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Un’occasione universitaria

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Academic year: 2021

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Premessa

Nelle opere Alfieriane è presente un’antitesi continua: titanismo disperato e inettitudine disarmante, individualismo esasperato e adesione all’illuministica concezione dell’universale uguaglianza fra gli uomini, sintomi di un’interiorità conflittuale tendente alla radicalizzazione, un continuo gioco di forze interiori, sintetizzato dall’autore, con la consueta lucidità introspettiva, nel verso “la mente e il cor meco in perpetua lite”

1

. Tale contraddizione, per quanto scandagliata o offuscata dagli studi critici di due secoli, si rivela tanto feconda da ricoprire la personalità dell’Astigiano di un fascino magnetico a cui, nonostante il passare del tempo, non è possibile rimanere insensibili.

Un’occasione universitaria

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mi ha avvicinata all’immensa statura dell’Alfieri tragediografo, in particolare all’analisi di quello che comunemente è stimato come il suo capolavoro, il Saul; di questo, troppe volte veniva sottolineato nelle pagine critiche il carattere autobiografico per non cedere alla tentazione di conoscere, in modo intimo e personale, al di fuori di qualsiasi direttiva accademica, questo “uomo” Alfieri.

Avendo formato l’interesse per la vicenda umana dell’autore sulla lettura di una delle opere più rappresentative del suo titanismo, era insospettabile che l’aspettativa venisse quasi disattesa dall’opera autobiografica in prosa, testimone di un’individualità più complessa ritratta in pose meno eroiche.

E’ in tale contrasto che è emersa con forza la percezione di una carica autoironica della narrazione.

Senza dubbio una prospettiva incidentale, ma utile per mettere in luce il carattere polare della personalità alfieriana e moltiplicarne esponenzialmente la capacità seduttiva.

Un’ingenua lettura quindi, della quale sarà comunque impossibile eludere il ricordo, mi ha indotto allo studio della componente ironica, della propensione verso il riso in tutte le sue sfumature, dalla celia bonaria alla frustata sarcastica, tanto più sorprendente e convincente quanto meno sospettabile ed attesa.

Un ampio preambolo sul genere autobiografico sarà necessario per dare conto della tipicità di alcuni aspetti che non possono essere considerati peculiari dell’opera in esame. In particolare, le riflessioni dei principali teorici del genere autobiografico

1

V. Alfieri, Rime, a cura di F. Maggini, Centro nazionale di studi alfieriani, Asti 1954, p. 122, v.11.

2

Il corso di Letteratura Teatrale tenuto dalla prof. Guidotti nell’a.a. 2011-2012 presso l’Università di

Pisa.

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saranno necessarie per comprendere alcune componenti della scrittura di sé alfieriana in un più ampio contesto del genere letterario.

Per quanto riguarda la specificità dell’opera dell’Astigiano, l’analisi procederà in direzione delle tecniche narrative e rappresentative che possono in certa misura essere considerate peculiari dell’Alfieri, sulla base di un breve esame intertestuale dei principali temi che guidano questa rappresentazione del proprio Io.

Si cercherà di mettere in evidenza la presenza connaturata nello scrittore di comicità e ironia, sempre nell’ambito dell’autobiografia, e se ne indicherà lo sviluppo nei passi dell’opera in cui l’autore anticipa, con brevi schizzi e bozzetti, il ritratto a tutto tondo che consegna nella prosa della Vita.

Sarà quindi in una prospettiva di intertestualità autobiografica, ovvero in quei testi che con qualche forzatura della definizione del genere possono creare un corpus autobiografico, che la ricerca procederà, escludendo le opere tragiche in cui l’ironia, e soprattutto l’autoironia, non possono trovare spazio.

Nella Vita l’autorappresentazione alfieriana si muove sotto l’insegna della vocazione poetica, dello sviluppo di una carriera letteraria che si costruisce in una dialettica fra faticosa iniziazione e fulminante genialità; è impossibile non notare come questo tema principale, ovvero l’ingresso dell’autore nel mondo della poesia, sia trattato talvolta con un sovraccarico di autoironia.

Tale autoironia verrà analizzata nell’opera, secondo un ordine che tiene conto della divisione strutturale e temporale delle due redazioni e delle due parti della Vita: verrà seguito lo sviluppo della vena autoironica del testo, che in un confronto fra la prima e la seconda redazione, risulta accentuata.

Tenendo conto delle osservazioni e degli apporti filologici dei più importanti curatori delle edizioni

3

, verranno indicati i passaggi fra le due stesure con chiara esibizione di tutti i luoghi in cui l' Alfieri del 1803 è intervenuto, attraverso ripensamenti e correzioni, databili fra il 1790 e la data estrema, sulla narrazione della stesura anteriore. Si tenterà un’analisi in grado di mettere in rilievo i livelli ironici presenti nel testo, dei quali si daranno alcuni esempi tramite la citazione di brani significativi, prendendo in considerazione tutti quegli elementi retorici, sintattici, lessicali e linguistici che sul

3

Ricordiamo, in ordine cronologico, Vita, a c. di E. Bertana, Napoli, Perrella, 1910; Vita scritta da esso, a c. di L. Fasso, Asti, Casa d' Alfieri, 1951.; Vita a c. di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1967; Vita, a c. di G.

Cattaneo, Milano, Garzanti, 1977, 1981; Vita, a c. di V. Branca, Milano, Mursia, 1983.

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piano dei rapporti sintagmatici concorrono a caratterizzare lo stile autoironico della narrazione autobiografica.

Infine, passando dall’analisi al giudizio, cercheremo di dare un’interpretazione di questa autoironia, sulla scorta di quanto affermato dagli studiosi dell’Alfieri comico.

Alfieri sorridente è un’ immagine che non appartiene affatto alla vulgata;

tradizionalmente si è soliti attribuirgli caratteri romantici e vicini al superuomo nicciano più che all’esprit illuminista.

Nella critica, questa “altra faccia del tragico”

4

è diventata oggetto di studio in tempi relativamente recenti, ma con contributi non ignorabili.

Le commedie alfieriane rivelano un sarcasmo, un’ironia feroce che hanno fatto pensare alla disillusione matura di uno spirito appassionato in gioventù; la maggioranza dei critici concorda nel sottolineare l’assenza di una effettiva comicità nelle commedie, inconciliabile con il pessimismo cosmico che le pervade.

La contiguità cronologica delle commedie con la stesura dell’ultima versione e dell’ultima parte dell’opera autobiografica fanno sì che si sia letto in senso distruttivo anche l’elemento autoironico presente nella Vita, secondo una prospettiva per la quale l’ultimo Alfieri arriverebbe a coinvolgere, in una generale decostruzione pessimista attuata attraverso un riso sarcastico, anche il più alto valore, quello della poesia, incarnato dalla figura di Omero presente nella chiusura della Vita e nell’ultima opera dell’autore, la Finestrina.

Un’interpretazione, questa, che rischia di confondere il pessimismo e il comico forte

5

, ravvisato quasi all’unisono dai critici nell’Alfieri comico, con lo stile ironico dell’autobiografia, da esso invece disgiunto.

Una semplice retorica della modestia è ciò che più facilmente spiega tale atteggiamento derisorio, ma sulla base dei valori espressi con forza nel trattato Del Principe e delle lettere, per quanto riguarda la natura del poeta, e nella Virtù Sconosciuta, per quanto invece concerne una scala di valori e leggi morali proferite per l’uomo, si potrà

4

G.Barberi Squarotti, L’altra faccia del tragico e le commedie dell’Alfieri, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze, 1983, v. 4, pp. 405-26.

