Il libro
Tutto inizia con un compito assegnato nei primi giorni di scuola: «Scrivi una lettera a una persona che non c’è più». E così Laurel scrive a Kurt Cobain, che May, la sua sorella maggiore, amava tantissimo. E che se n’è andato troppo presto, proprio come May. Per Laurel, la sorella era un mito: bella, perfetta, inarrivabile.
Era il sole intorno a cui ruotava tutto, specie da quando i genitori si erano separati.
Perderla è stato indescrivibile, qualcosa di cui Laurel non vuole parlare. Ecco perché ha scelto di frequentare un liceo diverso da quello di May, un posto dove nessuno sa cosa è successo davvero, dove non ci sono domande imbarazzanti o sguardi compassionevoli a rincorrerla. Sulla carta, invece, Laurel si lascia
finalmente andare. E dopo quella prima lettera, che non consegnerà all’insegnante, continua a scriverne altre, indirizzandole a Amy Winehouse, Heath Ledger, Janis Joplin e altri idoli della sorella scomparsa. Soltanto a loro riesce a confidare cosa vuol dire avere quindici anni e sentire di avere perso una parte di sé, senza
nemmeno potersi aggrappare alla famiglia perché è andata in mille pezzi. Soltanto a loro può confessare la paura e la voglia di avventurarsi in quel mondo nuovo che è la scuola, la magia di incontrare amiche che ti fanno sentire normale e speciale al tempo stesso, l’emozione di incrociare lo sguardo di un ragazzo che afferra i tuoi occhi con i suoi e non li lascia andare. Finché, come un viaggio dentro di sé, quelle lettere porteranno Laurel al cuore di una verità che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Qualcosa che riguarda lei e May. Qualcosa che va detto a voce alta: solo così Laurel potrà superare quello che è stato, imparare ad amarsi e trovare il
coraggio di andare avanti. Perché la vita è lì, davanti a lei, con tutte le sue infinite strade possibili. E, per quanto possa fare paura, non c’è emozione più grande di sentire il suo battito.
L’autrice
Ava Dellaira è nata a Los Angeles ma è cresciuta ad Albuquerque, in New Mexico.
Dopo una laurea alla University of Chicago e un Master in scrittura creativa all’Iowa Writers’ Worshop, è tornata a Los Angeles con il sogno di diventare una sceneggiatrice. Vive a Santa Monica, in un appartamento minuscolo ma in riva all’oceano. Noi siamo grandi come la vita è il suo primo romanzo, ispirato in parte alla madre e alla sua vita troppo breve. A lei è legato anche il primo ricordo che Ava ha della scrittura, quando alle elementari doveva completare la frase «Voglio bene alla mamma perché…» e si è accorta della distanza che divide i nostri
sentimenti dalle parole che abbiamo a disposizione, troppo spesso inadeguate per descrivere ciò che proviamo.
avadellaira.com AVA DELLAIRA
NOI SIAMO GRANDI
COME LA VITA
Traduzione di Chiara Brovelli
A mia madre, Mary Michael Carnes.
Porto con me il tuo cuore.
Caro Kurt Cobain,
oggi la signora Buster, la prof d’inglese, ci ha assegnato il primo compito dell’anno: scrivere una lettera a una persona che non c’è più. Come se potesse arrivarti in paradiso, o all’ufficio postale dei fantasmi. Probabilmente lei intendeva un ex presidente, o un tipo così, ma io ho bisogno di qualcuno con cui parlare, e con un presidente non ce la faccio proprio. Con te invece sì.
Vorrei che mi dicessi dove ti trovi adesso, e perché te ne sei andato. Eri il cantante preferito di mia sorella May. Da quando lei è mancata, io non riesco a essere me stessa, non so più chi sono. Adesso che ho cominciato le superiori, però, mi conviene capirlo in fretta. Se no, qui, sento che potrei affogare.
Le uniche cose che so di questo posto appartengono a May. Il primo giorno ho aperto il suo armadio e ho trovato i vestiti che lei aveva indossato il suo primo giorno: una minigonna a pieghe e un maglione di cachemire rosa, a cui aveva tagliato il collo e appuntato una toppa dei Nirvana, quella che ha lo smile con due X al posto degli occhi. Il fatto è che May era bella, di una bellezza che ti rimane impressa. Aveva i capelli lisci e perfetti e camminava come se venisse da un altro pianeta, migliore di questo, quindi indosso a lei quel completo aveva un senso. Me lo sono messo e mi sono guardata allo specchio, cercando di sentirmi parte di quel suo mondo, ma su di me quei vestiti sembravano un costume. Così, ho optato per il mio abbigliamento preferito di quando ero alle medie, cioè salopette di jeans, T- shirt a maniche lunghe e orecchini a cerchio. Non appena ho messo piede nell’atrio della West Mesa High, però, ho capito di aver sbagliato tutto.
La seconda cosa di cui mi sono resa conto è che non devi portati il pranzo da casa.
Devi prenderti un trancio di pizza e biscotti Nutter Butter, quelli ripieni al burro d’arachidi, oppure non devi proprio mangiare. Zia Amy, da cui vivo una settimana sì e una no, ha cominciato a prepararmi panini con lattuga iceberg e maionese, perché era quello che May e io adoravamo da bambine. Una volta avevo una famiglia normale. Cioè, non perfetta, ma eravamo mamma, papà, io e mia sorella.
Sembra sia passato un secolo. Ma zia Amy ce la sta mettendo tutta, e le piace così tanto preparare panini che non posso dirle che alle superiori non vanno bene. Così, ogni giorno all’ora di pranzo vado in bagno, divoro il panino in due bocconi e butto il sacchetto di carta nel cestino per gli assorbenti igienici.
Dopo una settimana non conosco ancora nessuno. I ragazzi che frequentavano le medie con me sono andati alla Sandia High, dove stava anche May. Ma io non volevo che mi compatissero e mi facessero domande a cui non avrei saputo
rispondere, perciò ho scelto la West Mesa, quella che sta nel quartiere di zia Amy.
Dovrebbe essere un nuovo inizio… credo.
Dal momento che non mi va di trascorrere i quarantatré minuti per il pranzo chiusa nel bagno, non appena ho finito il mio panino esco e vado a sedermi accanto al recinto della scuola. Voglio rendermi invisibile, per osservare senza essere vista.
Gli alberi cominciano a perdere le foglie, ma fa ancora abbastanza caldo da poter andare a nuotare. C’è un ragazzo che mi piace un sacco; mi pare di aver capito che si chiami Sky. Porta sempre un giubbotto di pelle, anche se praticamente siamo ancora in estate. Mi ricorda che l’aria non è semplicemente qualcosa che sta lì, intorno a noi. È qualcosa che respiriamo. Anche se si trova dall’altra parte del cortile, scorgo il suo petto che si alza e si abbassa.
Non so perché, ma in questo posto pieno di estranei è bello pensare che Sky e io respiriamo la stessa aria. La stessa che respiravi tu. La stessa che respirava May.
A volte, sentendo la tua musica ho l’impressione che ti porti dentro troppe cose.
