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SCUOLA ALTA FORMAZIONE SPECIALISTICA AVVOCATI

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Academic year: 2022

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SCUOLA ALTA FORMAZIONE SPECIALISTICA AVVOCATI

di Cammino

in collaborazione con Scuola Superiore Avvocatura e i Dipartimenti di giurisprudenza

delle Università di Roma3, Cassino-Lazio meridionale

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Genitorialità e minorenni

L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

L’autorizzazione al riconoscimento dell’infrasedicenne

Avv. Carolina Ferro

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L’interruzione volontaria della gravidanza della

minorenne

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza

L’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla L. 22 maggio 1978 n. 194. Lo stesso titolo della legge ne richiama la finalità: la tutela sociale della maternità (che è conseguenza del suo valore sociale) e la tutela della vita umana.

L’IVG non può essere considerata un mezzo per il controllo delle nascite. Anzi, lo Stato, che deve garantire il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, deve promuovere, unitamente alle regioni ed agli enti locali, i servizi socio-sanitari ed ogni altra iniziativa per evitare che l’istituto venga utilizzato per la limitazione delle nascite.

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La legge, nel determinare cause ed iter dell’IVG, opera una distinzione tra i primi novanta giorni della gravidanza ed il periodo successivo.

Entro i primi novanta giorni dal concepimento, in base al disposto dell’art. 4 L. 194/1978, la donna può rivolgersi a:

1. consultorio pubblico istituito ai sensi dell’art. 2 lettera a) della Legge 29 luglio 1975 n.405 (le cui funzioni sono indicate nell’art. 2 della L. 194/78);

2. Struttura socio sanitaria a ciò abilitata dalla regione;

3. Medico di sua fiducia.

La disciplina dell’interruzione volontaria della

gravidanza nei primi novanta giorni

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I compiti dei consultori pubblici:

1. Informare la donna sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione nazionale e regionale e sui servizi socio – sanitari offerti dalle strutture che operano sul suo territorio;

2. Informarla sulle modalità idonee ad ottenere il rispetto delle norme sulla legislazione del lavoro a tutela della gestante;

3. Attuare concreti interventi quando la gravidanza o la maternità creano problemi non risolvibili con i normali interventi;

La disciplina dell’interruzione volontaria della

gravidanza nei primi novanta giorni

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4. Aiutare la donna in difficoltà, cercando di indurla a superare le cause che potrebbero portare all’interruzione della gravidanza, ricorrendo anche a formazioni sociali o associazioni di volontariato che possono aiutare la donna anche dopo il parto.

Anche ai minori è consentita la somministrazione su prescrizione medica, sia nelle strutture sanitarie che nei consultori, di tutti i mezzi necessari per il conseguimento delle finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile.

La disciplina dell’interruzione volontaria della

gravidanza nei primi novanta giorni

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni

La donna può addurre circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione a:

a. suo stato di salute;

b. sue condizioni economiche, sociali o familiari;

c. circostanze in cui è avvenuto il concepimento;

d. previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni

Le struttura di cui all’art. 4 ed il medico di fiducia devono rispettivamente garantire e compiere i necessari accertamenti sullo stato di salute della donna.

In particolare, il consultorio pubblico e la struttura socio- sanitaria, soprattutto quando la richiesta di IVG è determinata dall’incidenza delle condizioni economico- socio-sanitarie della donna, devono aiutarla a rimuovere le cause poste a base della decisione, offrendole il supporto sia per la fase della gravidanza che per quella successiva al parto.

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni

Il medico di fiducia, a sua volta, deve compiere tutti i necessari accertamenti sanitari, informando la donna dei suoi diritti ed anche, dopo avere valutato le circostanze che l’hanno indotta alla decisione di interrompere la gravidanza, rendendola edotta in merito agli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio sanitarie che possono offrirle aiuto e sostegno.

La successiva valutazione del medico di fiducia, del consultorio pubblico o della struttura socio- sanitaria attiene all’urgenza o meno dell’intervento.

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni

Se viene riscontrata l’urgenza, il medico rilascia con immediatezza alla donna un certificato che attesta la necessità di intervento immediato, che sarà da lei presentato ad una delle strutture autorizzate a praticare l’interruzione della gravidanza.