5

Placella, Leopardi, Alfieri e il comico “forte”, Rivista di letteratura italiana” (Pisa, 2006), saggio in cui

Placella individua una corrispondenza fra le teorie sulla commedia espresse in brani della Vita alfieriana

e dello Zibaldone, entrambe descriventi un comico “forte” ovvero, come spiega Placella stesso “medio,

non terenziano, secondo i gusti settecenteschi, bensì un comico di rottura, caratterizzato da una forte

dose di antagonismo nei confronti del proprio tempo, un comico dal riso forte , aristofanesco e plautino”.

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riconoscere la funzione fondamentale che l’autoironia investe come meccanismo narrativo nella strategia dell’autorappresentazione.

Lo scherno, la celia bonaria, il persiflage che Alfieri indirizza al suo stesso personaggio creano, e vivono, nel paradosso dell’esaltazione che della virtù è possibile fare attraverso l’abbassamento comico e parodico, nel modo in cui questa ricerca tenterà di illustrare.

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Capitolo I - Autobiografia: un genere letterario controverso

Che un ampio preambolo sullo statuto dell’autobiografia venga anteposto a qualsiasi tipo di analisi critica del testo, all’interno di una discussione che verta su di un testo autobiografico, è più una necessità che un topos della scrittura critica e accademica.

Se la personalità alfieriana è già di per sé tanto inafferrabile da aver incoraggiato, e tuttora incoraggia, numerosi studiosi a rileggerne l’opera al fine di inquadrare definitivamente le caratteristiche dell’uomo Alfieri, a questa prima difficoltà si aggiunge l’altrettanto sfuggente statuto del mezzo attraverso il quale l’autore consegna la storia della propria esistenza, e quindi della propria personalità.

Questo mezzo è l’autobiografia, apparentemente il tramite più esplicito e diretto con cui un autore possa parlare di sé; una piccola scorsa ai numerosi saggi che si occupano di questa particolare scrittura, basterà a rendere conto delle implicazioni e delle ambiguità che portano di necessità ad abbandonare un’ingenua definizione di autobiografia.

Sarà sufficiente, per verificare la consapevolezza della indeterminabile natura dell’autobiografia, più che per lamentarne la problematicità, ricordare l’affermazione di Onley, uno fra i molti autori impegnati nella riflessione e nello studio del genere:

The subject of autobiograpy produces more questions than answers, more doubts by far (even of its existence) than certains.

6

Una generica ed intuitiva definizione della scrittura autobiografica porta innanzitutto a considerare come caratteristica fondamentale di questo genere la coincidenza di autore, narratore e personaggio.

Un assunto tanto banale è proprio il nodo centrale della riflessione su questo genere di scrittura, che ha portato alla proliferazione di riflessioni non soltanto in ambito letterario, ma anche in quello psicologico e, in termini più ampi, filosofico.

La considerazione di questa particolare coincidenza di funzioni narratologiche, presenta delle complicazioni innanzitutto per il soggetto che si propone di mettere su carta la storia della propria vita, cioè l’autore; dalla sua prospettiva, infatti, nello scrivere di sé,

6

J. Olney, Autobiography: essays theoretical and critical, Princeton university press, 1980, p.5 (“Il

soggetto dell’autobiografia produce più domande che risposte, molti più dubbi (persino sulla sua

esistenza) rispetto ad altri”, trad. nostra).

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si innesca fin da subito un processo di riflessione sul tempo e sulla memoria alla ricerca di obiettività e di strumenti di espressione.

Tale ricerca risulta fin da subito diretta verso un’inottenibile meta, trovandosi a coinvolgere nel proprio percorso alcune costanti indefinibili come ad esempio l’infinita quête dell’autoconoscenza, nonché l’inarrivabile comprensione dei meccanismi con cui questa si attua.

Per raggiungere una trascrizione fedele della propria personalità ed esperienza di vita sarebbe necessario supporre il superamento della propria condizione storica; fino a che punto è possibile raggiungere tale prospettiva?

Una felice immagine dipinta da Bachtin ritrae la paradossalità di una simile ipotesi:

Identificare il mio “io” con l’ “io” del quale racconto è impossibile, come è impossibile sollevarsi prendendosi per i propri capelli.

7

Nel tentativo di distaccarsi dalla propria contingenza si nasconde il rischio di perdere le caratteristiche che compongono la nostra peculiare individualità; tale eventualità trasformerebbe inevitabilmente la propria descrizione in quella di un tipo, facendo del testo non più un fedele autoritratto bensì l’espressione di una personalità esemplare, valida per tutto il genere umano.

Non di meno per il lettore si pongono dei dubbi altrettanto legittimi e di non facile soluzione.

Si può credere fermamente alla veridicità di ciò che l’autore narra?

Come in ogni tipo di descrizione, non potendo fare una scala uno ad uno dell’oggetto da descrivere, l’autore sarà portato a fare delle scelte e pertanto ad omettere, più o meno consapevolmente, alcuni fatti o prospettive, poiché qualsiasi mezzo di trasposizione risulta inadeguato alla resa fedele della pienezza di un’esperienza di vita; ma quanto c’è di intenzionale e quanto di inconscio nel disporre e tralasciare i frammenti della propria esistenza? E ancora, si può accettare fiduciosi la veridicità dell’identità fra autore, narratore e personaggio (che è poi la caratteristica che, come postulato, seppur in modo banale, identifica un testo come autobiografico) ?

Di fronte a tanti interrogativi, e questi sono solo quelli reperibili alla superficie di una discussione sull’argomento, è facile comprendere l’inafferrabilità di un genere di

7

M. Bachtin, Estetica e romanzo, (a cura di Clara Strada Janovic), Torino, Einaudi, 1979, pp. 403-404. (I

ed. 1975).

(7)

scrittura che, per essere debitamente circoscritto, dovrebbe determinarsi sull’impossibile aproblematicità della definizione di concetti come “io”, “verità” o “memoria”.

Il tema centrale della presente indagine non sarà quello di stabilire i limiti o le caratteristiche della Vita alfieriana in quanto autobiografia, pertanto non è opportuno in questa sede aspirare ad una completa enumerazione e descrizione degli studi offerti sull’argomento in più di mezzo secolo di teorizzazioni. Per una trattazione specifica del lungo cammino critico sull’analisi della scrittura di sé si rimanda di forza alla chiarezza delle analisi e dei compendi di Anglani

8

, nonché alle riflessioni e le sintesi teoriche a cura di D’Intino

9

.

Tuttavia, è pur necessario comprendere la complessità dell’oggetto in esame;

presupponendo la possibilità di ascrivere pienamente e senza incertezze la Vita di Alfieri al genere dell’autobiografia, sarà utile gettare uno sguardo sui principali motivi di riflessione che tale tipologia di scrittura ha posto e continua a porre.

Per rendere più agevole la comprensione delle diverse angolazioni prospettiche da cui il problema della categorizzazione del genere autobiografico è stato osservato, sarà utile, non senza banalizzazioni e forzature, suddividere le principali teorie in base alla prospettiva cronologica che esse adottano nei confronti dell’autobiografia.

Uno dei tratti caratteristici della problematica legata alla circoscrizione del genere sembra essere proprio questa valenza ambigua della scrittura di sé, la quale, rispondendo ad un’innata necessità antropologica di espressione della propria individualità, appare eterna ed universale e quindi connaturata in ogni testo scritto, e allo stesso tempo, nel rappresentare una moderna capacità di espressione non scindibile dallo sviluppo storico della consapevolezza dello spazio interiore, appare prettamente moderna, e dunque possibile da ritrovare solo da un determinato periodo storico in poi.