Forse nemmeno tu sei riuscito a tirarle fuori tutte. Forse è per questo che sei morto.
Come se fossi esploso dall’interno. Probabilmente non sto facendo questo compito come dovrei. Magari ci riprovo più tardi.
Con affetto, Laurel
Caro Kurt Cobain,
quando la professoressa Buster ci ha detto di passare le lettere al compagno
davanti, e di farle arrivare alla cattedra, io ho abbassato lo sguardo sul mio blocco e l’ho richiuso. Non appena è suonata la campanella, ho preso la mia roba in fretta e furia e sono uscita. Ci sono cose che non posso dire a nessuno, se non a persone che non sono più qui.
La prima volta che May mi fece sentire un tuo pezzo ero in terza media. Lei aveva due anni in più e da quando aveva iniziato a frequentare le superiori aveva
cominciato ad allontanarsi da me. Mi mancava, e mi mancavano i mondi che inventavamo insieme. Ma quella sera, in macchina, tornammo a essere soltanto noi due. Selezionò «Heart-Shaped Box», e devo dirti che non avevo mai sentito niente di simile.
Quando May distolse gli occhi dalla strada e mi chiese: «Ti piace?» fu come se mi avesse aperto la porta del suo nuovo mondo, invitandomi a entrare. Annuii. Era un mondo pieno di sentimenti per i quali ancora non avevo parole.
Ultimamente ho ripreso ad ascoltarti. Metto In Utero nel lettore CD, chiudo la porta e gli occhi, e ascolto l’album per intero un sacco di volte. E quando sono lì, con la tua voce… è difficile da spiegare, ma ho la sensazione che tutto cominci ad avere un senso.
Dopo che è morta May, lo scorso aprile, è stato come se il mio cervello si fosse chiuso. Non sapevo che cosa rispondere alle domande che mi facevano i miei, così per un po’ ho smesso di parlare. E alla fine abbiamo smesso tutti di parlare, almeno di quello. Non è vero che il dolore unisce le persone. Ciascuno di noi stava sulla propria isola privata: papà in casa, la mamma nell’appartamento in cui si era trasferita qualche anno prima, e io che rimbalzavo avanti e indietro in silenzio, troppo stordita per affrontare gli ultimi mesi delle medie.
Alla fine papà ha cominciato a guardare le sue partite di baseball con il volume a palla ed è tornato al lavoro alla Rhodes Construction, e due mesi dopo la mamma è andata a vivere in un ranch in California. Forse ce l’aveva con me perché non sono riuscita a dirle che cos’era successo. Ma non posso raccontarlo a nessuno.
Nella lunga estate passata a non fare niente, ho iniziato a navigare in Internet alla ricerca di articoli, fotografie o di una storia che potesse sostituire quella che continuava a ronzarmi nella testa. C’era il necrologio che descriveva May come una bella ragazza e una brava studentessa, amata dalla sua famiglia. E poi un articoletto tratto dal quotidiano locale dal titolo: «Adolescente muore
tragicamente», accompagnato da una fotografia dei fiori e degli oggetti che alcuni ragazzi della sua vecchia scuola avevano lasciato accanto al ponte, e dalla foto dell’annuario scolastico, in cui May ha i capelli lucenti, sorride e sembra guardare negli occhi chi la osserva.
Forse tu puoi aiutarmi a trovare una porta verso un mondo nuovo. Non mi sono ancora fatta degli amici. In effetti, non ho praticamente aperto bocca in questi dieci giorni, se non per rispondere: «Presente» all’appello. E per chiedere alla segretaria l’orario delle lezioni. Nel mio corso d’inglese, però, c’è questa ragazza di nome Natalie. Si fa dei disegni sulle braccia. Non solo i classici cuoricini, ma prati abitati da creature, ragazze e alberi che sembrano vivi. Porta i capelli raccolti in due trecce che le arrivano alla vita, e ha la pelle scura e perfettamente liscia. Gli occhi sono di due colori diversi, uno quasi nero, l’altro verde opaco. Ieri mi ha passato un
bigliettino con uno smile. Forse, prima o poi pranzerò con lei.
Quando gli altri sono in fila per comprarsi da mangiare, sembrano molto uniti.
Vorrei esserci anch’io, là in mezzo. Sul serio. Non ho voluto chiedere soldi a papà, perché si stressa ogni volta che lo faccio, e non posso parlarne a zia Amy, che è convinta di rendermi felice con i suoi sandwich. Ma ho cominciato a mettere da parte le monetine che trovo in giro, un penny per terra, un quarto di dollaro nel distributore di bibite rotto; e ieri ho preso cinquanta centesimi che erano sul cassettone della zia. Mi sono sentita uno schifo, però ho racimolato la somma che mi serviva per comprarmi un Nutter Butter.
Mi è piaciuto tutto. Mi è piaciuto aspettare in fila con gli altri. Mi è piaciuto il fatto che la tipa davanti a me avesse i riccioli rossi, che chiaramente si era fatta da sola.
E mi è piaciuto il fruscio dell’involucro di plastica, quando ho aperto la confezione.
Ed ecco che cos’è successo dopo. Stavo sgranocchiando il mio Nutter Butter, e intanto fissavo Sky attraverso la pioggia di foglie. È stato allora che mi ha visto. Si stava voltando per parlare con qualcuno. Ha cominciato a muoversi al rallentatore.
I nostri sguardi si sono incrociati per un momento, prima che io distogliessi gli occhi. Mi è sembrato che tante lucciole mi si accendessero sotto la pelle. Il fatto è che, quando ho guardato un’altra volta nella sua direzione, lui mi stava ancora fissando. E i suoi occhi hanno avuto lo stesso effetto della tua voce: hanno spalancato dentro di me un mondo nuovo.
Con affetto, Laurel
Cara Judy Garland,
ho pensato di scriverti perché Il mago di Oz è ancora oggi il mio film preferito. La mamma me lo metteva sempre, quando ero malata e stavo a casa da scuola. Mi dava il ginger ale con cubetti di ghiaccio sintetico rosa e pane tostato alla cannella, e tu cantavi «Somewhere Over the Rainbow».
Adesso mi rendo conto che tutti conoscono la tua faccia. E la tua voce. Ma non tutti sanno dove vivevi, quando ancora non lavoravi nel cinema.
Ti immagino bambina, in una giornata di dicembre, nella città della tua infanzia, ai margini del deserto del Mojave. Ballavi il tip tap sul palco del cineteatro di tuo padre. Cantavi «Jingle Bells». Hai imparato presto che gli applausi fanno sentire amati.
Ti immagino nelle sere d’estate, quando venivano tutti al cinema per sfuggire al caldo torrido. Sotto l’aria condizionata, mentre tu ballavi, il pubblico dimenticava per un attimo tutte le sue paure. Tua mamma e tuo papà ti sorridevano. Erano felicissimi, quando cantavi.
Dopo, il film scorreva in un confuso bianco e nero e all’improvviso tu ti
addormentavi. Tuo padre ti portava fuori in braccio, e poi tornavate a casa sulla sua grande automobile, una barca che galleggiava sull’asfalto scuro.
