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IL DANNO PSICHICO, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALL'IPOTESI DEL DANNO ALLA SALUTE DEI CONGIUNTI SUPERSTITI O DEI CONGIUNTI DEL GRAVEMENTE LESO. di Isabella Merzagora

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IL DANNO PSICHICO, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALL'IPOTESI DEL DANNO ALLA SALUTE DEI CONGIUNTI SUPERSTITI O DEI

CONGIUNTI DEL GRAVEMENTE LESO.

di

Isabella Merzagora* Osvaldo Morini**

Con interpretazione letterale delle norme dei Codice Civile, la giurisprudenza prevalente ha, almeno fino a qualche anno addietro, negato il risarcimento del danno non patrimoniale ai congiunti prossimi del soggetto vittima di evento non letale reputando che si trattasse di conseguenza mediata ed indiretta del fatto illecito, talché sulla base del principio di risarcibilità del solo danno diretto e immediato sancito dall'art. 1223 C.C. era negato il risarcimento anche del danno morale dei familiari per lesioni non mortali subite da un congiunto in quanto costoro "soffrendo per le sofferenze di un proprio familiare non sono colpiti in modo diretto e immediato dalla condotta lesiva del terzo..." (Cass.

Civ. Sez. III sentenza 16.12.1988 n.6854 pubblicata in Responsabilità Civile Previdenza con nota di Mora).

La suddetta Corte, pur ribadendo il principio generale, ha però ammesso che in casi eccezionali debba essere risarcito anche il danno morale dei familiari limitatamente ai caso in cui "le lesioni riportate dall'offeso di postumi invalidanti sono talmente gravi da determinare la perdita delle più importanti funzioni e capacità dell'individuo sì che egli si riduce ad una mera vita vegetativa" (Cass. Penale 2 novembre 1983 n. 9113 in Arch.

Giur. Circ. Sin. Strad. 1984, 303) in quanto tale stato, dovendo essere assimilato alla morte dell'offeso, comporta pregiudizio morale direttamente ed immediatamente ricadente sui parenti.

Opinioni diverse ha espresso la giurisprudenza di merito (Trib. Brescia 26 ottobre 1988, Fusarici Apostoli in Resp. Civ. Prev. 1988, 1025) sostenendo che "non si comprende per quale ragione il dolore di un padre per la morte di un figlio in un incidente sia da considerare conseguenza immediata e diretta del reato di omicidio

* Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università di Trento

** Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Università degli Studi di Milano

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colposo, mentre il dolore per un figlio rimasto paralitico non sarebbe conseguenza immediata e diretta del reato di lesioni colpose... l'esito letale o meno del sinistro non muta né la natura né la causa del dolore dei congiunti".

Accanto a questo modificarsi degli orientamenti giurisprudenziali, si è assistito ad un diverso approccio anche per quanto attiene agli aspetti di danno biologico - sono ormai numerose le sentenze che hanno eroso il principio del concetto di danno diretto, dando un'interpretazione allargata anche ai congiunti della vittima. Già aveva affermato la Cassazione (Sent. n.1130 del 11.2.85 in Responsabilità Civile Prev. 1985, 210) che

"qualsiasi menomazione dell'integrità psicofìsica obbliga il responsabile al risarcimento in ogni caso".

Nota è poi la sentenza della Cassazione n.60 del 7.1.91 (in Resp. Civ. Prev. 1991, 446) secondo cui "può ritenersi ormai acquisito dalla coscienza sociale e dalla esperienza giurisprudenziale il dato dell'ammissibilità, sulla base del dispositivo dell'art.1223 richiamato dall'art.2056 c.c., dei risarcimento delle lesione dei cosiddetti diritti riflessi (o di rimbalzo, secondo l'incisivo appellativo usato dalla dottrina francese) di cui siano portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto altrui". Le sentenze in questione costituiscono altre pietre miliari nella strada che ha condotto al sempre più compiuto ed ampio riconoscimento del danno psichico, al riconoscimento della sua piena legittimità, a pari titolo con il danno organico.

