’una invisibile, le altre due suscettibili di essere toccate con mano.
5. — Quali possibili sviluppi del danno esistenziale.
Ve ne sono diversi:
— sul piano operativo, la definizione di tavole che considerino i singoli interessi su- scettibili di rimanere lesi e stabiliscano, pur con la necessaria elasticità, come le tre figure di danno non patrimoniale ordinariamente si combinano: è intuitivo, ad esempio, che una diffamazione a mezzo stampa è destinata normalmente a produrre soprattutto danno mo- rale soggettivo e solo eventualmente danno esistenziale, assai poco probabilmente danno biologico; che l’invalidazione di un congiunto sia destinata a produrre assai meno danno
morale soggettivo che danno esistenziale; che una vacanza rovinata determini (se lo de- termina) solo danno esistenziale;
— sul piano dell’estensione del danno esistenziale, la sua applicabilità in ambito contrattuale.
5.1. — Vorrei dire però due parole su un piano, per così dire, strategico.
Se è vero che il danno esistenziale ha arricchito di nuova luce il panorama della re- sponsabilità aquiliana, non è difficile prevedere — proprio perché il diritto è in costante movimento — che quella luce illuminerà nuove porte da aprire. Certa dottrina, di recente, mostra già propensione a volgere lo sguardo alle «attività realizzatrici della persona» in una prospettiva capovolta rispetto a quella del danno esistenziale: non più o non soltanto l’attenzione alla lesione aquiliana che abbia compromesso quelle attività, ma la loro pro- mozione, la traduzione della potenza in atto, la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, come dice l’articolo 3 della Costituzione.
Ancora una volta, ciò che muove il tutto non è il coperchio, ma è la pentola. Pensa- te a questi due casi. Due bambini malati. Uno affetto da un grave handicap ha bisogno di un insegnante di sostegno per tutto il giorno, e il giudice glielo assegna con un provvedi- mento d’urgenza (Trib. Roma 18 dicembre 2002, GI, 2003, I, 2, 1816). Un altro affetto da una grave forma di allergia ha bisogno, quando sta a scuola, di avere a portata di mano un rianimatore, per il caso che abbia una crisi: e il giudice dispone che l’unico centro mobi- le di rianimazione di una piccola ASL di provincia stazioni tutte le mattine sotto la scuola, sicché gli altri pazienti della stessa ASL, se per esempio si devono far venire un infarto, devono aspettare il pomeriggio.
Ora, a me sembra inutile dire che un provvedimento è giusto e uno è velleitario.
Ecco, in quest’esempio dell’insegnante di sostegno c’è una ragionevole attività (co- stosa, ma i trapianti non costano?) promozionale della persona, un impegno ad eliminare quegli ostacoli che si possono eliminare: l’attenzione è rivolta a quel mondo fatto di perso- ne che non ce la fanno, ma che, se le scuole funzionassero a dovere, come gli ospedali (che io credo siano le strutture che funzionano meglio, almeno per ora, domani non so), se i servizi funzionassero, se la pubblica amministrazione non fosse riottosa e poco ami- chevole, se gli scivoli per gli handicappati non fossero adibiti a parcheggi, se la giustizia ci- vile non fosse una lumaca, e mille altri possibili esempi, allora ce la potrebbero fare.
Questa spinta a ricercare i propri spazi, ad interfacciarsi con persone e cose, nei più svariati ambiti (creatività, scienza, lavoro, affetti, gioco, partecipazione, ambiti collettivi, viaggi), questa istanza di valorizzazione della persona, lungo ogni passaggio della quoti- dianità — pensiamo alla formula dell’articolo 147 c.c.: tenere conto delle capacità, dell’inclinazione, delle aspirazioni delle persone —, forse si avvia ad essere messa al centro di una nuova prerogativa individuale, un nuovo diritto della personalità, il diritto alla «rea- lizzazione personale», di cui alcuni autori, come dicevo, cominciano a parlare.
6. — Quale la funzione del medico legale riguardo al danno esistenziale?
Molti sono i casi in cui il danno esistenziale ha a che vedere con la salute, anche se non si compendia in un danno biologico. Ho già detto dell’invalidazione del coniuge, e la stessa cosa è per la perdita del congiunto (la perdita del rapporto parentale di cui parla la n. 8828) causata da condotta aquiliana. Pensate al caso del danno esistenziale patito dai genitori per le patologie contratte dal feto a causa di errori medici od altro. Pensate alla sieropositività da trasfusione.
Molti i casi in cui il ruolo del medico legale è indispensabile sul piano non già della quantificazione del danno, ma dello scrutinio del nesso di causalità tra la condotta ed il pregiudizio arrecato alle attività realizzatrici.
Evidentemente difficile pensare, invece, che il medico legale possa intervenire nell’esame delle attività realizzatrici compromesse.
7. — Chiudo sottolineando l’accenno fatto ad una possibile concatenazione tra il danno esistenziale, che ancora esiste, ed il diritto alla realizzazione personale, che ad oggi ancora non esiste. Ma chissà che non accada, in qualche futuro convegno, che possa tro- vare ospitalità una relazione dal titolo «Esiste ancora il diritto alla realizzazione “persona- le”?», anche se con le virgolette e con il punto interrogativo.