Non volevi vedere persone tristi, per questo cantavi sempre. Cantavi a te stessa per addormentarti quando i tuoi litigavano. E, negli altri momenti, cantavi per farli ridere. Usavi la voce come fosse colla, per tenere unita la tua famiglia. E poi per non andare in pezzi.
Mia madre ci cantava una ninnananna per farci dormire. Mi accarezzava i capelli e rimaneva con me finché non mi addormentavo. Quando non ci riuscivo, mi diceva di immaginarmi dentro una bolla, sopra il mare. Io chiudevo gli occhi e fluttuavo, ascoltando le onde. Abbassavo lo sguardo e vedevo lo scintillio dell’acqua.
Quando la bolla scoppiava, sentivo la sua voce che ne costruiva una nuova, pronta ad afferrarmi.
Se ci provo adesso, però, la bolla scoppia subito. Devo aprire gli occhi, spaventata, prima di schiantarmi. La mamma è troppo triste per prendersi cura di me. Lei e papà si erano lasciati poco prima che May cominciasse le superiori e, quando mia sorella è morta, due anni dopo, si è trasferita in California.
La casa, ora che papà e io siamo rimasti soli, è piena di echi. Con la mente, torno ai momenti in cui stavamo ancora tutti insieme. Sento il profumo della carne che sfrigolava, quando la mamma preparava la cena. Vedo uno scintillio intorno a me.
Se guardo dalla finestra, mi rivedo nel giardino con May, mentre raccogliamo gli ingredienti per le nostre pozioni magiche.
Dopo la separazione stavamo con la mamma una settimana sì e una no, adesso invece sto da zia Amy. Anche la sua casa è vuota, ma è un vuoto diverso. Non è popolato di fantasmi. La casa è silenziosa, con tante mensole piene di ceramiche decorate con le rose, di bambole di porcellana e saponette alla rosa che dovrebbero lavare via la tristezza. Ma suppongo che la zia le tenga da parte per i momenti in cui servono davvero.
In questo momento sto guardando fuori da una delle finestre di questa casa fredda, avvolta nella trapunta, e cerco la prima stella. Vorrei sapere dove ti trovi, adesso.
Cioè, lo so che sei morta, ma credo che gli esseri umani possiedano qualcosa che non può svanire. È buio, fuori. Tu sei là, da qualche parte. Vorrei farti entrare.
Con affetto, Laurel
Cara Elizabeth Bishop,
voglio raccontarti due cose che sono successe oggi, durante l’ora d’inglese.
Abbiamo letto una tua poesia, e io ho parlato in classe per la prima volta.
Frequento le superiori da due settimane ormai, e finora avevo trascorso quasi tutte le lezioni guardando fuori dalla finestra, osservando gli uccelli che volavano tra i cavi del telefono e i pioppi scintillanti. Stavo pensando a quel ragazzo, Sky, e mi stavo domandando che cosa vede quando chiude gli occhi, quando ho sentito il mio nome. Ho sollevato lo sguardo. Le ali di quegli uccelli mi frullavano nel petto.
La professoressa Buster stava parlando con me. «Laurel, vuoi leggere, per favore?»
Non sapevo nemmeno dove fossimo arrivati, ma poi Natalie si è chinata sul mio banco e ha girato le fotocopie fino alla pagina giusta. La poesia attaccava così:
Dell’arte di perdere si è facili maestri;
ogni cosa pare così colma dell’intento
d’andar persa, che perderla non è un disastro.
All’inizio ero molto nervosa. Mentre leggevo, però, ho cominciato ad ascoltare quelle parole, e ho capito.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta l’estro delle chiavi perse, dell’ora senza sentimento.
Dell’arte di perdere si è facili maestri.
Poi allenati a un perdere ulteriore, a un perdere più lesto:
luoghi, nomi e ogni dove che la mente
voleva visitare. Nulla di ciò sarà un disastro.
Ho perso l’orologio della mamma. Impiastro!
E di tre amate case non ho salvato niente.
Dell’arte di perdere si è facili maestri.
Ho perso due città stupende. E in quel contesto, diversi regni miei, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Perfino nel perderti (un riso nella voce, un gesto che amo) non avrò mentito. È evidente,
dell’arte di perdere si è facili maestri
anche se può sembrare (e scrivilo!) un disastro.
Credo che la voce mi tremasse parecchio, come se la tua poesia mi avesse scosso profondamente. Quando ho finito di leggere, in aula non volava una mosca.
La professoressa Buster ha fatto quello che fa sempre, ha guardato la classe con i suoi enormi occhi da insetto, e ha chiesto: «Che cosa ne pensate?»
Natalie si è voltata verso di me. Probabilmente era a disagio perché i compagni stavano fissando me, anziché la professoressa. Così ha alzato la mano e ha
risposto: «Be’, è chiaro che mente. Non è facile perdere una cosa». A quel punto, si sono girati tutti verso di lei.
«E perché è più difficile perdere certe cose, piuttosto che altre?» ha chiesto la professoressa Buster.
Nella voce di Natalie c’era una punta di sarcasmo, quando ha replicato: «Dipende dall’amore, è ovvio. Più si ama una cosa, più è dura perderla».
Ho alzato la mano prima ancora di rendermene conto. «Io penso che, quando perdiamo una cosa molto vicina, è come se perdessimo noi stessi. Per questo, alla fine, l’autrice ha difficoltà persino a scrivere. Perché adesso non ricorda quasi come sia successo. Perché non sa più che cos’è diventata.» Di nuovo, gli sguardi di tutti sono tornati su di me, ma grazie a Dio in quel momento è suonata la
campanella.
Ho preso in fretta le mie cose. Ho lanciato un’occhiata a Natalie, e ho avuto l’impressione che mi stesse aspettando. Forse mi avrebbe chiesto di pranzare con lei, e così non sarei più dovuta andare a sedermi accanto al recinto.
Ma poi ho sentito la voce dell’insegnante. «Laurel, ti posso parlare un momento?»
L’ho odiata, perché Natalie è uscita dall’aula. Sono andata alla cattedra. «Come va?» mi ha chiesto.
Avevo ancora i palmi sudati per aver parlato davanti a tutti. «Ehm, bene.»
«Mi sono accorta che non hai consegnato il primo compito che vi ho assegnato. La lettera.»
Gli occhi bassi, ho fissato la luce fluorescente che si rifletteva sul pavimento e ho mormorato: «Già, mi scusi. Non l’ho ancora finita».
«D’accordo. Per questa volta ti concederò un po’ più di tempo. Ma vorrei che me la facessi avere entro la prossima settimana.»
Ho annuito.
Poi, ha aggiunto: «Laurel, se avessi bisogno di qualcuno con cui parlare…»
L’ho guardata, senza capire.
«Prima di venire qui, insegnavo alla Sandia», mi ha spiegato lei, cauta. «May era nella mia classe, il primo anno.»
Mi si è fermato il respiro. La testa ha cominciato a girarmi. Ero convinta che nessuno, qui, sapesse… o, per lo meno, che nessuno mi avrebbe parlato di questa storia. Invece, adesso la professoressa Buster mi stava fissando come se si
aspettasse il mio aiuto per chiarire un orribile mistero. E io non potevo fare nulla.