Per venire poi alla sentenza 24-27 ottobre 1994 n.372 della Corte Costituzionale che in caso di lesioni mortali arrecate ad uno stretto congiunto ha affermato che il modello risarcitorio da applicare per riconoscere il danno biologico iure proprio dei familiari deve rifarsi all'articolo 2059 C.C., accogliendo in pratica la tesi già avanzata dal Tribunale di Milano (sentenza n-8186 del 2.9.93) che appunto riconosce la sussistenza del danno biologico psichico proprio nell'ipotesi che un soggetto muoia e che da tale lutto ai familiari derivi una "lesione del bene salute (che) deve intendersi come diritto all'integrità psichica ed a tutte le sue estrinsecazioni, ivi compresa la perdita di interessi e di iniziative per le attività quotidiane o comunque la incidenza che un fatto tanto grave può produrre sull'emotività e l'equilibrio psichico... Si ritiene quindi che la morte della figlia abbia

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inciso sulla personalità degli attori e la personalità altro non è se non una espressione della psiche dell'individuo".

Non vi è stato però nella Sentenza della Corte Costituzionale l'accoglimento della teoria del danno biologico iure proprio; è quindi mancato il riconoscimento di danno risarcibile nel turbamento dello “status” familiare preesistente, quale aspetto di danno in quanto tale.

Si ricordi però la nota decisione della Cassazione (n.6607 del 11.11.86 in Giust. Civ.

1986, 1, 3031) che dovendo giudicare, in tema di responsabilità professionale del medico, se fosse risarcibile il danno derivante al marito per incapacità iatrogena della moglie ad avere ancora rapporti coniugali, rispose affermativamente individuando aspetti di danno alla vita di relazione che, unicamente a quelli propri del danno sessuale, sono aspetti propri del danno biologico.

La Corte precisò che "il diritto ai rapporti coniugali è un diritto inerente alla persona, un aspetto dello svolgimento della persona nell'ambito della famiglia e quindi va equiparato al diritto alla salute, quale diritto delle persone all'integrità psicofisica".

Viene quindi a delinearsi come concreta l'ipotesi di un danno biologico da riconoscere agli stretti congiunti, derivante da menomazioni psicofisiche sofferte da un familiare, che vengono ad alterare i rapporti interpersonali all'interno del nucleo familiare, turbando la vita familiare. Turbamento diverso dalla sofferenza che è danno morale, ma tale da impedire ai componenti del nucleo familiare di svolgere il ruolo che è loro proprio, in modo permanente vengono in altri termini lesi i diritti degli altri componenti della famiglia definendosi di conseguenza come risarcibile il danno biologico connesso alle modificazioni in senso peggiorativo del modo di essere.

Pur nelle differenze fenomeniche e giuridiche ciò che accomuna le due ipotesi di cui qui si discute, vale a dire il danno cosiddetto "da lutto" e quello alla salute dei congiunti del gravemente leso, è il riconoscimento che il danno subito da un soggetto, come tale danno indiretto per i congiunti superstiti, diviene per costoro danno diretto in quanto, come si evince dalla lettura delle sentenze in questione, produce in foro una diretta sofferenza tale da condizionare uno stato patologico di carattere permanente, e quindi un vero e proprio danno biologico, e non un mero danno morale.

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Puntualizza i criteri di base a cui rifarsi per parlare di danno alla salute la citata sentenza della Corte Costituzionale n.372 , ove si afferma “....il danno alla salute è qui il momento terminante di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ce) anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento". Quindi il danno alla salute ricorrerà allorché si sia in presenza di un "processo patogeno" che può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente con conseguenze "in termini di perdita di qualità personali".

Peraltro il fatto che già vi fossero state sentenze che avevano riconosciuto la risarcibilità di tale ipotesi ha da qualche tempo promosso una serie di richieste di risarcimento, in talune di queste vertenze siamo stati chiamati in qualità di consulenti o periti.

Una serie di casi è accomunata da un "unica tragedia": il 19 luglio 1985 il bacino della miniera di Prestavelce cedeva ed una valanga di fango ed acqua innondava la frazione Stava di Tesero in Val di Fiemme. Le vittime furono 269. Alcuni dei parenti delle vittime richiesero alla parte convenuta il risarcimento anche per danno biologico per il lutto patito. Un'altra serie di casi venuti alla nostra osservazione riguarda parenti di deceduti a seguito di disastro aereo avvenuto in Pakistan nel 1992, nel quale persero la vita più componenti di alcuni nuclei familiari italiani.

Ma a parte questi casi, per così dire, conseguenza di eventi luttuosi eccezionali, quasi quotidianamente ci vengono proposte richieste di risarcimento per ipotesi di danno "da lutto" a seguito di decessi derivanti da traumatismi del traffico.