Se, al contrario, non viene ravvisata alcuna urgenza, alla donna viene rilasciato un documento attestante lo stato di gravidanza, la richiesta di interruzione, con l’invito a soprassedere per sette giorni, decorsi i quali la stessa può presentarsi presso una sede autorizzata.

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La disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni

Dopo i primi novanta giorni, l’interruzione della gravidanza può essere presentata solo in due casi (art. 6 L. 194/1978):

1. Quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna;

2. Quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Quando vi è possibilità che il feto abbia vita autonoma, l’IVG può essere praticata solo quando vi è pericolo di vita per la donna e il medico è tenuto ad adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

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L’obiezione di coscienza

La legge da rilievo anche all’obiezione di coscienza del personale sanitario e di quello esercente le attività ausiliarie, i quali non sono tenuti a prendere parte agli interventi per l’interruzione della gravidanza se, con preventiva dichiarazione, ne sollevano il rifiuto per motivi legati alle loro convinzioni etiche, morali o religiose.

In ogni caso, essi non possono esimersi dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento e non possono invocare l’obiezione di coscienza quando il loro intervento sia indispensabile per salvare la vita alla donna che sia in imminente pericolo di vita.

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Il ruolo centrale della volontà della donna

La decisione di interrompere la gravidanza è lasciata esclusivamente alla donna, la cui volontà viene estremamente valorizzata in considerazione dell’incidenza della gravidanza e del parto sulla sua salute psicofisica.

L’art. 5 (1° e 2° comma) della L.194/78 prevede, ove la donna lo consenta, che la persona indicata come padre del nascituro possa partecipare ai colloqui presso il medico di fiducia o presso il consultorio o la struttura socio sanitaria. Tuttavia, egli non può in alcun modo intervenire nella decisione o opporsi: il diritto di interrompere la gravidanza nei termini consentiti dalla legge è lasciato alla piena autodeterminazione della donna.

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Il ruolo centrale della volontà della donna

La questione è stata anche sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, innanzi alla quale è stata sollevata questione di legittimità dell'art. 5 della legge 22 maggio 1978, n. 194, in riferimento agli articoli 29 e 30 della Costituzione; ad avviso del giudice "a quo" la norma impugnata, nella parte in cui non riconosce rilevanza alla volontà del padre del concepito, marito della donna che chiede di interrompere la gravidanza, violerebbe il principio di uguaglianza tra i coniugi che gli artt. 29 e 30 Cost. pongono a base del matrimonio.

La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 389 del 31 marzo

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Il ruolo centrale della volontà della donna

1988, ha rilevato la manifesta inammissibilità della questione: «…Considerato che la norma impugnata è frutto della scelta politico-legislativa - insindacabile da parte di questa Corte - di lasciare la donna unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza; che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell'intera normativa e, in particolare, all'incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna».

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Il ruolo centrale della volontà della donna

Anche la Corte EDU ha ritenuto non configurabile in capo al marito un diritto ad essere consultato o ad adire il giudice nel caso in cui la moglie sia ricorsa all’aborto in assenza di sua condivisione, considerando l’esclusione del padre del nascituro dal processo decisionale in sintonia col rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (Corte EDU, 5 settembre 2002, caso Bosov c. Italia).

Infine, molto significativa al riguardo è la sentenza n. 388 del 26 gennaio 2006, del Tribunale di Monza, che, nel decidere sulla richiesta di addebito della separazione alla

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Il ruolo centrale della volontà della donna

moglie, per essersi sottoposta ad un intervento di interruzione della gravidanza, nonostante la contraria volontà del marito, che si riteneva leso nel «diritto alla paternità», così decideva: «…i principi di diritto sostanziale che, ai fini della presente decisione, possono essere enucleati dalla disciplina speciale in materia di aborto, sono in tutta evidenza di segno contrario alla tesi, prospettata dal ricorrente, che vorrebbe affermare ed introdurre l’obbligo per la donna (ed il corrispondente diritto del partner) di rendere partecipe il marito – padre della procedura e della decisione finale di interruzione della gravidanza.

