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Academic year: 2021

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15 Capitolo Primo

L

O SCENARIO STORICO E TEORICO DEI LUOGHI COMUNI

. C

ONFRONTO CON LA PSICOLOGIA SOCIALE

«Il gran difetto degli Europei è di filosofare sempre sulle origini delle cose partendo da quanto avviene intorno a loro stessi».

J

EAN

-J

ACQUES

R

OUSSEAU

, Essai sur l’origine des langues

«Più si mettono alla berlina i propri difetti, più si scorgono tare ineliminabili, più ci si rassicura di essere fuori dalla mischia».

L

OREDANA

S

CIOLLA

, Italiani. Stereotipi di casa nostra

«Del fatto che a me — o a tutti — sembri così, non segue che sia così. Però si può benissimo chiedere se di questo sia possibile dubitare sensatamente».

L

UDWIG

W

ITTGENSTEIN

, Della certezza

1. Il dramma della commedia: gli stereotipi

In un film di Pietro Germi, “Divorzio all’Italiana”

1

, il Barone Ferdinando Cefalù, detto Fefé, si invaghisce di una giovane cugina, Angela. La ragazza ricambia questo amore e sarebbe anche pronta a sposarlo se solo Fefé non fosse già ammogliato con Rosalia, donna brutta e gelosa, che lo soffoca con le sue apprensioni. Non avendo motivazioni valide per sciogliere il loro matrimonio, il Barone progetta un piano coinvolgendo Carmelo, uno squattrinato pittore di cui Rosalia era stata innamorata in passato. Rosalia è una donna fedele e incorruttibile, ma il barone Cefalù, con diversi

1 Germi P. (regia di), Divorzio all’italiana, sceneggiatura di Giannetti, De Concini, Germi, con Mastroianni M., Sandrelli S., Rocca D., Trieste L., Italia, 1961. Cfr. anche Matrimonio all’Italiana, regia di Vittorio De Sica con Mastroianni M. e Sophia Loren, Italia/Francia, 1964.

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stratagemmi, riuscirà ad avvicinarla sempre più a Carmelo fino a farla definitivamente cedere alla tentazione.

A questo punto, colta in flagrante adulterio, Fefé può ucciderla, grazie all’articolo 587 del codice penale che consentiva il delitto d’onore, e dopo aver scontato una pena molto breve, sposerà finalmente Angela la quale però, dopo poco tempo, inizia a sua volta ad essergli infedele.

Quella di Pietro Germi avrebbe potuto essere una storia drammatica, chiaramente ispirata ad alcune delle vicende italiane di cronaca nera che raccontavano i delitti d’onore. Ma “Divorzio all’italiana” non è un dramma.

Nonostante vengano mostrate la condizione della donna dell’epoca, il tradimento, la perfidia della mente umana, l’omicidio come vendetta al disonore subito e l’immagine di un’Italia anacronistica soprattutto nel suo sud, il film, come si intuisce già dal titolo stesso, è una commedia. Una commedia che si avvale intenzionalmente di stereotipi, come facevano le rappresentazioni teatrali tra il XVI e il XVIII secolo, o come fanno tuttora fiction televisive e commedie americane. Meccanismi scenici elementari e una gamma piuttosto limitata di storie. Si inscenavano temi come l’amore ostacolato, l’inganno, il fraintendimento, il bene che non riesce a fermare il male. E poi il colpo di scena e il ristabilirsi dell’equilibrio con il coronamento dell’amore, l’approvazione della buona fede, la condanna dei cattivi, la rivincita dei giusti.

Sembrava che pure le caratteristiche fisiche e psicologiche dei personaggi

stessi restassero immutabili nonostante si modificassero le storie e gli

intrecci. La moglie bruttina e asfissiante, il servo scaltro che conosce le

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debolezze dei padroni, il secchione che non sa come gira il mondo, la vicina di casa pettegola, l’innamorato che per riavere la sua amata deve affrontare mille pericoli e compromessi, il potente cattivo e sadico. Nonostante gli intrecci e i colpi di scena, sembra che la naturale volubilità dei comportamenti, la complessità psicologica dei personaggi, la loro diversità estetica e l’imprevedibilità delle emozioni, vengano cancellate; sembra che ognuno abbia il proprio repertorio fisso e prevedibile di modi e azioni, e che i dialoghi, le battute passino in secondo piano.

Perché gli stereotipi della commedia italiana e delle antiche rappresentazioni teatrali ci fanno ridere? La domanda potrebbe essere banale e la risposta altrettanto semplice.

Con l’ironia e i toni grotteschi della commedia è possibile mettere a nudo e rendere altamente digeribili anche le brutali realtà che ci riguardano. Ma non è solo una questione di filtri sarcastici. Ciò che ci consente di accettare la narrazione delle più scomode verità con il sorriso, in fin dei conti è, paradossalmente, un dramma necessario alla commedia. Sembra che gli individui sentano il bisogno di rimandare le loro esperienze, e quindi le loro conoscenze, a dei “copioni”; sembra che abbiano bisogno di conferme. E l’ironia maschera questa necessità dandoci ad intendere che stiamo ridendo degli altri e non di noi. Per qualche istante, tuttavia, potrebbe davvero sorgerci il dubbio che gli applausi siano rivolti a noi stessi, al coraggio dimostrato nel sopportare la visione delle nostre debolezze, dei nostri difetti.