E' innegabile che, specie nel caso di lutti multipli, siamo di fronte a tragedie immense, al cospetto delle quali diviene particolarmente oneroso il compito di mantenere quel minimo di distanza emotiva che, pur non escludendo l'empatia, è necessario nell'ambito professionale e scientifico. Ciò nondimeno, tale distanza cercheremo di mantenerla per individuare i problemi che l'accertamento del danno alla salute dei congiunti comporta.

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Alcuni di questi problemi sono specifici dell'accertamento del danno ai congiunti, altri non sono diversi da quelli già suscitati dal riconoscimento del danno psichico. Ben note sono le maggiori difficoltà nell'accertamento del danno di tipo neuropsichiatrico rispetto a quello medico di natura organica: il corpo umano ha una certa uniformità per la quale, se anche non vi sono persone identiche, possiamo ragionevolmente aspettarci che vi sia una normalità basata sulla presenza di modelli, talché attraverso l'esame semeiologico e attraverso strumenti dotati di alto grado di oggettività possiamo valutare con certezza se l'integrità fisica ante acta è stata intaccata da un evento.

Ma tali criteri non possono certo ritenersi sufficienti per gli aspetti dì carattere medico legale, ed ancor meno in ambito psichiatrico dove la varietà è ancora maggiore e estremamente diverse sono le possibilità di reagire ad un avvenimento senza che necessariamente si debba parlare di anormalità o di normalità, semplicemente perché il termine "normalità" rinvia per forza di cose a un sottostante significato statistico che poco ha a che vedere con la soggettività psichica. E' fin troppo evidente che criteri di tipo statistico non possono essere applicati nel caso di "danno da lutto" - il termine non è tecnico, ma efficace - causato dalla perdita di uno o più figli, dove sarebbe eventualmente da chiedersi se, per chi abbia perso l'unico figlio, non sia normale proprio il fatto di non essere mai più lo stesso e quindi si debba ammettere sempre, in questi casi, un danno da lutto, oppure - e siamo al paradosso - dover concludere che vedere il proprio psichismo mutare, e per sempre, sia pur in senso peggiorativo sia normale, non patologico, e quindi non rappresenti un danno all'efficienza psicofisica.

Identiche considerazioni riteniamo debbano valere per colui il quale abbia continuamente sotto gli occhi la scena tremenda del figlio leso in modo irreparabile, spezzato nel suo sviluppo, privato della speranza di futuro, certo, ci sarà chi reagirà, chi troverà la forza - come si dice -, ma la sofferenza può essere "forse anche maggiore in caso di sopravvivenza del soggetto leso piuttosto che in caso di decesso" (Cass. Civ. 16 dicembre 1988 n.6854). Forse questa anzi, più ancora che quella della morte del congiunto, è la condizione che può determinare al familiare una lesione fisiopsichica, quello stato di prostrazione tale da spegnere il gusto di vivere cui fa riferimento la sentenza n.372 del 24-27 ottobre 1994, allorché individua l'ipotesi di risarcibilità per

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evento dannoso integrante un'autonoma fattispecie di danno ingiusto. D'altronde, vi è chi, non certo senza motivazioni, in tali stati di continua sofferenza, in tale ansia per il futuro del figlio non autonomo, ha individuato una specifica malattia, la cosiddetta sindrome QUISA ("quando io sarò andato") (Wing, in: Cendon).

Il modificato orientamento giurisprudenziale ha fatto sì che negli ultimi tempi si sia visto il rapido moltiplicarsi di cause, oltre che per "danno da lutto", per ipotesi di danno biologico di carattere permanente negli stretti congiunti di soggetti vittima della lesione personale.

La casistica relativa ad ipotesi di danno psichico "di rimbalzo" diviene via via più numerosa per quanto si tratti in molti casi di situazioni ancora subjudice e non ancora giunte a sentenza.

Più spesso la richiesta di risarcimento viene avanzata in relazione ad ipotesi di danno psichico permanente derivato ai congiunti - per lo più i genitori costretti ad assistere il familiare reso inabile e non più autosufficiente a causa di gravi traumatismi, o comunque, portatore di esiti menomativi di tale entità da compromettere irrimediabilmente le possibilità di riuscita negli studi o di una vita felice del figlio sul cui futuro tanto era stato investito. Nella nostra esperienza tale ipotesi di danno viene avanzata principalmente in caso di esiti di traumatismi cefalici comportanti gravi menomazioni neuropsichiche o motorie, piuttosto che in caso di menomazioni di carattere ortopedico-traumatologico.