Necessità di espressione dell’io e capacità di esprimerlo sono dunque i due termini su cui ci soffermiamo; schematizzando ancora di più, si può parlare di una prospettiva legata alla necessità dell’espressione, laddove il discorso si amplia dall’ambito letterario a quello antropologico o filosofico, coinvolgendo la fenomenologia dello spirito e la

8

B. Anglani, I letti di Procuste. Teorie e storie dell’autobiografia, Bari, Giuseppe Laterza, 1996; (a cura di) Teorie Moderne dell’autobiografia, Bari, Edizioni Graphis; Introduzione al repertorio sull’autobiografia,

«Moderna», n.1, 2003, pp. 123-30.

9

F. D’Intino, Il genere «autobiografia». Bibliografia di fonti e studi, in Caputo, Rino e Matteo Monaco (a

cura di) 1997; Scrivere la propria vita. L’autobiografia come problema critico e teorico, Roma, Bulzoni,

1997; L’autobiografia moderna. storia forme e problemi, Roma, Bulzoni, 1998.

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valutazione del tempo e della memoria; una prospettiva legata alla capacità di espressione troverà invece più adeguati alla propria indagine gli strumenti specifici della critica letteraria e della psicologia.

Per dare un esempio di questa astratta categorizzazione, proviamo a porre la questione

nei termini delle diverse risposte che i teorici dell’autobiografia hanno di volta in volta

dato alla domanda: quando nasce l’autobiografia?

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I.1. Un genere senza limiti e un racconto retrospettivo

Il pioniere degli studi sull’autobiografia, George Misch, risponde alla domanda con la monumentalità degli otto volumi dell’incompiuta Geschichte der Autobiographie

10

. L’ipotesi di Misch è che l’autobiografia sia una genere camaleontico, al quale non si possono dare limiti cronologici né tanto meno morfologici: le pietre tombali dell’antico Egitto sono una testimonianza dell’innata attitudine umana all’espressione della propria storia personale. Negare la preesistenza di un’autobiografia a determinati autori considerati come fondanti (siano essi Agostino, Petrarca o Rousseau) equivale a negare l’esistenza dell’individualità prima di essi. Una storia dell’autobiografia che, partendo dagli antichi Assiri, sarebbe dovuta arrivare al 1900, lascia intuire fin dalla sua organizzazione che la risposta al nostro quesito sarà che l’autobiografia nasce quando oltre al bios, appare nella storia dell’umanità anche la graphia.

La necessità di esprimere se stessi e la propria personalità è una costante congenita ed universale, una proprietà filogenetica che rende impossibile una distinzione fra opere e opere autobiografiche.

L’autobiografia, in questi termini, non può che essere definita, sfidando la tautologia, tramite la sua stessa etimologia, ovvero la descrizione (graphia) della vita di un individuo (bios) scritta dall’individuo stesso (auto).

Una prospettiva tanto ampia determina per forza un impasse per chiunque tenti di circoscrivere in ambito letterario il carattere proteiforme della scrittura di sé.

Sulla scia del pioneristico lavoro di Misch si colloca Gusdorf, impegnato per un intero cinquantennio nella riflessione sull’autobiografia; la sua indagine viene inaugurata nel

10

G. Misch, Geschichte der Autobiographie, 6 voll. più due postumi, a cura rispettivamente di L. Delfoss

e B. Neumann, Frankfurt am Main Schulte un Bulmke, 194-1969 (sulle varie ed. dell’opera cfr W.Jung,

Georg Misch’s Geschichte der Autobiographie, in “Annali d’Italianistica” Iv, 1986, pp.30-44). Dal 1900

fino al 1965, anno della sua morte, Misch si dedica a scrivere una storia dell’autobiografia che dagli

antichi Assiri sarebbe dovuta, secondo le sue intenzioni, giungere alla descrizione del 1900. In realtà,

poiché Misch muore prima di aver potuto portare a compimento l’opera, il progetto si interrompe con il

Medioevo. Degli otto volumi complessivi (ma già gli ultimi due vengono pubblicati postumi nel 1969),

sette sono dedicati all’Antichità e al Medioevo, mentre l’ultimo tratta del periodo che va dal

Rinascimento al 1800. Nonostante il taglio enciclopedico e poco sistematico di Misch, testo di

antropologia piuttosto che di storia letteraria, la sua Geschichte è ancora il testo fondante degli studi

moderni sull’autobiografia, e specialmente per il Medioevo, il suo è il “panorama più completo e

dettagliato del periodo” (D’Intino, 1998, op. cit., p. 63).

(10)

1956 con la pubblicazione in Germania del saggio Conditions et limites de l’autobiographie

11

, ma l’autore non si esime, negli anni successivi, dal confronto con altri importanti contributi teoretici .

Nel suo primo lavoro Gusdorf ascrive alla psicologia il compito di indagare i meccanismi dell’autobiografia, senza escludere una problematica letteraria; dalla sua prospettiva è messa in evidenza la figura dell’autore che recupera e riorganizza il materiale della propria esistenza in quello che si può definire un “atto creativo”.

Così considerata, la scrittura di sé non può essere un’operazione meramente riassuntiva e non può essere di conseguenza correttamente analizzata se non attraverso un profondo esame dei meccanismi dell’autoconoscenza e della memoria.

Pur considerando universale la natura di questo “atto creativo”, in linea con quanto affermato da Misch, Gusdorf introduce un’ulteriore variabile al semplice rapporto fra individualità e scrittura, una variabile che in qualche modo circoscrive, anche cronologicamente, il genere autobiografico; questa variabile è la religione, e in particolare la religione cristiana riformata che, nell’introdurre un rapporto diretto con Dio, esalta l’autoconoscenza.

Uno dei meriti di Gusdorf, sottolinea Nicoletti

12

, è quello di aver portato alla luce l’origine tutta occidentale e in particolare cristiana dell’autobiografia. Considerando l’incremento del numero di memorie scritte nell’Inghilterra e nella Germania del XVII e XVIII secolo, Gusdorf sottolinea il ruolo svolto dalla Riforma nello sviluppo di una nuova concezione di spazio interiore. Tale limitazione cronologica tuttavia, non nasce spontanea in Gusdorf bensì in contrapposizione alla prospettiva critica di un altro studioso dell’autobiografia, Philippe Lejeune.

Le fondamentali riflessioni di Lejeune sul genere autobiografico, che avremo modo di osservare da vicino più avanti, ne hanno fatto nel tempo un’auctoritas imprescindibile.

È soprattutto attraverso il confronto fra questi e il già citato Gusdorf che viene promosso lo studio sull’autobiografia come genere letterario e si cominciano a gettare le basi per una comprensione approfondita e non ingenua del fenomeno della scrittura di sé. Gusdorf, dicevamo, si oppone con forza alla posizione critica di Lejeune, per la quale si legittimava l’assunzione de Les confessions di Rousseau quale atto di nascita

11

G. Gusdorf, Conditions et limites de l‟autobiographie (1956); Condizioni e limiti dell’autobiografia, trad. it. di B. Anglani, in B. Anglani (a cura di), Teorie moderne dell’autobiografia, op. cit., p. 4.

12

G.Nicoletti, La memoria illuminata: autobiografia e letteratura fra Rivoluzione e Risorgimento, Firenze,

Vallecchi, 1989.