Alla fine, ha concluso: «Era una ragazza speciale».
Ho ingoiato la saliva. «Sì», ho detto, e sono uscita.
Il chiasso nel corridoio si è trasformato nel fiume più impetuoso e rumoroso che avessi mai sentito. Ho pensato che forse avrei potuto chiudere gli occhi, e tutte quelle voci mi avrebbero portato via.
Con affetto,
Laurel
Caro River Phoenix,
la camera di May, a casa di papà, è come allora. È rimasta uguale, a parte il fatto che la porta è sempre chiusa, e che dall’interno non viene alcun rumore. A volte mi sveglio da un sogno e mi pare di sentire i suoi passi, mentre rientra di nascosto dopo aver trascorso la serata fuori. Il cuore mi batte forte per l’eccitazione, e mi tiro su a sedere, finché non mi torna tutto in mente.
Se non riesco a riaddormentarmi, mi alzo e cammino in punta di piedi lungo il corridoio, giro la maniglia senza farla cigolare ed entro nella sua stanza. È come se non se ne fosse mai andata. Noto ogni particolare, ed è tutto come quella sera, quando siamo andate al cinema insieme. Le due mollette sul ripiano del cassettone, disposte a croce. Le prendo e me le metto nei capelli. Poi le ripongo accuratamente al loro posto, a croce, la punta rivolta verso la boccetta quasi vuota del suo
profumo preferito e verso il tubetto di lucidalabbra brillante che non aveva mai sulle labbra quando usciva di casa, ma che le vedevo sempre quando rientrava. La mensola più alta della libreria è occupata dalle sue collezioni di occhiali da sole a cuore, candele consumate a metà, conchiglie e minerali. Mi sdraio sul suo letto e guardo le sue cose, mentre cerco di immaginarmela ancora qui. Fisso la bacheca tappezzata di fiori essiccati fermati da puntine, oroscopi strappati da qualche rivista e fotografie. Una ritrae noi due da bambine, su un carretto con la mamma, in estate.
Un’altra era stata scattata prima che andasse al ballo della scuola: May indossa un vestito a sottoveste lungo, e nei capelli ha la rosa che adesso è appuntata alla bacheca.
Apro il suo armadio e guardo le magliette con i lustrini, le minigonne, i maglioni tagliati al collo, i jeans strappati sulle cosce. I suoi vestiti sono audaci, come lo era lei.
Alla parete, sopra il suo letto, c’è un poster dei Nirvana, e accanto c’è una tua foto, presa da Stand by Me - Ricordo di un’estate. Hai una sigaretta tra le labbra, gli zigomi alti, i capelli biondi. Mia sorella ti adorava. Ricordo la prima volta che vedemmo il film. Fu poco prima che i nostri genitori si separassero, e che May cominciasse le superiori. Era tardi e tutt’e due eravamo ancora sul divano, sotto una montagna di coperte, con una ciotola di popcorn in mano. Stavamo guardando la tv, quando cominciò Stand by Me. Non ti avevamo mai visto. Eri così bello. No, eri qualcosa di più: era come se ti conoscessimo. Nel film ti prendevi cura di Gordie, che aveva perso il fratello maggiore. Lo proteggevi. Ma avevi anche tu i tuoi problemi. I genitori degli altri ragazzi, gli insegnanti, tutti gli abitanti di Castle Rock ti credevano un buono a nulla per via della reputazione della tua famiglia.
Quando pronunciasti quella battuta: «Vorrei solo poter andare in un posto in cui nessuno mi conosce», May si voltò verso di me e disse: «Mi piacerebbe tirarlo fuori dallo schermo e portarlo qui, nel nostro soggiorno. Lui ci appartiene, non credi?» E io annuii.
Alla fine del film, May era già innamorata di te. Voleva sapere che aspetto avessi adesso, così cercammo sul computer di papà. C’erano un sacco di foto, alcune tratte da Stand by Me, altre successive. Ma in tutti quegli scatti sembravi
vulnerabile e duro al tempo stesso. E poi scoprimmo che eri morto. Overdose di speedball. Avevi solo ventitré anni. Fu come se il mondo si fosse fermato. Un attimo prima era stato come averti lì, in quella stanza. E invece non eri più su questa terra.
Quando ci ripenso, ho come la sensazione che sia stato in quel momento che le cose hanno cominciato a cambiare. Forse allora non riuscimmo a esprimerlo a parole, ma la notizia della tua morte ci mostrò per la prima volta che anche l’innocenza poteva avere un destino tragico. Poi May spense il computer e si asciugò le lacrime. Disse che, per lei, saresti rimasto vivo per sempre.
Dopo quella sera, ogni volta che guardavamo Stand by Me (comprammo il DVD, e quell’estate lo rivedemmo all’infinito), abbassavamo il volume a zero nella scena in cui Gordie dice che Chris – il tuo personaggio – è stato ucciso. Non volevamo sentirlo. Con quell’alone di luce intorno alla testa… eri un ragazzo, un ragazzo che sarebbe diventato un uomo. Ed era così che noi volevamo vederti, perfetto ed eterno.
Lo so che May è morta. Voglio dire, il mio cervello lo sa, ma a me sembra così irreale. La sento ancora qui, con me. Come se una notte dovesse entrare dalla finestra, dopo essere uscita di nascosto, e raccontarmi quello che ha fatto. Forse, se imparerò a essere un po’ più come lei, capirò come vivere senza di lei.
Con affetto, Laurel
Cara Amelia Earhart,
ricordo che, quando ti sentii nominare per la prima volta, durante la lezione di scienze sociali alle scuole medie, fui quasi gelosa di te. So che non è esattamente quello che si dovrebbe provare nei confronti di una persona scomparsa in
circostanze tragiche, ma a rendermi gelosa non fu tanto la tua morte, quanto l’idea di volare, di sparire. E anche il modo in cui vedevi la terra dall’alto. Non avevi paura di perderti. Decollavi, e basta.
Stamattina ho deciso che mi serve almeno un briciolo del tuo coraggio, perché ho cominciato le superiori tre settimane fa, e non posso continuare a starmene da sola vicino al recinto della scuola. Così, dopo aver passato in rassegna i miei vecchi vestiti – tutti orribili, per quanto mi sforzi di scegliere quelli che danno meno nell’occhio – sono andata ad aprire l’armadio di May, pieno di cose vivaci, forti.
La mattina usciva di casa con lo zaino su una spalla, e sembrava che ogni cosa fuori dalla nostra porta dovesse correrle incontro per salutarla. Ho preso la roba che si era messa il primo giorno di scuola, il maglione di cachemire rosa con una toppa dei Nirvana e la minigonna a pieghe. Me li sono infilati. Questa volta non mi sono guardata allo specchio, perché sapevo che sarei inorridita e mi sarei tolta tutto. Ho prestato attenzione solo al fruscio della gonna contro le mie gambe nude, e ho pensato a ciò che doveva provare lei, quando la indossava.