La casistica è comunque variegata: così da potersi citare ipotesi di danno biologico di tipo psichico permanente richiesto da una donna rimasta coinvolta nel disastro ecologico di Seveso, senza conseguenze sul piano fisico, per il costante timore che la figlia possa un giorno ammalare, pur essendo nata senza alcuna tara morbosa ed ormai giunta alla pubertà. Così pure, ipotesi di danno psichico nei genitori del figlio nato con grave cerebropatia attribuita a comportamento colposo degli ostetrici.

In tutti questi casi fondamentale e primario è il problema dell'accertamento del nesso di causalità. Si dà per presunto che nei fatti della psiche non vi sia mai un solo evento causa necessaria e sufficiente, ma che vi debba essere sempre un substrato predisponente.

Questo è in linea generale certamente vero, ma a tale affermazione, spesso formulata al fine di sostenere la preesistenza del disturbo psichico rispetto all'evento doloroso sofferto

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ed assegnare a quest'ultimo semplice ruolo di fattore scatenante, è stato risposto che "se una persona ha un arto paralizzato, non per questo è lecito amputarglielo... analogamente se una persona è psichicamente fragile, emozionalmente labile o, in breve, ha un equilibrio psichico precario, non per questo è lecito provocarne il crollo e scatenare la nevrosi latente" (Giannini, 1990).

Si è, in altre parole, di fronte a reazioni diverse, a effetti diversi prodotti da un insulto analogo, a differenza di quello che concretamente si verifica per effetti traumatici di tipo organico, poiché vi è la presunzione, ma non sempre la dimostrabilità, di una condizione di labilità psichica, dì una concausa, di cui è difficile valutare l’efficacia, se preponderante o meno, nel produrre il quadro morboso.

D'altro canto nel danno psichico e nel "danno da lutto" o "di rimbalzo" potrà certo essere invocata la concausa, come di preferenza viene fatto anche in casi di nevrosi traumatiche e, riconoscendo, come ben fa la Corte Costituzionale, che "in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa ecc.) " il patema d'animo o lo "stato di angoscia transeunte"... può degenerare in un trauma fìsico o psichico permanente". Ma riteniamo comunque di poter affermare che può esistere anche una causalità diretta, comprovabile mediante l'uso corretto delle tecniche diagnostiche psichiatriche e psicologiche, tra la perdita di una persona cara ed il concretizzarsi di patologie psichiatriche irreversibili e che tale causalità diretta possa ancor più facilmente essere prospettata allorché la grave menomazione del congiunto, spesso tale da polarizzare per necessità i compiti ed i comportamenti di tutti i componenti del nucleo familiare, sia di quotidiano riscontro sicché il trascorrere del tempo non possa lenire il dolore e consentire di limitare ad una fase "transeunte" il disturbo psichico. In questi casi così drammatici non sempre infatti lo "stato anteriore"

implica una personalità tendenzialmente fragile, emozionalmente labile e facile alla conflittualità intrapsichica.

Inoltre, ancor più che nell'accertamento della condizione psichica patologica, problemi di ardua soluzione si devono affrontare nel giudizio sulla permanenza del disturbo.

Aspetto fondamentale e presupposto di risarcibilità resta d'altronde la permanenza del danno alla salute (fisica o psichica), sulla base di quanto precisato nella nota sentenza

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n.184 del 1986 della Corte Costituzionale che distingue fra danno morale, inteso come

"momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico" e danno biologico inteso quale violazione della "integrità psicofisica della persona": è la legittimazione a tutti gli effetti del danno (anche psichico) che, benché nessuna norma di legge escludesse esplicitamente, di fatto non trovava prima buona accoglienza né da parte della giurisprudenza, né da parte della dottrina medico legale.

Qui lo psichiatra forense è in una scomoda posizione fra la medicina legale, che ha strumenti di accertamento dotati di un sufficiente grado di attendibilità e la psichiatria, che di tali strumenti può fare a meno bastandole il criterio della sofferenza. Persino chi è stato tra i vessilliferi nel riconoscimento proprio del danno biologico ai congiunti del danneggiato è costretto ad ammettere che "il danno psichico consiste nella violazione dell'integrità psichica della persona. Però, al contrario della lesione fisica che configura come fenomeno tangibile, constatabile e controllabile nei suoi dettagli, la lesione psichica rappresenta un fenomeno intangibile, caratterizzato da elementi incorporei con sintomatologia soggettiva che si manifesta attraverso il comportamento del danneggiato"

(Giannini).