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della moderna autobiografia; più che contrapporre una semplice retrodatazione, quello che Gusdorf tenta di mettere in evidenza è che la “desacralizzazione” dello spazio interiore operata dal modello di Rousseau, il quale affida ad un pubblico laico ciò che prima era affidato a Dio è un carattere, seppur importante, non fondativo di un genere.

La posizione di Gusdorf, sviluppandosi come abbiamo visto in contrasto con il tecnicismo della tesi di Lejeune, rischia di ricadere in un eccesso opposto: cancellando ogni ipotesi di differenziazione di genere, giunge a suggerire la possibilità che ogni opera possa essere autobiografica.

Il problema principale risiede nell’impossibilità di identificare, a livello tematico, il racconto della propria vita come tratto discriminante del genere: il saggio di carattere storico o filosofico, le memorie, il diario, il romanzo, fino ad arrivare al curriculum vitae e agli appunti sparsi, sono forme altrettanto possibili di cui un individuo dispone per tradurre il bios in graphein. Anche trovando parametri formali prototipici a cui ricondurre il genere, resterebbe comunque aperto il problema della soggettività con cui la trasposizione in parole della propria esperienza di vita viene attuata; i frammenti di vita che non rientrano nel racconto, direzionato e univoco, della scrittura vengono cancellati in vista di una prospettiva cronologica del soggetto del quale non si racconta il mutamento, ma lo sviluppo e la progressione verso una conquistata completezza. In termini di rappresentazione, di mimesi, ogni tentativo risulta falso o inadeguato ad esprimere la complessità dell’esistenza, della quale vengono inevitabilmente tralasciati, più o meno volontariamente, degli aspetti.

E’ per questo che James Olney ha paragonato l’autobiografia ad una metafora dell’io scrivente

13

. Stabilito che la metafora è un procedimento che permette di collegare “one thing with another and finally assume the whole design of which the element is only a part

14

”, ne deriva che ogni autobiografo, nel porre per iscritto la propria esperienza, perviene ad una creazione metaforica; l’io scritto e l’io reale hanno in comune solo alcuni elementi, non è possibile una completa identità fra i due. L’insieme degli eventi reali verrà organizzato in un determinato disegno, e ad esso verrà conferito un senso:

metaforizzando la propria esistenza l’io reale erige

13

J. Olney, Metaphors of Self. The Meaning of Autobiography, Princeton University Press, 1972.

14

Ivi, p. 31.

(12)

“a monument of the self as it is becoming, a metaphor of the self at the summary moment of composition.”

15

Si può dire che Olney porti all’estremo il principale assunto di Misch, rinunciando non solo a restringere l’autobiografia all’ambito letterario, ma addirittura a tentarne una definizione qualsiasi. Postulando inoltre l’impossibilità di ottenere oggettività nella conoscenza, complica il processo dell’autoconoscenza considerando ogni atto (storico, filosofico, scientifico, ma soprattutto letterario e autobiografico) come la proiezione di uno spazio interiore che noi non possiamo conoscere, se non attraverso le sue metafore.

Non scenderemo nei particolari di questo filone di ricerca, contenti di aver posto almeno qualche esempio a proposito di quelle teorie sul genere autobiografico le quali, negando un’analisi propriamente letteraria delle scritture di sé, mostrano al contempo di non poterne storicizzare le forme, ma solo comprenderne la componente genericamente antropologica, rimanendo in un impasse che si insinua in qualsiasi procedimento teoretico di comprensione organica di un prodotto socio-culturale.

Al quesito posto in apertura del nostro studio al fine di districare la folta matassa degli studi sull’autobiografia (quando nasce l’autobiografia?), le tesi osservate finora non rispondono se non sottolineando l’inopportunità della domanda stessa, dato che la prospettiva da cui prendono le mosse rinuncia a priori ad una storicizzazione.

Qualche coordinata cronologica comincia ad apparire negli studi sul genere soltanto dal momento in cui la ricerca si propone di indagare sulla componente strettamente letteraria della scrittura di sé.

Il primo saggio che si muove in questo senso viene pubblicato nel 1960 da Roy Pascal, Design and truth in Autobiography

16

; per la sua capacità di delimitare il campo d’indagine nel tentativo di rilevare la specificità letteraria dell’autobiografia, confinandola da altre forme di scrittura personale, sarà molto influente sugli studi successivi.

Per Pascal è Goethe a stabilire le fondamenta del genere, ponendo le basi per una ricognizione seria della propria intimità, non svincolata dalle circostanze storiche e dall’esperienza concreta. Da un certo punto di vista Pascal esprime un paradosso che verrà ripreso successivamente anche da altri: il suo interesse è tutto nel rapporto tra individuo e storia, rapporto che sembra sfaldarsi man mano che ci si addentra nella

15

Ivi, p. 35.

16

R. Pascal, Design and truth in autobiografy, London, Routledge & Kegan, 1960.

(13)

modernità, facendo in questo modo di Goethe sia il punto di partenza del genere letterario che il punto di arrivo di un’evoluzione che in lui ha il punto più alto.

Nello stesso pericolo incorre la ricerca condotta da Northop Frye

17

, il quale, nel tentativo di ritrovare le caratteristiche stilistiche peculiari della letteratura autobiografica, finisce per creare, più che scoprire, degli archetipi assoluti, ottenuti tramite l’impropria generalizzazione di esempi storici, che assurgono a prototipi di categorie: oratoria le Confessioni d’Agostino, drammatica la Vita di Cellini, poetica quella di Rousseau.

Non si esime dal cadere in questa trappola anche quello che è considerato lo studio più importante nel genere dell’autobiografia, ovvero il già citato contributo di Lejeune; la sua definizione, restrittiva ed intransigente, finisce per eleggere l’opera di Rousseau a prototipo della pratica autobiografica.

E’ considerevole tuttavia l’autocoscienza dello studioso, che per primo ammette la presenza di queste illusioni di prospettiva

18

che inevitabilmente portano a considerare tutto ciò che lo ha preceduto un percorso verso il modello di Rousseau, e tutto ciò che è prodotto successivamente come una diretta discendenza da esso .

Nonostante l’argomento sia controverso e inesauribile, non c’è timore nell’affermare che un punto fermo nell’indagine sulla scrittura di sé sia rappresentato dagli studi del critico francese.

Non per questo si intende affermare che l’approccio tecnico e strutturalista che porta Lejeune a formulare la sua celebre definizione, abbia definitivamente risolto la questione; criticata da numerosi studiosi, la tesi di Lejeune ha nel tempo subito correzioni da parte del suo stesso autore

19

, a dimostrazione della sua perfettibilità .

17

N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays (1957), in it. Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari (1969), trad. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Torino, Einaudi, 2000.

18

Lejeune parla di due “illusioni” che, se pur riferibili ad ogni genere letterario, risultano particolarmente rischiose in quello dell’autobiografia: si tratta dell’ “illusion de l’éternité” e di quella della “naissance du genre”, con le quali Lejeune intende identificare le prospettive teoriche che riconoscono l’autobiografia in tutti i testi e quelle che, nell’eccesso opposto, la riconoscono solo in particolari opere, elevate così ad archetipi del genere.

19

Cfr. i successivi interventi dello stesso Lejeune (Moi aussi, Paris, Seuil, 1986 e Signes de vie. Le pacte

autobiographique 2, Paris, Seuil, 2005) in cui, pur non sconfessando nulla, mitiga alcuni concetti che

nella prima versione sembravano piuttosto rigidi, tra i quali l’idea che un autore sia autore solo dal

secondo libro e che non possa esistere un'autobiografia come libro isolato.