Mentre papà mi accompagnava a scuola, in macchina, mi sono accorta che mi osservava. Alla fine, quando ha accostato per farmi scendere, mi ha detto, cauto:
«Sei carina, oggi».
Sapevo che aveva riconosciuto i vestiti di mia sorella. «Grazie, papà», ho risposto, nient’altro. Poi ho accennato un sorriso e sono saltata giù.
A pranzo, ho attraversato la mensa fino ai tavoli fuori e ho guardato gli altri ragazzi che si muovevano tutti insieme, felici, come se recitassero nello stesso film. Natalie, che è con me a inglese, era con una dai capelli rosso fuoco. Si sono sedute a un tavolo in mezzo alla folla di studenti. Tutt’e due hanno preso un succo di frutta, niente cibo. Sembrava che il sole fosse atterrato di proposito sui loro capelli. Natalie aveva le treccine e i tatuaggi disegnati, e indossava una maglietta di Batman che le stringeva sul petto. La rossa portava una gonna nera a tutù e una sciarpa rosso acceso, come il rossetto. Non erano vestite come le ragazze più popolari della scuola, che sembravano uscite da una rivista di moda. Ma per me erano stupende, come se appartenessero a una loro costellazione privata. Una di cui forse potrei far parte anch’io. A vederle, avrebbero potuto essere amiche di May.
Hanno scacciato i ragazzi della squadra di calcio, che ronzavano intorno alla rossa.
Volevo disperatamente andare a sedermi con loro; era un desiderio quasi fisico. Ho mosso qualche passo in quella direzione, pensando che magari Natalie mi avrebbe notato. Ma poi ho cominciato ad agitarmi e sono tornata a sedermi accanto al recinto. Mi sono alzata e mi sono seduta di nuovo.
Mi è tornata in mente una tua frase: «Nella vita non si deve essere semplici passeggeri». Ho pensato a te mentre solcavi i cieli. E a May, quando usciva di corsa la mattina. Ho accarezzato il suo maglione. E mi sono incamminata… di nuovo. A un paio di metri dal tavolo, mi sono fermata. Loro erano sedute vicine, si stavano scambiando i succhi di frutta per assaggiarli; appena si sono accorte che c’era qualcuno, hanno alzato lo sguardo. Probabilmente hanno immaginato che fosse un altro giocatore, e all’inizio Natalie sembrava seccata. Invece quando ha visto che ero io è stata carina. Mi sono sforzata di pensare a qualcosa da dire, ma non ci sono riuscita. Sentivo le voci che mi sfrecciavano intorno, e all’improvviso la mia mente era una tabula rasa.
In quel momento, però, ho sentito Natalie dire: «Ehi. Tu sei con me a inglese».
«Sì.» Ho deciso di rischiare, e mi sono seduta all’estremità della panchina.
«Io sono Natalie. Lei è Hannah.»
«Laurel.»
Hannah ha alzato gli occhi dal suo succo di frutta. «Laurel? È il nome più figo che abbia mai sentito.»
Natalie ha cominciato a parlare degli idioti che ci sono in classe con noi, e io ho fatto del mio meglio per ascoltarla, ma in realtà ero troppo felice per concentrarmi su quello che stava dicendo.
Alla fine del pranzo si erano innamorate della mia gonna, e di tutto il completo, e mi hanno domandato se volevo andare con loro alla fiera, dopo la scuola. Non riuscivo a crederci. Ho chiamato papà con il cellulare nuovo, che dovrebbe servire solo per le emergenze (anche se so già che non sarà così). Gli ho detto che delle ragazze mi avevano chiesto di uscire con loro alla fine delle lezioni, e di non preoccuparsi se non mi avesse trovato a casa al ritorno dal lavoro, perché avrei
preso l’autobus come al solito. Ho parlato così in fretta da non dargli il tempo di obiettare.
Adesso c’è algebra, e io non vedo l’ora che suoni la campanella. I numeri sulla lavagna non hanno senso, perché per la prima volta in tutta la mia vita ho un posto dove andare.
Con affetto, Laurel
Cara Amelia Earhart,
la fiera era bella come la ricordavo, piena di gente al punto giusto e di bancarelle che vendevano cappelli da cowboy e T-shirt aerografate.
Morivamo di fame – e il modo in cui Natalie e Hannah lo dicevano, «Muoio di fame», era facile da ripetere, facile da adottare – e quando ci siamo messe in fila per le patatine fritte, Hannah ha cominciato a flirtare con il ragazzo che stava davanti a noi. Aveva una canotta bianca e i capelli tirati indietro con il gel, e dallo sguardo sembrava volesse mangiarsela. Hannah ha i capelli dritti come spaghetti, almeno a sentire lei, ma si mette i bigodini tutti i giorni. I riccioli morbidi le incorniciano il viso, e con quei suoi occhi grandi dà sempre l’impressione di aver visto qualcosa di incredibile. Ha perennemente le labbra incurvate, quasi sorridesse per una battuta che ha udito soltanto lei.
Ero preoccupata perché non avevo soldi, così ho pensato di dire che alla fine non ero poi così affamata; quando siamo arrivate al banco, però, Hannah ha lasciato che fosse il ragazzo a pagare per tutte e tre. Quel tipo mi stava facendo innervosire per il modo in cui le stava addosso. Continuavo a pensare che prima o poi avrebbe fatto qualcosa, invece, non appena abbiamo avuto le nostre patatine, lei l’ha
ringraziato e se n’è andata, lasciandolo lì a fissarla. Probabilmente se l’è tirata un po’, ma Natalie non mi è sembrata impressionata dal suo comportamento. Ha commentato soltanto: «Troppo gel?»
Dopo mangiato, siamo andate verso il recinto della scuola per fumare una sigaretta.
Per me era la prima volta, e non sapevo come comportarmi. L’avevo visto fare a May, così ho provato a imitarla. Ma suppongo che le altre se ne siano accorte subito. Natalie si è messa a ridere così forte che le è venuta la tosse. «No, devi fare così», ha detto, e mi ha mostrato come respirare il fumo. La testa ha cominciato a girarmi sul serio, e mi è venuta la nausea. Dopo, camminavo a zigzag.
Così, quando Natalie e Hannah hanno deciso di salire sui giochi del luna park, non ero più sicura di volerci andare. Ce n’era uno speciale, con un costo extra, dove ti mettevano in un’imbragatura e ti tiravano su, più in alto di qualunque edificio della città. E poi ti lasciavano cadere, facendoti volare sopra la fiera. Alla fine ho detto che avevo dimenticato di portarmi i soldi, ma Hannah aveva con sé una parte del suo stipendio. Alcune sere alla settimana lavora come hostess di sala al Japanese Kitchen.
«È così carina», ha commentato Natalie, sorridendole, «che l’hanno assunta anche se ha solo quindici anni.»
«Sta’ zitta», le ha risposto Hannah. «Mi hanno preso perché hanno capito subito che sarei stata un acquisto azzeccato!»