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Il ruolo centrale della volontà della donna

Gioverà rammentare che, nella ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, la Corte di Cassazione ha affermato l’esistenza di un vero e proprio diritto della madre all’aborto (Cass. 1° dicembre 1999 n.12195)…La stessa Suprema Corte, infatti, ha avuto modo di considerare irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l.194/1978, nella parte in cui, consentendo alla madre l’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni dal concepimento, non considera il diritto alla paternità del padre del concepito, nonché il diritto alla vita di quest’ultimo (Cass. 5 novembre 1998 n.11094).

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Il ruolo centrale della volontà della donna

Del resto, sarebbe quantomeno incongruo stabilire che la donna, quando abbia assunto anche la condizione di moglie, debba essere sanzionata (con l’addebito della separazione e con le rilevanti conseguenze giuridiche a tale pronunzia direttamente riconducibili) a causa e per l’effetto dell’esercizio di un diritto riconosciutole dalla legge…Pertanto, l’interruzione volontaria della gravidanza non potrà in alcun modo essere considerata quale questione rilevante ai fini dell’addebito della separazione.». Il tribunale respingeva anche la richiesta di risarcimento del danno, sempre per violazione del diritto alla paternità, avanzata dal marito.

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

La legge 194/1978 prevede (in base al combinato disposto degli artt. 1 e 12) che anche la donna minorenne possa chiedere l’autorizzazione all’interruzione volontaria della gravidanza, senza che sia prevista un’età minima.

Tuttavia, non essendo la stessa in grado di esercitare autonomamente i propri diritti, necessita dell’assenso dei genitori o del tutore, assenso che costituisce condizione necessaria per potersi rivolgere al consultorio pubblico o alla struttura socio-sanitaria o al medico di fiducia.

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L’art. 12 della L. 194/78 prevede una particolare procedura (per l’IVG nei primi novanta giorni dal concepimento) se:

1. Se vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione dei genitori o del tutore;

2. Se questi rifiutano l’assenso o se danno pareri difformi.

In tal caso, il consultorio o la struttura socio sanitaria o il medico di fiducia, dopo avere espletato i compiti di cui all’art. 5, entro sette giorni rimettono una relazione dettagliata, corredata dal loro parere, al Giudice tutelare del luogo dove essi operano. Non è necessaria l’autorizzazione del GT per la minore emancipata, la quale è pienamente capace per gli atti di natura personale.

minorenne

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

Il GIUDICE TUTELARE, per il quale non è prevista l’obiezione di coscienza, sentita la minorenne e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che la stessa adduce e della relazione trasmessagli, può, con atto non soggetto a reclamo, autorizzare la donna all’interruzione volontaria della gravidanza.

Ma qual è il compito del GT? Deve solo consentire alla minore di decidere in merito all’interruzione della gravidanza, limitandosi a verificarne l’effettiva consapevolezza della scelta da intraprendere, o può, invece, esprimersi a favore o contro l’aborto, sostituendosi

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

Sul punto si è pronunciata la Corte Costituzionale con l’ordinanza n.196 del 19 luglio 2012, dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 L. 194/78 nella parte in cui consente alla donna di procedere volontariamente all’IVG entro i primi novanta giorni dal concepimento. Il Giudice Tutelare di Spoleto, giudice a quo, rilevato che «…in virtù della direttiva europea 98/44/CE, art. 6, che riconosce l’embrione umano, quale soggetto di primario valore assoluto, fin dalla fecondazione», sollevava il contrasto della norma in esame con gli art. 2, 32 comma 1, 11 e 117 Cost.

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

Proseguiva il GT adducendo che «…in ossequio al principio di primazia del diritto comunitario sul diritto interno, la nozione di embrione umano, come elaborata dalla Corte Europea di Giustizia dell’Unione Europea nella decisione dell’8 ottobre 2011, deve trovare piena cittadinanza nel nostro ordinamento…deve essere tutelato l’uomo sin dalla fecondazione…che la volontaria interruzione della gravidanza genererebbe un vulnus al diritto alla salute riconosciuto a chiunque possiede un’identità giuridicamente rilevante, e, quindi, anche all’embrione.