(14)

Tuttavia, come accade per ogni studio fondamentale, il merito non è da ricercare nell’efficacia delle soluzioni proposte, quanto nella profondità e arguzia delle domande che pone; e con le domande poste da Lejeune, nondimeno che con le risposte che lui per primo ha tentato di dare, è doveroso ancora oggi fare i conti qualora ci si avvicini alla scrittura autobiografica; gli stessi specialisti che si sono occupati dell’argomento successivamente sembrano aver prodotto con la loro critica non molto più di un lunghissimo commento alle tesi di Lejeune .

L’interesse di Lejeune per l’autobiografia risale al 1971, quando pubblica L’Autobiographie en France

20

, ma ben presto il discorso si amplia, distaccandosi dal regionalismo francese, per andare a coprire il campo teorico nel suo insieme con Le pacte autobiographique

21

.

Basandosi sull’accertamento, compiuto grazie agli strumenti linguistico-strutturalisti, dell’impossibilità di definire la scrittura autobiografica sulla base di elementi formali, Lejeune tenta di circoscrivere il genere basandosi su un assunto fondamentale: non è possibile, e nemmeno utile, tentare di astrarre una classificazione che definisca il genere letterario nella sua totalità, pertanto è più utile basarsi sull’osservazione delle leggi di funzionamento delle tecniche messe in atto, di volta in volta, nel testo, ed analizzarle dall’unica prospettiva che ci è veramente permessa, ovvero quella del lettore.

Sulla base di queste riflessioni, si direbbe paradossalmente, dà una definizione:

“récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personnalité.”

22

Considerando l’autobiografia un processo eminentemente letterario, come già aveva fatto Roy Pascal, la definizione di Lejeune verterà dunque su parametri prettamente letterari: l’autobiografia è prima di tutto un testo con il quale si deve avere a che fare con gli strumenti della critica letteraria.

20

Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986 (Ed. originale: Le pacte autobiographique, Paris Seuil, 1975)

21

Ph. Lejeune, L'autobiographie en France, Paris, Colin, 1971.

22

“Il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette

l'accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità” in P. Lejeune, Le

pacte autobiografique, op. cit.

(15)

La definizione fornita da Lejeune avrebbe a prima vista il vantaggio di distinguere in maniera sistematica l’autobiografia dai generi affini della letteratura intima, come memorie, biografia, romanzo personale, poema autobiografico, diario intimo, autoritratto.

Al di là delle restrizioni che implicherebbe la definizione lejeuniana qualora la si applicasse ad un tentativo di determinazione di un canone autobiografico, ciò che risulta imprescindibile in questo intervento è la nozione che Lejeune conia a supporto della sua tesi, ovvero quella di “patto autobiografico”.

Stabilito fra le due parti in gioco, ovvero autore e lettore, questo patto si contrappone al patto finzionale perché il nome dell’autore -il quale designa una persona realmente esistita o esistente- scritto in copertina, coincide col nome del narratore e con quello del personaggio principale. In altri termini, la storia di una vita, che può essere riferita anche dall’esterno, diventa autobiografia se e solo se è narrata dall’interno, ovvero se il narratore, secondo la terminologia di Genette

23

, accolta anche da Lejeune, è

‘autodiegetico’. Questa identità non è tuttavia sempre verificabile; è per questo che per sussistere, l’autobiografia ha bisogno del benestare del lettore: l’autobiografia è un tipo di scrittura che per funzionare deve avere come risposta un certo tipo di lettura, ovvero necessita del fatto che il lettore accetti l’identità proposta fra autore e personaggio principale.

Il merito di Lejeune è quello di aver posto in posizione di preminenza la partecipazione attiva del lettore nel riconoscimento del carattere autobiografico del testo. Nella definizione di questo contratto di tipo veridittivo con il lettore, si situa come implicazione implicita la sostituzione del “credere vero” all’ “essere vero”, evitando il confronto diretto con una presunta verità referenziale.

Sorvolando per il momento le implicazioni poste dal vasto e profondo dibattito internazionale che impegna i teorici della letteratura sulla natura e le caratteristiche del testo autobiografico, quello che ci interessa sottolineare in questa sede è appunto il carattere cinetico dell’autobiografia, quasi una quintessenza di quella caratteristica della letteratura che spingeva Sartre alla celebre metafora della trottola

24

.

23

G. Genette, Figures III, 1972.

24

Jean Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, Milano: il Saggiatore, 1966, p. 33-35: «L’oggetto letterario è

[...] una strana trottola che esiste quando è in movimento. Per farla nascere occorre un atto concreto che

si chiama lettura, e dura quanto la lettura può durare. Al di fuori di questo, rimangono solamente i segni

neri sulla carta [...]. L’operazione dello scrivere implica quella di leggere come proprio correlativo

(16)

Questo assunto appare fondamentale allo studio dell’opera che abbiamo preso in esame e della quale abbiamo intenzione di indagare appunto il rapporto fra autore e lettore: è doveroso eliminare in partenza, se mai ce ne fosse bisogno, la possibilità che la scrittura di sé sia fatta per se stessi, al fine di adottare fin da subito una prospettiva che conduca a comprendere l’autobiografia come testo letterario in cui la figura del destinatario non solo è presente e ben contemplata dall’autore, ma partecipa attivamente alla messa in atto degli stratagemmi comunicativi ideati dall’autore al fine della costruzione del proprio personaggio.

In questo senso, la scrittura autobiografica alfieriana si distacca da quella tradizione che guarda all’espressione della propria interiorità come cura di sé

25

, intesa come pieno possesso e dominio della propria identità.

La narrazione non ha come finalità la guarigione dell’io e il pieno controllo conoscitivo dei legami soggettivi, ma descrive il processo di riconoscimento dell’alterità, mai pienamente padroneggiabile, che appartiene alla costituzione dell’io. Proprio nel gesto più privato, nell’azione più soggettiva – nel raccontarsi – si ritrova un percorso che porta al confronto con l’alterità e alla creazione di qualcosa che non è privato né soggettivo.

Dato che l’errore, l’incomprensione sono sempre possibili nel rapporto immediato e nei discorsi tra gli uomini, e non solo, anche le lettere rivolte ai contemporanei possono generare equivoci e difficoltà, è necessario controllare l’effetto della propria espressione. Alfieri esprime fin da giovane la sensazione di essere incompreso dalla propria epoca, ma non rinuncia alla possibilità di trovare l’armonia tra sé e il mondo, di manifestare la propria identità e di essere riconosciuto: egli non può far altro che scrivere di sé.

dialettico, e questi due atti distinti comportano due agenti distinti. Solo lo sforzo congiunto dell’autore e del lettore farà nascere quell’oggetto concreto e immaginario che è l’opera dello spirito. [...] La lettura, quindi, sarebbe una sintesi della percezione e della creazione».

25

Foucault sottolinea il pericolo di concepire la ricerca interiore come una sorta di terapia, che il

soggetto compie su se stesso, volta a dominare e controllare i legami che costituiscono l’identità

personale: «questo rapporto con se stessi che costituisce il punto finale della conversione e l’obiettivo

ultimo di tutte le pratiche di sé rientra ancora in un’etica della padronanza. […] Questo rapporto è

pensato spesso sulla base del modello giuridico del possesso: si è “di se stessi”, “padrone di sé”; si

dipende solo da se stessi, si è sui juris; si esercita su di sé un potere che niente limita né minaccia; si

detiene la potestas sui.» (M. Foucault, Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984; tr. it. La cura di sé,

Feltrinelli, Milano 1991, pp. 68-69).