Ha contato i soldi, che non erano sufficienti per tutte e tre; ma ha detto che il ragazzo che gestisce il gioco ci avrebbe fatto lo sconto, se fossimo state carine con lui. Quando siamo arrivate in testa alla fila, il cuore mi martellava nel petto. Una parte di me sperava che quel tipo ci dicesse di no, perché ero terrorizzata. Ma Hannah ha sfoderato il suo sorriso migliore, e lui ha accettato di farci pagare un po’ meno. Ho pensato a te, a quanto eri coraggiosa sul tuo aereo. E al coraggio che infondevi anche in chi ti stava intorno. Un attimo dopo, eravamo imbragate
insieme, tutte e tre, e il ragazzo ci stava tirando su. Là in alto, mentre aspettavamo di cadere, vedevamo la gente piccolissima, sparsa per il luna park. Ho dimenticato di avere paura. Stavo pensando che ognuno di quei puntini era come un’isola, con foreste segrete e pensieri nascosti.
Ed è stato in quel momento che quel tipo ci ha mollato giù! Senza nessun
preavviso. Stavamo volando. Non credo che avrei potuto provare una sensazione più perfetta di quella. Stavo attraversando il sole del tardo pomeriggio, e il
profumo di pannocchie arrostite e patatine fritte, al di sopra di tutte quelle isole.
Andavo così veloce che, quando aprivo la bocca, vi entrava un mondo intero fatto d’aria. E accanto a me c’erano quelle che forse sarebbero diventate le mie nuove amiche.
Ho pensato a te, che dall’alto osservavi la terra in continuo mutamento. L’erba alta che ondeggiava. I fiumi simili a lunghe dita, e la nebbia che dal mare risucchiava la costa. E ho pensato a come, quando sparisti, diventasti parte di quel paesaggio che vedevi scorrere sotto di te.
Con affetto, Laurel
Caro Kurt Cobain,
per tutto il weekend ho temuto che Natalie e Hannah si sarebbero dimenticate di me, quando ci fossimo riviste a scuola. Invece stamattina, a inglese, Natalie mi ha passato un bigliettino con su scritto Idiota!, e con una freccia che indicava il ragazzo vicino a me, che stava disegnando un paio di tette sulla fotocopia con la poesia che ci aveva dato la professoressa. Mi sono voltata verso di lei e ho sorriso, per farle sapere che avevo capito la battuta. Poi, a pranzo, lei e Hannah mi hanno invitato al loro tavolo. Ho avuto un tuffo al cuore: in un lampo ho gettato via la borsa con il panino e sono andata a sedermi con loro. Hannah mi ha offerto le sue patatine Doritos, leccandosi il formaggio dalle dita.
Mi sono sforzata di non cercarlo, ma dopo un po’ l’ho visto. Sky. Stava fissando me, con le mie nuove amiche. Chissà se il sole mi illuminava come faceva con loro. Ho immaginato che i suoi raggi mi facessero brillare, e ho indugiato su di lui con lo sguardo un po’ troppo a lungo.
Hannah mi ha beccato. «Chi stai guardando?»
«Nessuno», ho mormorato, ma subito ho sentito le guance in fiamme.
«Chi? Dimmelo!» ha insistito.
Non volevo rischiare di troncare un’amicizia sul nascere, così le ho detto: «Ecco…
ehm… credo si chiami Sky».
Lei l’ha individuato all’istante. «Ooooh. Sky. Ma certo. Mister Mistero.»
«Che cosa vuoi dire?» le ho chiesto.
«Che è uno di quei tipi che conoscono tutti, ma di cui nessuno sa nulla. Non so come riesce a essere popolare senza essersi fatto ancora dei veri amici. Si è
trasferito in questa scuola da qualche mese. È al terzo anno. Ma è supersexy. Me lo farei senza pensarci due volte.»
Natalie le ha dato una botta sulla spalla. «Hannah!»
«Che c’è? Non intendevo dire che me lo farò. È già di Laurel.»
Sono arrossita ancora. E ho borbottato che non era mio.
Anche Hannah si è voltata a guardarlo. «Be’, noi faremo in modo che lo diventi. Ti sta fissando.»
E mi stava guardando ancora, quando mi sono girata.
In quel momento mi sono resa conto che forse la nuova Laurel è questa. L’ho capito mentre ero lì, con il cemento che mi bruciava le gambe attraverso i vecchi jeans che avevo tagliato prima di andare a scuola – così corti che non arrivano nemmeno alla punta delle dita, se tengo le mani lungo i fianchi – e con la camicia bianca e argento di May, che scintillava sotto il sole.
È stato come se una band invisibile avesse cominciato a suonare la colonna sonora della mia nuova vita. Ti ho sentito, Kurt. Chissà se anche May aveva provato la stessa cosa, alle superiori. Probabilmente sì, perché quella era la sua musica. Tutti i pezzi che avevo ascoltato con lei sono partiti insieme. Il mondo in cui era sparita era lì, intorno a me. Ho alzato gli occhi, che avevo abbassato per l’imbarazzo e, mentre Sky continuava a guardarmi, mi sono voltata verso Natalie e Hannah.
Sono scoppiata a ridere, forte, e dentro di me sentivo la presenza prepotente della Laurel segreta che potrei diventare. Ciao, ciao, ciao.
Con affetto, Laurel Caro Kurt,
i vestiti di May devono aver fatto qualche incantesimo: da quando ho cominciato a indossarli, infatti, stanno succedendo un sacco di cose. Per tutta la settimana ho pranzato con Natalie e Hannah. Poi oggi, venerdì, stavo percorrendo il corridoio per andare a lezione di biologia, seguendo le strisce segnaletiche sul pavimento.
D’un tratto ho alzato gli occhi, perché stavo per andare a sbattere contro qualcuno.
Era lui. Sky. Mi stava così vicino che avrei potuto sollevare una mano e toccarlo.
«Ehi, come va?» La sua voce mi ha fatto pensare a una manciata di ghiaia che si trasformava in granelli di zucchero.
Ho cominciato a studiare una risposta. So che «Come va?» è una frase che si dice tanto per dire, ma rispondere è sempre difficile. In pratica, dovresti replicare che va bene, o male, e nient’altro.
Alla fine, ho deciso per: «Ti ho visto, l’altro giorno». Ogni singola parola che mi usciva dalla bocca sembrava un sasso che cadeva sul fondo di un lago.
Lui ha annuito, e ha inclinato appena la testa. Come se stesse cercando di capire che cosa fossi.
«Io sono Laurel», ho aggiunto.
«Sky.» Mi ha sorriso.
Stavo per dire: «Lo so», ma ci ho ripensato. Quando sono riuscita a metterlo a fuoco, ho notato che indossava una maglietta dei Nirvana. Perfetto, ho pensato.
«Adoro Kurt Cobain», gli ho detto.
«Sul serio? Qual è il tuo album preferito?»
«In Utero.»
«Brava. Rispondono tutti Nevermind. Cioè, tutti quelli che non ascoltano veramente i brani.»
Gli ho sorriso anch’io, e mi sono lambiccata il cervello per tenere viva la
conversazione. «Già. Mi piace il modo in cui… mi piace come canta, quasi stesse esplodendo dall’interno.» L’avevo detto davvero?