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

La Corte Costituzionale precisava come il compito attribuito al GT è «di "autorizzazione a decidere", un compito che (alla stregua della stessa espressione usata per indicarlo dall'art. 12, secondo comma, della legge n. 194 del 1978) non può configurarsi come potestà co-decisionale, la decisione essendo rimessa - alle condizioni ivi previste - soltanto alla responsabilità della donna» (ordinanza n. 76 del 1996); e che «il provvedimento del giudice tutelare risponde ad una funzione di verifica in ordine alla esistenza delle condizioni nelle quali la decisione della minore possa essere presa in piena libertà morale» (ordinanza n. 514 del 2002).

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

Emblematico, al riguardo, è un provvedimento del GT di Monza del 29 febbraio 2016, di rigetto della richiesta di autorizzazione per mancata comparizione della minorenne: «la mancata comparizione della minore al fine di essere sentita, non consente a questo giudice di operare alcuna verifica in ordine alla effettiva consapevolezza, in capo alla stessa, della scelta alla quale si è determinata, e, in particolare, di verificare se la stessa sia in grado di comprenderne il significato e le conseguenze; in assenza di tale necessaria verifica, la richiesta, allo stato, non può essere accolta…fermo restando la possibilità per la minore di presentare nuova istanza»

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L’interruzione volontaria della gravidanza della minorenne

È anche previsto dall’art. 12 L.194/78 che, in caso di urgenza e di grave pericolo per la salute della minore, il medico, senza né assenso di genitori o tutore e senza adire il giudice tutelare, possa certificare l’esistenza delle condizioni che giustificano l’interruzione della gravidanza.

In tal caso, la certificazione del medico costituisce titolo per ottenere in via di urgenza l’intervento e, qualora necessario, il ricovero.

Per l’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni dal concepimento, si applicano le stesse procedure previste per la donna di maggiore età, indipendentemente dall’assenso dei genitori o del tutore.

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L’autorizzazione al riconoscimento

dell’infrasedicenne

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dell’infrasedicenne

Art. 250 c.c. 5° comma

«Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze ed avuto riguardo all’interesse del figlio».

L’articolo in esame è stato oggetto di integrazione da parte della legge 219/2012, che ha aggiunto all’originaria formulazione della norma l’inciso «salvo che il giudice li autorizzi, valutate le circostanze ed avuto riguardo all’interesse del figlio», originariamente non previsto. La ratio dell’intervento è ravvisabile sia nel fine di responsabilizzare i genitori, anche se giovanissimi, sia nel ridurre la durata del periodo nel quale il figlio non era

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Le circostanze rilevanti, ai fini dell’autorizzazione, sono:

1. L’età anagrafica del minore 2. La sua maturità psico-fisica 3. L’ambiente familiare

4. L’idoneità dell’ambiente familiare a supportare il genitore infrasedicenne ed a sostenerlo nell’assunzione delle sue responsabilità.

La norma dell’art. 250 comma 5° c.c. deve essere coordinata con l’art. 11 della L. 184/1983 (Diritto del minore ad avere una famiglia), che, al comma 3°, si riferisce al rinvio della procedura di immediata dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, quando non è riconoscibile per difetto di età del genitore.

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In tal caso, la procedura è rinviata fino al sedicesimo anno di età del genitore, purché il nato sia assistito dal genitore o dai parenti sino al quarto grado, permanendo, comunque, in questo caso, il rapporto col genitore.

Al compimento del sedicesimo anno di età, il genitore può richiedere un ulteriore sospensione della procedura per altri due mesi.

La medesima sospensione per ulteriori due mesi può essere chiesta anche dal genitore che sia già stato autorizzato al riconoscimento prima del compimento del sedicesimo anno di età.

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Se il Tribunale sospende la procedura, nomina, ove necessario un tutore provvisorio. Se, nei termini, viene effettuato il riconoscimento, la procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità, se non sussiste abbondono morale e materiale, viene dichiarata chiusa.

Al contrario, se non si procede al riconoscimento, il Tribunale per i minorenni, senza altra formalità, provvede a dichiarare lo stato di adottabilità.

Intervenuta la dichiarazione di adottabilità, il riconoscimento è privo di effetti. L’eventuale giudizio per la dichiarazione di paternità e maternità è sospeso di diritto, estinguendosi in seguito al passaggio in giudicato della pronuncia di adozione.