(17)

Il tragediografo si rivolge al futuro, a un’alterità non presente, non immediata che rappresenta la speranza e la possibilità di comprensione che non può ottenere nella propria epoca. L’autobiografia mostra il ruolo necessario dell’alterità all’interno dell’idea stessa di soggettività: egli cerca l’altro come testimone della propria natura che non si può realizzare nell’immediato.

Questa alterità “a venire” gli permette di costruire una rappresentazione di sé, ossia di

avere un’auto-percezione intuitiva della propria coscienza: la scrittura autobiografica

assume un valore formativo in quanto è la condizione che porta il fluire esistenziale a

riconoscersi come coscienza di sé e dell’altro.

(18)

I.2. Teoria del genere e autobiografia in Italia

Dopo Lejeune, una miriade di studi ha cercato di sezionare la scrittura autobiografica, concentrandosi su aspetti sempre più specifici, rispondenti a quesiti posti dalla diretta lettura dei testi, anziché dilungarsi in discettazioni teoriche generalizzanti.

Da qui in poi, seguire il filo degli studi sulle autobiografie diventa impresa quasi impossibile; e forse anche inutile, se aveva ragione Marziano Guglielminetti ad auspicare un tipo di ricerca settoriale che tenesse lontano dalla

“tentazione di trasformarsi troppo presto nei teorici di un genere non ancora esplorato in tutte le sue ramificazioni.”

26

Sempre in Italia, un’altra voce ha denunciato l’epidemia classificatoria dilagante fra gli studiosi dell’autobiografia; ne I Letti di Procuste

27

, Bartolo Anglani attacca le diverse teorie dell’autobiografia con l’accusa di un’imperdonabile assenza di storicismo.

Nel panorama della critica autobiografica infatti, è fin troppo evidente la sproporzione tra le elucubrazioni teoriche e le ricerche sul campo.

La sproporzione si ripropone nei contenuti di queste ricerche, presentate il più delle volte come esemplificazioni o applicazioni di una teoria, anzichè come prodotti della curiosità critica risvegliata dal testo o da una serie di problemi storico-testuali determinati.

E’ in questo clima di storicizzazione e profondo rispetto per i testi letterari che nasce in Italia l’interesse per l’autobiografia, di cui è proprio Guglielminetti l’iniziatore più acuto.

Lo studioso è autore di un testo fondamentale

28

in cui, mostrandosi consapevole ma critico nei confronti del discorso teorico che si svolge parallelamente nel mondo, elude ogni tipo di definizione o classificazione mettendo insieme un corpus di scritture autobiografiche inserite in un contesto storico e nazionale.

La liceità di un discorso nazionale sulla biografia e sull’autobiografia è strettamente connessa all’individuazione di una tradizione operante in una delle culture occidentali

26

M. Guglielminetti, Memoria e scrittura: l’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977, pp.

XIV-XV.

27

B. Anglani, op. cit.

28

M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, op. cit..

(19)

con caratteristiche peculiari, che senza timore di categorizzazioni azzardate, parte da San Francesco, il primo a mostrare stimoli autobiografici nelle proprie scritture, per arrivare senza fratture fino al Novecento.

Diverso il discorso per il volume di Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo

29

, il quale raccoglie saggi scritti in tempi diversi dagli anni Settanta agli anni Novanta. Attraverso una particolareggiata introduzione che fornisce un elenco delle più salienti analisi teoriche, evidenzia il principio di indeterminazione a cui è soggetta una qualsiasi analisi dell’interazione fra letteratura ed autobiografia. Tracciando poi una storia dell’autobiografia in Italia, procede dai prodromi presenti nell’Accademia con le confessioni personali e nelle confessioni religiose per arrivare a Vico, nel quale la forma giunge a compimento; Battistini finisce per inquadrare il genere autobiografico nel tipo di discorso epidittico, risalendo ad una classificazione della retorica aristotelica per cui, sia nel bene che nel male, il racconto della vita aspira sempre ad essere scritto in lettere maiuscole.

In questo modo Battistini sembra riprendere la già citata prospettiva di Gusdorf

30

, per il quale l’autobiografia rappresenta una tensione universale ed un’esperienza iniziatica propria di chi, ripercorrendo le tappe della propria vita secondo un ordine cronologico, ricerca e perviene ad un’intelligibilità unitaria del proprio sé:

“esiste uno scarto non trascurabile tra il progetto dichiarato dell’autobiografia, che è quello di rintracciare semplicemente la storia di una vita, e le sue intenzioni profonde, orientate verso una specie di apologetica o teodicea dell’essere individuale”

31

.

29

A. Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990.

30

“Autobiography is a second reading of experience, and it is truer than the first because it adds to experience itself consciousness of it [. . . ] The man who recounts himself is himself searching his self through his history: he is not engaged in an objective and disinterested pursuit but in a work of personal justification”, Gusdorf, Conditions et limites de l’autobiographie, op. cit., pp. 38-39 (“L’autobiografia è una seconda lettura dell’esperienza, ed è più vera della prima perché aggiunge all’esperienza la consapevolezza di quella […] l’uomo che racconta se stesso è lui stesso in cerca di se stesso attraverso la propria storia; non è impegnato in un oggettivo e disinteressato ritratto, ma in un progetto di personale giustificazione” trad. nostra).

31

G. Gusdorf, Conditions et limites de l’ autobiographie, 1956, in it. Condizioni e limiti dell’autobiografia, trad. di B. Anglani, in B. Anglani (a cura di), Teorie moderne dell’autobiografia, Bari, Edizioni B. A.

Graphis, 1996, p. 4.

(20)

È in base ad un orientamento rigorosamente teleologico che l’autobiografo seleziona e raggruppa i materiali di un passato che, date le limitazioni fisiologiche della memoria, invano tenterebbe di riprodurre nel testo nella sua intatta fattualità. Lo svelamento delle strutture più profonde della propria esistenza non ha un significato riepilogativo, perché è il frutto di un’intenzione creativa e di un’attitudine configurante che sfocia in una presa di coscienza sintetica ed unitaria:

“il privilegio dell’autobiografia consiste nel fatto che essa ci presenta non tanto le fasi oggettive di una carriera, che è compito dello storico verificare, ma piuttosto lo sforzo di un creatore per dare senso alla propria leggenda”

32

Nell’ambito degli studi sull’autobiografia alfieriana, questa prospettiva teleologica è quella dominante, come avremo modo di vedere più avanti.

Una voce discordante si può ritrovare paradossalmente proprio in Battistini, il quale nega la possibilità, per l’Astigiano, di compiere un discorso lineare in grado di raccogliere ed organizzare in modo univoco un’esistenza che ormai «è sentita come una matassa ingarbugliata, caotica, bizzarra, acuita da un nuovo gusto per l’avventura, sotto l’urgere tirannico dell’irrequietezza»; le vicende di Alfieri, conclude Battistini, confrontate con quelle di Vico o di Muratori, «non si raccolgono altrettanto agevolmente a fattore comune e a un’unica cifra

33

».

Muratori e Vico, osserva Battistini, sono ancora immersi nel razionalismo del primo Settecento e scrivono vite lineari intese all’esposizione pubblica di un corso di studi e, a differenza di Alfieri, che ha conosciuto l’esempio delle Confessioni rousseauiane, non si addossano l’onere della rappresentazione di una soggettività; situandosi oltre quella fase di storia e di cultura, ad Alfieri non sarebbe più accessibile quella linearità.