Peraltro, "per non premiare i bugiardi" (Basile), cioè a dire per smascherare esagerazioni e simulazioni, psichiatra e psicologo qualche indice l'hanno pure: pensiamo, oltre che alle classificazioni ed ai criteri diagnostici elaborati da Ross, alle possibilità che lo psicodiagnosta ha, con strumenti almeno talvolta dotati di una certa oggettività, per esempio di discriminare al Rorschach fra una depressione caratterogena ed una depressione reattiva; e questo é certamente uno solo tra gli esempi possibili delle potenzialità degli strumenti testistici. D'altronde non è che sia poi tanto facile simulare una malattia mentale di fronte ad un esperto; ed il problema della oggettivazione delle ripercussioni funzionali di un insulto lesivo si ha anche in ambito "organico" e non soltanto in ambito psichiatrico, come ben precisato da Basile che, parlando della difficoltà di accertamento delle sequele dì traumatismi cranici, puntualizzò "come non si può negare il risentimento psicologico per un danno fisico, dobbiamo riconoscere gli effetti patogeni di origine psichica con manifestazioni organico-funzionali su altri apparati".

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Ed in ogni caso, "il rimedio contro la frode deve essere trovato nella strenua ricerca della verità, non nell'abdicare alla responsabilità giuridica". (Linden in: Cendon).

Ciò detto tornando al tema della permanenza del disturbo non ci si nascondono le difficoltà di un tale giudizio in ambito psichiatrico perché la psiche ha insospettabili capacità di recupero. Difficile d'altronde prevedere un sistema di revisione del danno, per quanto non si possa che concordare con quanto puntualizzato da Ponti: "in molti casi ogni giudizio sulla durata della malattia dovrà essere necessariamente provvisorio, andranno verificate nel tempo la permanenza o la modificazione migliorativa ovvero peggiorativa della sintomatologia, né si potranno avere certezze - salvo, al solito, nei casi limite sulla fenomenologia destinata a residuare ovvero a scomparire. La valutazione del danno, anche per questo aspetto della permanenza, dovrà necessariamente rimanere delineata da confini incerti, sfumati, spesso aleatori". D'altronde alla previsione di una revisione del danno osterebbe, forse anche in modo insormontabile, la prospettiva di un giudicato mai concluso.

E' però da considerare che la difficoltà prognostica non è necessariamente impossibilità prognostica, soprattutto accogliendo il suggerimento, da parte di periti e consulenti ed ancor più dagli avvocati, di attendere un congruo periodo di tempo prima di procedere all'accertamento del danno psichico. Infatti una reazione depressiva dopo pochi mesi dalla morte o dalla lesione del congiunto è del tutto normale ed è inutile e controproducente proporre il soggetto all'osservazione peritale. Si devono quindi attendere tempi sufficientemente ampi che consentano una diagnosi e quindi anche una prognosi più sicura, tempi che non sono né ignoti né arbitrari. Per distinguere tra

"normale reazione al lutto" e depressione reattiva, per esempio, occorrerà che i sintomi permangano per un periodo di almeno sei mesi, anche se, per la verità, alcuni di questi criteri cronologici, che per esigenze pratiche necessariamente fanno riferimento al periodo di attesa il più breve possibile, ci sembrano mal applicabili ad esempio alla perdita dell'unico figlio o di tutti i figli o al continuo spettacolo dell'invalidità del congiunto: forse anche il criterio temporale perciò andrebbe tarato all'imponenza del dramma, prevedendo nuove osservazioni.

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Dopo di che, la permanenza del perturbamento psichico non potrà certo essere affermata in termini di certezza, ma solo di alta probabilità, connessa alla constatazione di un mutamento effettivo della persona che non può più dirsi "transeunte": una probabilità, cioè, almeno qualitativamente non diversa da quella sulla base della quale si muove la medicina legale anche nella valutazione del danno da lesioni organiche.

Resta comunque indiscutibile che è il caso singolo che conta, il suo dramma, e che l'indagine clinica ci dovrà orientare, più delle teorie e certo in luogo delle statistiche, nel definire sia le caratteristiche proprie della patologia, sia i "tempi" necessari per un giudizio sulla sua permanenza.