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L’art. 250 5° comma c.c. attribuisce la competenza a concedere l’autorizzazione al «giudice», senza specificare se si tratti di Giudice ordinario o Tribunale per i minorenni.

L’autorizzazione al riconoscimento dell’infrasedicenne, tuttavia, non è materia che l’art. 38 disp. att. cod. civ., come novellato dall’art. 3 L.219/2012, attribuisce alla competenza del Tribunale per i minorenni, sebbene, a tal proposito, potrebbe essere fuorviante l’espresso richiamo, ad opera proprio dell’art. 38 disp. att. cod. civ., all’art. 251 c.c., che regola l’autorizzazione al riconoscimento dei figli incestuosi, che, al contrario, compete al Tribunale per i minorenni. Con l’ordinanza n. 16103 del 29 luglio 2015, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto applicabile alla fattispecie:

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«l provvedimenti di cui all'art. 250 c.c., non sono più, pertanto, di competenza del giudice specializzato, senza che possa farsi eccezione per quello previsto dal comma 5: deve infatti escludersi che l'(anch'esso novellato) art. 251 c.c., che subordina all’autorizzazione del giudice il riconoscimento del figlio nato da persone fra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta o all'infinito, detti nell'ultimo periodo (secondo cui "il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal tribunale per i minorenni") una disposizione di carattere generale valevole anche per il riconoscimento del figlio nato da genitore non ancora sedicenne.

Va in primo luogo rilevato, sul piano sistematico, che v'è una chiara differenziazione fra le due ipotesi contemplate dalle norme in esame.

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Attribuendo al tribunale ordinario la competenza a provvedere sulla domanda proposta ai sensi dell'art. 250 c.c., di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, ancorchè minori, la L. n. 219 del 2012, ha infatti inteso sottolineare la necessità di rimuovere ogni discriminazione ancora esistente fra figli naturali e figli legittimi, dovendosi tutelare l'interesse dei figli in quanto tali - e in quanto unici titolari della posizione giuridica protetta - a conseguire il proprio status e la propria identità biologica, quali diritti soggettivi della personalità riconosciutigli dalla Costituzione italiana e dalle fonti sovranazionali. Ebbene, non pare dubbio che al medesimo intento risponda la previsione contenuta nel modificato ultimo comma dell'articolo che, nell'ammettere - previa autorizzazione del giudice - il riconoscimento anche da parte del genitore non ancora sedicenne (in precedenza non consentito), evidenzia come le

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esigenze di tutela di quest'ultimo non possano più ritenersi prevalenti rispetto a quelle del figlio.

Per la fattispecie di cui all'art. 251 c.c. è stata invece dettata una specifica disciplina, che stabilisce, da un lato, che il riconoscimento, quale che sia l'età del genitore richiedente, possa essere effettuato solo previa autorizzazione del giudice e prevede, dall'altro, che il provvedimento venga emesso avuto riguardo all'interesse del figlio posto in stretta correlazione con la necessità di evitargli qualsiasi pregiudizio: deve allora ritenersi che, con esclusivo riferimento a tale ipotesi, il legislatore abbia previsto la possibilità che il diritto allo status filiationis ceda a fronte del diritto alla protezione ed alla salvaguardia del figlio nato da una relazione incestuosa, in ragione della situazione, particolarmente delicata, in cui egli versa.

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La peculiarità della posizione del figlio nato da persone legate da un vincolo di parentela giustifica, in definitiva, la scelta di attribuire al tribunale specializzato (a composizione mista ed anche per questo maggiormente attrezzato allo svolgimento di indagini che richiedono l'integrazione di saperi squisitamente giuridici con quelli propri delle discipline socio-psicologiche) a provvedere sulla domanda di autorizzazione al riconoscimento del minore proposta ai sensi dell'art. 251 c.c.. Va peraltro verso osservato, sul piano meramente esegetico, che l'attuale testo dell'art. 38 disp. att. c.c., così come ulteriormente modificato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, attribuisce espressamente al giudice minorile la competenza per il provvedimento autorizzativo di cui all'art. 251 c.c., ma non per quello previsto dall'art. 250, u.c..

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La competenza territoriale è del tribunale del luogo in cui il minore risiede abitualmente.