E’ dunque necessario ammettere che, nonostante le rivisitazioni e le critiche mosse alla definizione di Lejeune, il modello di Rousseau è quello prescelto per determinare alcune caratteristiche dell’autobiografia “moderna”, che si distacca dalle precedenti memorie o resoconti autobiografici per l’inserimento di una storia della personalità.

32

Ivi, p. 17.

33

Andrea Battistini, Vita scritta da esso, in Letture alfieriane, a cura di Gino Tellini, Biblioteca

Medicea Laurenziana ed Edizioni Polistampa, Firenze, 2003, p. 27.

(21)

Le differenze fra il prima e il dopo Rousseau in Italia risultano evidenti qualora si getti uno sguardo anche sommario e generico sulla struttura delle memorie autobiografiche appena precedenti a quel modello.

L’assenza di un intimo racconto della propria personalità è tuttavia determinato anche dalla natura degli intenti programmatici da cui nasce l’interesse autobiografico in Italia negli anni precedenti alla stesura della Vita.

E’ a Napoli che fiorisce nel secolo dei lumi questo tipo di scrittura, in un clima di reazione da parte degli intellettuali alla perdita di prestigio culturale dell’umanesimo italiano, ma è pur vero che l’impresa editoriale più importante in questo contesto fu progettata nel 1721 da un nobile friulano, Giovan Artico da Porcìa

34

, il quale rivolse agli intellettuali italiani un appello a descrivere, sul modello cartesiano, il proprio corso di studi ed il processo culturale che li aveva portati ad intraprendere e compiere le proprie carriere, rientra fra i provvedimenti adottati nel tentativo di rinnovare e rilanciare i valori culturali della penisola.

La consustanziale originalità e marca individuale che dovrebbe essere rintracciabile in ogni autobiografia era negata sin dal questionario di base, lo stesso per tutti, che egli proponeva come schema dal quale ricostruire il curriculum: essenziali al progetto erano infatti i nomi dei maestri, delle opere studiate, il cursus honorum, la rassegna dei propri lavori, un regesto delle recensioni ricevute, un’eventuale autocritica ed un giudizio retrospettivo sulla propria carriera svolto in funzione pedagogica.

34

Lettera di Giovanartico di Porcia a Muratori, 24 luglio 1721 “[…] Penso di raccogliere la vita d'alcuni

letterati viventi d'Italia scritte da loro stessi e di pubblicarle. In queste vite vorrei che questi signori

stendessero la storia de' loro ingegni, cioè da chi abbiano apparato il metodo de' loro studi, perché

abbiano seguita più l'autorità di questo o di quel maestro, di questo o di quell'autore, in somma più

questa che quella scuola; che libri abbiano sin ad or pubblicati; se ne' libri da lor pubblicati vi ritrovino di

che pentirsi e ritrattarsi; quali sieno, se ne hanno, i loro oppositori e quali i loro apologisti; quali altre

opere pensino di pubblicare. Vorrei che stendessero, per tendere l'opera più curiosa e rispondente al

titolo, la loro nascita, patria, impieghi, avventure, ma non già i loro costumi, per non obbligarli a

confessarsi in pubblico. A me pare, oltre molte altre forse non poco importanti conseguenze, che questa

fatica, che poco può costar di disagio a' suoi autori, meglio d'ogni altra cosa dovrebbe istruire il mondo sì

veramente che i letterati ch'entrassero in questa raccolta fossero di perfetto gusto nelle loro arti e

scienze professate[…]” (Citata in C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze,

Olschki, 1979, p.76)

(22)

E’ in questo clima culturale che nascono l’Avvertimento ai nipoti di Francesco d’Andrea, l’autobiografia di Vico

35

del 1728, la Vita scritta da lui medesimo di Giannone

36

e l’autobiografia di Genovesi.

Che ancora non esistesse un pubblico in grado di apprezzare determinate scritture è testimoniato dalle date delle prime pubblicazioni di queste opere, le quali risalgono ai primi del ‘900; non riscosse successo nemmeno il progetto di Porcìa, che delle varie autobiografie commissionate (tra gli altri Vallisneri, Muratori e Martello) ebbe come unico risultato concreto la pubblicazione della Vita di Giambattista Vico, scritta in terza persona e attraversata dall’«ingenua e scoperta intenzione di tutelarsi da una sequela di avversità nei confronti della propria vocazione filosofica, che Vico abbastanza nevroticamente ingigantisce

37

».

A scrivere autobiografie erano intellettuali noti per la loro prestigiosa carriera, magari conquistata nonostante le non nobili origini; ad esempio Giannone ebbe una vita abbastanza agiata pur avendo vissuto un’infanzia povera, mostrando con il proprio esempio la possibilità di un riscatto delle umili origini attraverso una stimabile ed onorata carriera. Da qui l’istanza di scrivere la propria autobiografia con intento pedagogico, ovvero mostrare ai posteri quale sia la strada da seguire per il successo.

L’autobiografia intitolata Avvertimento ai nipoti del 1896 di Francesco d’Andrea, un giurista, un homo novus, molto famoso al suo tempo, si presenta come “manuale per l’ascesa”.

Comune a quasi tutti questi esempi è l’evidenza data all’importanza pedagogica ed esemplare del racconto della vita, a volte espresso e chiarito in proemi che fin da subito delineano gli estremi del patto con il lettore.

Non un vero e proprio recit o una storia della propria personalità ancora; la narrazione è breve e fortemente incentrata su di un nucleo fondante che equivale alla vocazione e allo sviluppo della carriera intellettuale.

Qualche indulgenza a mostrare una sfera più intima a volte è concessa, ma sono rari esempi; Genovesi ad esempio propone qualche vivace quadretto della propria vita

35

Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, in G. Vico, Autobiografia, a cura di Mario Fubini, Torino, Einaudi, 1965.

36

P. Giannone, Vita scritta da lui medesimo, a cura di Sergio Bertelli, Milano, Feltrinelli, 1960.

37

M. Guglielminetti, Biografia e autobiografia, in Letteratura italiana, Vol. V (Le questioni), a.c. di

A.Rosa, Torino, Einaudi, 19.

(23)

privata, o descrizioni dei propri familiari, confessa la passione per i romanzi pur sottolineandone l’inopportunità.

Accanto all’istanza pedagogica non è raro cogliere accenni a quella illuministica del rapporto fra letterato e società: nel “Discorso sul vero fine delle lettere e delle scienze”

38

, è proclamata la necessità per il letterato di adoperare i suoi studi a fini attivi, sancendo una netta contrapposizione fra il letterato ermetico e contemplativo e l’intellettuale attivo che si impegna a mettere la sua opera a disposizione dei ceti più umili. Siamo di fronte a uomini nuovi, posti a guida del popolo che fiduciosi propongono se stessi come modelli.

Persino l’autobiografia più matura, in prospettiva di una piena aderenza alla definizione lejeuniana, rintracciabile negli anni precedenti alla narrazione dell’Astigiano, ovvero quella di Vico, risulta ancora lontana dai toni intimi di Rousseau: scritta fra il 25 e il 28 con un’aggiunta dello stesso del 31, non ha niente del memorialismo né della confessione. Strettamente collegata alla pubblicazione della Scienza Nuova, avvenuta nel 29, l’autobiografia di Vico è la storia di un uomo in carriera attraverso la quale l’autore intende costruire il proprio mito.