Comunque, Sky ha annuito, come se sapesse esattamente che cosa intendevo. Ed è stato in quel momento che mi sono accorta che mi stava guardando come se
volesse toccarmi. Ho dato uno strattone alla T-shirt arancione di May, che mi stava piuttosto aderente. Ho sentito la pelle in fiamme. Dovevo allontanarmi, prima di prendere fuoco.
«Sto andando a biologia.»
«Okay. Magari ci si vede in giro.»
Ho annuito e mi sono avviata, con il cuore che mi martellava nel petto. Non
voltarti, mi sono detta, e invece l’ho fatto. E lui mi stava ancora guardando. Dentro di me, si è acceso qualcosa… il mistero di ciò che vedeva quando mi osservava.
In aula, mentre il professor Smith parlava del legame covalente, ho continuato a rivivere la scena di poco prima, e ogni volta notavo un particolare nuovo. La manica risvoltata, per esempio. I peli ritti sul bicipite. La lentiggine sulla palpebra.
Ho pensato a quello che mi aveva detto Hannah, riguardo al fatto che si fosse trasferito da poco. Chissà da dove veniva, e se era mai stato innamorato.
Con affetto, Laurel
Cara Amy Winehouse,
ricordo che una sera, quando rincasò dopo essere uscita di nascosto, May venne in camera mia. Si sdraiò sul letto e mi disse sottovoce: «Devi sentire questa
canzone!» Mi mise un auricolare nell’orecchio e, mentre si abbandonava sul cuscino, sentii la tua voce per la prima volta. «I’ll go back to black», cantavi. Il ritmo era brillante, ma la tua voce di miele nascondeva una ferita, una sofferenza…
no, in realtà non è così semplice. Avevi un modo di cantare che riusciva a mettere insieme tanti sentimenti. E io compresi che quelle parole erano vere. Che venivano da te.
Pare che anche Hannah, la mia nuova amica, ti adori. Facciamo educazione fisica insieme, all’ottava ora, e lei dimentica sempre la tuta per fare ginnastica. Da quando siamo state alla fiera, un paio di settimane fa, fingo spesso di averla scordata anch’io, anche se non è vero, così possiamo passeggiare insieme intorno alla pista di atletica, invece di giocare con gli altri a kickball, a badminton o a qualunque altra cosa. Hannah vuole fare la cantante, e ogni tanto, mentre
camminiamo, mi canta le tue canzoni. Le sue preferite sono «Stronger Than Me»,
«You Know I’m No Good» e, naturalmente, «Rehab». Le piace urlare «No, no,
no», e muovere i capelli rossi avanti e indietro. In lei rivedo un po’ te, che rifiutavi di farti controllare dagli altri.
Si comporta come se non avesse paura di niente, ma è evidente che nasconde dei segreti.
È il tipo di ragazza che fa perdere la testa agli uomini, ma non si atteggia come una che sa di essere bella. Invece, sembra che stia cercando un modo per fuggire da se stessa. Ha sempre un ragazzo, a volte anche due insieme.
Mi ha detto che i suoi genitori morirono quando era molto piccola, e che lei e suo fratello si trasferirono da una zia, in Arizona. Ma suo fratello si faceva sempre coinvolgere in qualche rissa a scuola, e così la zia li mandò qui, dai nonni.
Appena arrivata, in seconda media, Hannah cominciò a frequentare uno dei giocatori di calcio più ambiti della terza media. Poi un altro, e un altro ancora, e l’anno dopo uscì con due tipi delle superiori. Avrebbe potuto frequentare chiunque, nella nuova scuola, anche le ragazze più popolari, ma ha scelto Natalie perché è una che «capisce».
«Perché capisce che cosa?» le ho chiesto.
Lei ha scrollato le spalle. «Che cosa significa essere diversi, anche se non vuoi farlo sapere a tutti. Ho intuito subito che avrei potuto invitarla a passare la notte da me, e che non mi avrebbe considerato stramba per il fatto che amo il mio cavallo, e che vivo con i miei nonni, che stanno diventando sordi, e con un fratello tremendo che adora strillare.»
Mi ha raccontato anche di questo tipo, Kasey, con cui «ha una storia». Così dice lei. L’ha conosciuto al lavoro, al ristorante. Lui c’era andato con degli amici per festeggiare il compleanno di qualcuno. (È un bel posto per festeggiare un
compleanno, perché gli chef cucinano davanti a te, e fanno dei trucchi con il fuoco, al tavolo.) Frequenta il college e, in tutta onestà, io trovo molto strano che abbia voglia di uscire con una ragazza tanto più giovane. Sono un po’ preoccupata per lei, per via di un tizio con cui si era messa May… Paul, anche lui era molto più grande. Quando le ho chiesto perché stava con lui, Hannah si è messa a ridere e mi ha detto: «Perché sono precoce».
Io credo che Kasey tenga veramente a lei, e che non voglia solo divertirsi un po’, perché le manda fiori (tulipani rossi, i suoi preferiti). Hannah adora farli vedere a tutti, a scuola. La preside Weiner comincia a essere stufa che vengano consegnati nel suo ufficio, ma lei dice che glieli manda uno zio perché li porti alla nonna, che è a casa malata. La preside le ha chiesto perché lo zio non li fa recapitare
direttamente a casa, e lei ha risposto che nessuno va ad aprire la porta, quando qualcuno suona, e pertanto i fiori resterebbero ad avvizzire sotto il sole. La Weiner sa che mente, ma non replica sapendo che sua nonna è davvero malata, e che suo nonno è troppo sordo per stare a sentire le sue lamentele… e, probabilmente, troppo stanco per darvi peso. Così, Hannah porta i fiori di Kasey da un’aula all’altra, se li sistema sul banco e vi si nasconde quasi completamente dietro.
Penso che Natalie odi i fiori, e anche il fatto che Hannah ne riceva tanti. Perché non fa che ripetere che non crede a gesti del genere. In realtà, non so se sia del tutto vero, perché durante le lezioni di educazione artistica lavora a un quadro che
vuole regalare ad Hannah. Un tulipano. Me l’ha mostrato l’altro giorno, dopo la scuola, ma mi ha chiesto di non dirle niente. È una sorpresa. Natalie è davvero brava a dipingere.
Questa settimana sto da papà, il che significa che torno con l’autobus, perché lui lavora fino a tardi e non può venirmi a prendere. Oggi, però, invece di andare subito a casa, sono stata con Natalie e Hannah da Dairy Queen. Lungo la strada, loro si sono divertite un mondo ad alzare la maglietta per mostrare le tette alla gente. Io all’inizio avevo paura, ma poi mi sono detta che dovevo mandar giù quello che mi spaventava, come avevo imparato a fare quando uscivo con May.
Così ho iniziato a sollevarla anch’io, e poi a correre via come un fulmine. Ero sempre più veloce di loro. Mi raggiungevano dopo qualche isolato, urlando e ridendo. Allora urlavo e ridevo anch’io, perché il peggio era passato, e perché ero felice di far parte del gruppo.