Un fantasma che le citate sentenze evocano e che già era presente all'indomani della sentenza 184/86 sul danno psichico è quello del rischio di moltiplicarsi di richieste di risarcimento, dello scatenarsi di "richieste pretestuose incontrollabili" (Basile) e di

"bramosie risarcitorie a fini di mero lucro e rivendicazione" (Pajardi). Il rischio è certo concreto, ma riteniamo che esso sia facilmente scongiurabile da parte di una giurisprudenza di semplice buon senso - forse accorreranno pronunce autorevoli, in ogni caso crediamo che l'intervento giurisprudenziale sia sufficiente ad arginare questi

"sciacallaggi".

Un ulteriore aumento del contenzioso potrebbe verificarsi per esempio per un versante particolare già affrontato per gli aspetti medico legali da Tavani e coll: il caso del figlio che rimane orfano in età precoce o precocissima. Infatti tutti gli esperti della psiche sono concordi nell'affermare che la perdita di un genitore in giovanissima età è fattore sicuramente pregiudizievole al sereno sviluppo della persona, poiché l'assetto della personalità si é venuto verosimilmente a strutturare - o si verrà a strutturare - con l'impronta incancellabile lasciata dalla privazione dei genitori, tale da compromettere i processi di crescita psicologica.

Non possiamo che ritenere non solo verosimile, ma addirittura quasi certa una modificazione in peggio, una distorsione di quello che sarebbe stato il normale sviluppo della persona qualora questa sia stata privata del genitore in età precoce, pur non nascondendoci la prospettiva che un tale principio, se accolto, moltiplicherebbe ulteriormente le richieste di risarcimento per danno alla salute. Si tratta però in questi

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casi di una modificazione certa, ma di cui non si può prevedere una configurazione sicuramente di tipo patologico né, nell'eventualità, il grado e le caratteristiche. Quindi, allo stato delle attuali norme di legge, in linea generale non risarcibile.

Notevoli sono comunque, in tutti i casi di danno psichico, le difficoltà che si incontrano nella pratica medico legale e psichiatrico forense, una volta formulata la diagnosi ed ammessa la permanenza del disturbo, nella quantificazione percentuale in termini di danno biologico. E' innegabile, come puntualizzato da Ponti, che possa essere pretenzioso fornire esatte valutazioni percentuali del danno derivante dalle menomazioni psichiche, talché si dovrebbe invocare la valutazione discrezionale del giudice, ex art.1226 del c.c., limitandosi a fornire gli elementi tecnici emersi dall’osservazione psichiatrica, che possano consentirgli di apprezzare le caratteristiche e l'entità del disturbo ed il differente peso che nella singola fattispecie hanno avuto i fattori predisponenti, le dinamiche interiori ed il fatto illecito. Tuttavia sul terreno pratico è ben noto come sia spesso inevitabile, per l'esplicita richiesta del giudice, l'obbligo di pronunciarsi in termini percentuali; sicché certo é auspicabile, come già ebbe a proporre Fiori all'indomani della sentenza 184/86, il giungere in tempi brevi ad un metodo accettato da tutti e divulgato attraverso un decalogo valutativo, essenziale e schematico, in carenza del quale è prevedibile che ad un regime di relativa iniquità se ne sostituirà uno ben più largamente arbitrario e diseguale.

In definitiva è certo che il riconoscimento del "danno da lutto" o del "danno di rimbalzo" ai congiunti del leso pone problemi oltre che giuridici, di opportunità politica e di costi sociali, ancor prima che problemi medico legali e psichiatrico forensi. Il punto naturalmente non è tanto quello di riconoscere la possibilità che un evento come la morte di un proprio caro o il tragico spettacolo della sua sofferenza possano a loro volta produrre un dolore, ché questa è constatazione comune, diffusa e non contestabile. I problemi sono se, fino a che punto e con quali criteri si possa stabilire se il dolore sia suscettibile di divenire disturbo mentale e quindi se, fino a che punto e con quali criteri, questo dolore o questo "disturbo" siano suscettibili di divenire "menomazione biopsichica" di tipo permanente meritevole di risarcimento in termini di danno alla salute e non di mero danno morale. Innegabili, mancando una conoscenza diretta dello "stato

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anteriore", sono le difficoltà di ricollegare all'evento luttuoso il quadro di perturbamento psichico in esame ed inoltre sul piano operativo si incontrano notevoli problemi di ordine pratico, quand'anche adeguata e corretta sia stata l'analisi della correlazione causate e concausale, nel determinare in concreto, in termini percentuali, l'entità del danno biologico di tipo psichico. Il risvolto negativo sta infatti nel rischio di difformità di valutazioni dovute all'aver attribuito, in questo modo, tanto potere al singolo perito.

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