Sono ravvisabili numerosi elementi privati, ma, come spesso accade anche per Alfieri, questi episodi mostrano senza timore una valenza apologetica e sono scopertamente funzionali alla creazione del mito di sé.

L’istanza confessionale e l’intimità sono innanzitutto scongiurate dall’utilizzo della terza persona, atteggiamento retorico fra i più chiari ed utili per scindere nettamente opera e persona, per creare fra i due una lunga distanza.

Del resto la funzione dell’autobiografia è di legittimare il proprio pensiero, una Scienza nuova di cui Vico è cosciente saranno fruitori i posteri e che si presenta fin da subito come scrittura postuma e apologetica.

In base all’esame degli elementi formali o fondandosi sulla definizione di Lejeune è probabile che molte di queste autobiografie resterebbero escluse in un ipotetica raccolta delle opere di questo genere nel settecento italiano.

38

Opera di Antonio Genovesi pubblicata nel 1754; il Discorso fu scritto alla vigilia di una svolta che non riguarda soltanto la biografia di Genovesi ma il generale svolgimento della cultura e della lotta politica nel regno di Napoli, alla vigilia cioè dell’istituzione della cattedra di economia nell’università napoletana;

come altre opere dell’illuminismo meridionale, il Discorso proponeva l’invito ad un ritorno alla

conoscenza “tutta cose” delle prime nazioni, quando il sapere aveva unicamente carattere pratico,

fondato sull’esperienza e sull’utile.

(24)

L’opera di Rousseau ha sicuramente segnato un punto di svolta nella narrazione della propria esistenza e personalità, ma quel che resta ancora ai critici da ribadire è che anziché provare a definire un genere letterario alla ricerca di “condizioni in qualche modo costrittive”, converrà piuttosto orientare gli sforzi verso l’analisi di particolari contesti storici, convenzioni retorico-formali, tipologie per poi definire i rapporti che sussistono tra di essi perché la “forma, i contenuti, le motivazioni al narrare, la destinazione, la situazione comunicativa”, e soprattutto il concetto stesso di “verità”,

“sono elementi uniti da un nesso profondo”

39

.

39

F. D’Intino, L’autobiografia moderna: storia, forme, problemi, cit., p. 254.

(25)

I.3. Autoironia e autobiografia in Alfieri

Un sentiero, questo, battuto da Jean Starobinski, che si preoccupa di rintracciare le tattiche di montaggio e le strutture del testo autobiografico, piuttosto che lasciarsi tentare da poco proficue ripartizioni.

Come sottolinea Onley, per Starobinski l’autobiografia si colloca al crocevia di svariate possibilità espressive presiedute da condizioni generali che non presentano una loro peculiarità specifica e che anzi si avvalgono di convenzioni proprie dei generi affini:

The autobiographer then doubles as a writer of memoirs […]; he is free also to date precisely various stages of the revision of the text, and at the moment of composition to look back upon his situation. The intimate journal may intrude upon autobiography, and an autobiographer may from time to time become a “diarist” […]. Thus, the conditions of autobiography furnish only a large framework within which a great variety of particular styles may occur. So it is essential to avoid speaking of an autobiographical “style” or even an autobiographical “form,” because there is no such generic style or form.

40

Le argomentazioni di Starobinski mettono in luce da un lato il carattere ambiguo e liminare di un genere refrattario ad ogni definizione formale totalizzante che, come ha abilmente mostrato Franco D’Intino

41

, rischia di escludere testi fondamentali della storia dell’autobiografia, e dall’altro i limiti di una riflessione teorica condotta il più delle volte su una campionatura ristretta di testi, basata eminentemente sulle predilezioni dei singoli critici

42

.

40

J. Starobinski, The Style of Autobiography, 1971, in J. Olney, Autobiography: Essays Theoretical and Critical, op. cit., p. 75.

41

Cfr. F. D’Intino, I paradossi dell’autobiografia, in R. Caputo, M. Monaco (a cura di), Scrivere la propria vita. L’autobiografia come problema critico e teorico, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 275-313.

42

Nella critica moderna e contemporanea di varia ispirazione è alquanto radicata l’idea che bisogna

rifiutare tassonomie troppo restrittive: Booth, in particolare, ha riscontrato la presenza di procedimenti

e tecniche caratteristiche della finzione in tutti i generi referenziali (Cfr. W. Booth, The Rethoric of

Fiction, Chicago, University of Chicago Press, 1983). Prendendo in considerazione le infinite sfumature

che ha assunto, nel corso dell’evoluzione del genere nella tradizione moderna in Occidente, il rapporto

tra finzione e verità, le posizioni critiche più recenti sono concordi nell’affermare che non esiste “nulla in

(26)

Il racconto di sé è principalmente un argomentare costruito con strategie narratologiche volontarie, attraverso le quali l’autore pretende (secondo il celebre pacte autobiographique definito da Philippe Lejeune) di avere un ruolo testimoniale. Tuttavia, il soggetto narrante si avvale di un tempo che corre su un doppio binario: quello dell’esperienza vissuta e quello del raccontare. Comprenderne il motore interno, richiede prima di ogni altra cosa un atto di interpretazione, un’identificazione di questo doppio sé, come spiega Jean Starobinski:

“[...] la transformation intérieure de l’individue – et le caractère exemplaire de cette transformation – offre matière à un discours narratif ayant le je pour sujet et pour

‘objet’. Nous nous trouvons alors en présence d’un fait intéressant: c’est parce que le moi révolu est différent du je actuel, que ce dernier peut vraiment s’affirmer dans toutes ses prérogatives. Il ne racontera pas seulement ce qui il est advenu en un autre temps, mais surtout comment, d’autre qu’il était, il est devenu lui-même. Ici la discursivité de la narration trouve une nouvelle justification, non plus par son destinataire, mais par son contenu: il s’agit de retracer la genèse de la situation actuelle, les antécédents du moment à partir duquel se tient le ‘discours’ présent. La chaîne des épisodes vécus trace un chemin, une voie (parfois sinueuse) qui aboutit à l’état actuel de connaissance récapitulative.

L’écart qu'établit la réflexion autobiographique est donc double: c’est tout ensemble un écart temporel et un écart d’identité.”

43

un brano autobiografico in sé” che permetta di tracciare un netto confine “tra storia e finzione”. Cfr. F.

D‟Intino, L’autobiografia moderna: storia, forme, problemi, cit., p. 225.

43

Jean Starobinski, “Le progrès de l’interprète“, in La relation critique, Paris, Gallimard, 2001 (1970), p.119. Trad. in it. : “[...] la trasformazione interna dell’individuo – e il carattere esemplare di questa trasformazione - offre materia a un discorso narrativo avente l’’io’ per soggetto e per ‘oggetto’. Noi ci troviamo allora in presenza di un fatto interessante: è perché il me compiuto è differente dall’io attuale, che quest’ultimo può veramente affermarsi in tutte le sue prerogative. Questi non racconterà solamente ciò che è accaduto in un altro tempo, ma soprattutto come, da altro che egli era, è diventato se stesso.

Qui la discorsività della narrazione trova una nuova giustificazione, non più attraverso il suo destinatario,

ma attraverso il suo contenuto: si tratta di ritracciare la genesi della situazione attuale, gli antecedenti

del momento a partire dal quale si tiene il ‘discorso’ presente. La catena degli episodi vissuti traccia un

cammino, una via (a volte sinuosa) che sfocia nello stato attuale di conoscenza ricapitolativa. Lo scarto

che stabilisce la riflessione autobiografica è dunque doppio: è allo stesso tempo uno scarto temporale e

uno scarto d’identità”

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