Stabilita la competenza del tribunale ordinario, occorre verificare, nel silenzio della legge, se essa spetti al giudice tutelare o al tribunale in composizione collegiale. Sul punto si registra un’isolata decisione del Tribunale di Catanzaro del 5 marzo 2013, secondo cui la competenza andrebbe attribuita al giudice tutelare sul rilievo che l’autorizzazione, atto tipico di quel magistrato, avrebbe solo la funzione di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto, superando, in tal modo, la presunzione di incapacità del minore infrasedicenne. Inoltre, tale scelta valorizzerebbe la posizione centrale assunta dal Giudice Tutelare in tema di protezione dei minori di età e delle persone incapaci, tanto nel codice civile che nelle leggi

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In realtà, venuta meno la competenza del TM a seguito della modifica apportata dall’art. 38 disp. att. cod. civ., trattandosi di procedimenti in materia di famiglia, la competenza è sicuramente del Tribunale in composizione collegiale.

Il procedimento non ha natura contenziosa e rientra nelle procedure di volontaria giurisdizione; inizia con ricorso e prevede la partecipazione necessaria del pubblico ministero. La decisione è assunta con decreto, reclamabile in Corte d’appello. Il provvedimento emesso dal giudice di secondo grado, essendo revocabile e modificabile, non è ricorribile in Cassazione.

.

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La legittimazione attiva

Il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio è atto personalissimo, per cui può essere compiuto solo dal genitore, ritenendosi inammissibile ogni forma di sostituzione o di rappresentanza.

Bisogna, tuttavia, distinguere la legittimazione sostanziale al riconoscimento dalla legittimazione processuale alla richiesta di autorizzazione giudiziale al riconoscimento.

Secondo il Tribunale di Milano, che si è pronunciato con provvedimento del 2 dicembre 2013 «In materia di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, in caso di minore di anni sedici, l’autorizzazione va richiesta dal genitore interessato che gode di legittimazione attiva».

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Il ragionamento del Tribunale di Milano prende le mosse dal divieto di sostituzione processuale, salvo casi eccezionali previsti dalla legge, di cui all’art. 81 c.p.c., rapportandolo, principalmente, agli atti personalissimi, in cui, in linea di principio, risulta perfino inammissibile una rappresentanza sostitutiva. In materia di riconoscimento, l’atto giuridico tipizzato dall’art. 254 cc (atto di nascita o apposita dichiarazione resa davanti all’ufficiale di stato civile o contenuta in un atto pubblico o in un testamento) può essere compiuto direttamente e personalmente da chi riconosce. L’art. 250 c.c. comma quinto non muta assolutamente la struttura morfologica dell’istituto, ma introduce l’autorizzazione giudiziale per il caso in cui il genitore non abbia ancora compiuto il sedicesimo anno

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Già con decreto del 17 aprile 2013, il tribunale di Milano aveva precisato che « Il procedimento ex art. 250, comma V, c.c. non è diretto ad accertare né la paternità del neonato, né l’idoneità della ricorrente a validamente occuparsi della cura, della crescita e dell’educazione del piccolo, bensì solo a verificare se possa la madre procedere a quel riconoscimento che, comunque, costituirebbe un suo diritto, laddove ella avesse già compiuto il sedicesimo anno di età». Il giudice, pertanto, giunge alla considerazione che l’autorizzazione va richiesta direttamente dal genitore (infrasedicenne), al cui impulso ed alla cui volontà resta affidato. Non lascia neanche spazio ad una legittimazione attiva dei servizi sociali, precisando che questi, semmai, potranno attivarsi per un intervento dell’Autorità competente, in caso di situazioni che richiedano una presa in carico o l’intervento

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Non è apparsa dello stesso avviso la Corte di Cassazione, almeno così si deduce dall’ordinanza 16103/2015, già citata in questo lavoro, in cui il ricorso introduttivo era stato presentato proprio dai genitori dell’infrasedicenne, in qualità di genitori, senza che in motivazione sia stato mosso alcun rilievo al riguardo.

La questione, quindi, è ancora molto controversa, come è dubbio se occorra nominare un curatore speciale quando l’azione è esercitata dai genitori, con i quali è ravvisabile un conflitto di interessi.

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