Hannah ci ha offerto il gelato (sembrava orgogliosa di poterselo permettere), e poi ci ha lasciato per andare al ristorante. A lezione arriva quasi sempre in ritardo, ma sul lavoro è molto puntuale. Prima di andare, mi ha detto che domani sera, venerdì, andrà a dormire da Natalie, e mi ha chiesto di unirmi a loro. Ero al settimo cielo, perché significa che la nostra sta diventando una vera amicizia.
Papà è rientrato pochi minuti dopo di me. Lavora in una ditta di costruzioni.
Quando May e io eravamo piccole, e la sera lo vedevamo tornare a casa, correvamo ad abbracciarlo. Adoravo vederlo sporco e sudato, come se avesse appena vissuto un’avventura. La mamma preparava la cena e il profumo di carne arrostita e chili pervadeva la casa. Cucini come un fornaio, diceva papà. Non riuniva a caso gli ingredienti per poi assaggiare e aggiustare di sapore. Era tutto accuratamente calibrato.
Ma la vita non va così. Non puoi mai sapere che cosa ti riserverà il futuro, nemmeno se fai le cose per bene. Ti si rivolta contro. La vita, intendo. Papà
tornava a casa e sembrava robusto e forte, dopo una giornata in cantiere. Adesso è distrutto, come se gli fosse passato sopra un bulldozer. Quando May e io eravamo piccole, potevamo saltargli addosso e arrampicarci su di lui. Adesso, invece, se mi avvicino troppo, ho paura di inciampare e di fargli rovesciare tutta la tristezza che si sta tenendo dentro.
Adorava fare scherzi a tutt’e tre, come per esempio scambiare il sale con lo
zucchero (lo faceva così spesso che alla fine ci abituammo a metterne un po’ sulle mani e a leccarli per distinguerli). La mamma si irritava, ma noi lo trovavamo divertente. Il weekend nascondeva la sveglia sotto un cuscino del divano o in qualche altro posto e, quando squillava, noi dovevamo cercarla per tutta la casa.
Oppure faceva dei buchi nelle mele nel frigorifero, e vi infilava dei vermi gommosi. Questo era il nostro scherzo preferito, perché alla fine rimediavamo delle caramelle. Ora non fa più queste cose, ma mi bacia ancora sulla fronte quando rientra la sera. Poi mi chiede com’è andata la giornata, e io mi sforzo di fargli credere che va tutto bene.
Stasera ho cucinato al microonde i maccheroni al formaggio con dei mini hot dog, il nostro piatto preferito. Nel freezer c’è ancora del cibo avanzato dal funerale di
May. Sono passati quasi sei mesi, ormai, ma credo che nessuno dei due abbia voglia di mangiarlo.
«E così ti stai facendo delle amiche?» mi ha domandato, mentre cenavamo.
«Già.» Gli ho sorriso.
«È fantastico.»
«A proposito, volevo chiederti se posso andare a dormire da Natalie, domani sera.»
Ha esitato un momento, e io ho incrociato le dita sotto il tavolo. «Ma certo», ha risposto, alla fine. E, dopo una pausa, ha aggiunto: «Non voglio che ti rinchiuda qui dentro con me».
Poi ha acceso la tv per guardare la partita di baseball – è un tifoso dei Cubs, perché è cresciuto nell’Iowa, vicino alla squadra giovanile – e io l’ho vista con lui mentre facevo i compiti. Una volta approfittava di questi momenti per farmi una delle sue prediche, tipo: «Il baseball è come la vita», ma ha smesso. Non parliamo, durante l’incontro. Suppongo che certe cose siano troppo tristi, anche se spiegate con uno strike out a basi cariche.
Con affetto, Laurel Caro Kurt,
ieri sera mi sono ubriacata per la prima volta. Quando sono arrivata da Natalie, siamo andate tutt’e tre a piedi fino alla drogheria, dove faceva un freddo bestiale, come se ci fosse l’aria condizionata a palla. Tremando come foglie, abbiamo raggiunto la corsia degli alcolici, e Natalie ha preso una bottiglia di Aftershock rosso e l’ha nascosta nella felpa. Siamo andate in bagno, e abbiamo staccato
l’etichetta per evitare che facesse suonare l’allarme. Io mi sono sforzata di ignorare il cuore che mi martellava nel petto, e ho cercato di comportarmi normalmente, come se avessi già rubato in passato. Non ho detto nulla a proposito dei piedi che ho visto nel bagno accanto. Calzavano un paio di scarpe da ginnastica da mamma, con bambina al seguito. E siamo uscite.
Siamo tornate a casa di Natalie, ed eravamo sole perché quella sera sua madre aveva un appuntamento. Natalie ha detto che di solito non rientra prima dell’alba.
Siamo salite sul tetto con la bottiglia. L’Aftershock rosso ha dei cristalli
aromatizzati alla cannella sul fondo, e al primo sorso ho avuto la sensazione che qualcuno mi avesse acceso un dolcissimo fuoco in bocca. L’ho buttato giù subito, senza fare smorfie, e ho evitato di dire che non avevo mai bevuto alcolici. Se ci riusciva May, ho pensato, potevo farlo anch’io. Non doveva essere così terribile, no? Allora ho lasciato che il liquido mi scendesse lungo la gola, e nello stomaco.
Ho cominciato a ridere, e ho sentito il mio corpo rilassarsi, e alla fine ho
dimenticato di avere paura. Ci siamo distese supine per guardar passare gli aerei sopra di noi, e abbiamo inventato una canzone su di loro. Per quanto mi sforzi, non mi vengono in mente le parole. Ricordo, però, che la voce di Hannah era come quei cristalli alla cannella, dolce e con il fuoco dentro. Credo che potrebbe davvero fare la cantante.
Non so che cosa sia successo dopo, ma a un certo punto ci siamo ritrovate al pianterreno, e Natalie e Hannah sono andate nel giardino sul retro per saltare sul
vecchio trampolino, mentre io ero in quello davanti. Mi sono sdraiata su un’amaca e ho guardato le stelle, che mi venivano incontro ronzando.
Ho ripensato a quando May rientrava in casa di nascosto, di notte, e io restavo sveglia finché non arrivava. Di solito tendevo le orecchie per sentirla camminare in punta di piedi nel corridoio e chiudere la porta, e a quel punto sapevo che potevo dormire, perché lei era a casa sana e salva. A volte, però – e io adoravo quei momenti – veniva in camera mia, e mi sussurrava: «Sei sveglia?» Io aprivo gli occhi e, sottovoce, le rispondevo: «Sì», e allora lei veniva a sdraiarsi sul mio letto.
Mi è tornato in mente il suo alito dolce e caldo, come l’alcol, immagino. E il modo in cui le sue labbra si incurvavano lentamente in un sorriso, prima che cominciasse a ridere piano, e a parlare biascicando un pochino, come se ogni suono finisse nel successivo. Mentre mi raccontava le sue avventure – i ragazzi, i baci, le auto veloci – io cercavo di immaginarle come facevo da bambina, quando ero convinta che May avesse ali di fata, e la vedevo volare nella notte, e scendere in picchiata sotto le stelle.
Fine dell'estratto Kindle.
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