Quando la visione è terminata, quando cala il sipario e si accendono le luci,

questo bisogno spesso rimane. Alle prese con la complessità degli eventi del

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mondo, costruiamo il nostro pensiero e la nostra memoria sulla base di aspettative e non di esperienze. Conosciamo meglio e più facilmente ‘tipi’

piuttosto che persone; nel definire le cose o il mondo siamo più sensibili al potere uniformante delle etichette, piuttosto che agli aspetti idiosincratici e all’irripetibile unicità delle persone e degli eventi.

Per definire le conoscenze fisse ed impermeabili che organizzano le nostre visioni e rappresentazioni, un giornalista di nome Lipmann

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, nel 1922, coniò il termine stereotipo riprendendolo proprio dalla stampa.

Insieme alla semplificazione che comporta rappresentando insiemi e non individui, illudendosi di sottolineare specificità che invece getta in secondo piano, lo stereotipo ha il carattere dell’aspettativa, dello slancio verso il futuro mosso da speranze, calcoli logici o visioni distorte. Se, ad esempio, ci aspettiamo che un uomo preciso, ordinato e puntuale sia solo svizzero, ciò è dovuto ad un giusto calcolo ma un calcolo tra conoscenze rigide ed errate.

Quando gli stereotipi fanno parte di noi, la loro vita pare non terminare nemmeno di fronte alle mancate conferme dell’esperienza. Non è infatti una mancata conferma il motivo di un eventuale cambiamento di rotta, ma il valore che le si attribuisce. Nulla cambia se l’inciampare in una smentita viene considerata solamente un’eccezione. Occorre saper individuare quale dei due aspetti essenziali di un stereotipo possa prevalere nella nostra considerazione dei fatti e del mondo: l’utilità originaria di orientamento o la tendenza deformante alla generalizzazione? “È necessario chiedersi quale

2 Lipmann W., Public Opinion, New York, Harcourt Brace, 1922; tr. it. di Mannucci C., L’opinione pubblica, Universale Donzelli editore, 1999. Walter Lipmann (New York 1889-1974) giornalista e saggista, fu uno dei più noti pubblicisti repubblicani e direttore durante la prima guerra mondiale del New Republic e World. Nel 1917 ricoprì la carica di sottosegretario aggiunto Usa alla Guerra. Questo suo testo verrà ripreso approfonditamente in seguito.

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relazione ci sia tra sistemi di credenze, giudizi di attribuzione cui danno luogo e comportamenti che coerentemente vengono messi in atto; in che rapporto stanno le forme di credenza cui il pensiero stereotipico dà luogo, con i dati della realtà che presumono di rappresentare”

3

.

“Vivevo con l’idea che tutti i norvegesi fossero dei giganti perché rimasi impressionato dalla gigantesca statura di Ymir, l’eroe della saga Ymir. Per molti anni, l’idea di incontrare un norvegese mi incuteva paura”. Nel suo libro The nature of prejudice

4

, Allport riporta questo esempio per dimostrare come spesso da una minima serie di fatti, noi tendiamo a compiere generalizzazioni su vasta scala e formuliamo giudizi in base a probabilità insufficienti se non addirittura inesistenti. Per Allport, la generalizzazione è la caratteristica più comune della mente umana ed esiste, anzi, una base naturale per spiegare questa tendenza: “La brevità della vita e il fatto che le esigenze pratiche a cui dobbiamo far fronte sono tali da non permetterci il lusso di riconoscere sempre pubblicamente la nostra ignoranza. Siamo costretti cioè a decidere per classi quali siano gli oggetti buoni e quali i cattivi poiché non possiamo valutare singolarmente ogni oggetto che esiste al mondo. Spesso ci accontentiamo di queste classificazioni grezze e pronte all’uso”

5

.

Tutto questo non vale solo per i giudizi. Lo stereotipo è anche una modalità dell’essere, un’attitudine alle cose e al mondo, uno specifico modo di

3 Arcuri L., Cadinu M. Rosaria, Gli stereotipi: dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1998 pp. 16-18.

4 Allport, The nature of prejudice, Cambridge, 1954; tr. it. di Chiarenza M., La natura del pregiudizio, Firenze, Nuova Italia editrice, 1973, p. 12.

5 Ibidem. Allport ritornerà nel quarto capitolo.

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pensare, di vivere, non solo di comunicare. Gli stereotipi sono aspettative, vere e proprie inferenze. Cambiano a seconda di chi siamo, di come e dove viviamo. Ci sono relazioni, che non sono casuali, tra determinate caratteristiche fisiche di una persona e le inferenze che ne facciamo su quelle di tipo psicologico; così come è possibile pensare a una relazione tra il modo di essere e di vivere di una persona e il suo appartenere ad una specifica categoria sociale o ad un certo credo religioso. Sapere che una persona è un filosofo può evocare informazioni sul suo stile di vita, sulla sua idea di politica ecc. Quali sono i veri motivi per cui basterebbe la provenienza, la professione, l’età, l’appartenenza ad un gruppo sociale ecc., per attribuire comportamenti, preferenze, abitudini? Per quali ragioni coloro che sono nati nello stesso paese, che studiano le stesse discipline, vengono percepiti più simili tra loro di quanto non lo siano in realtà?

2. Lo stereotipo dell’Italia e dell’italiano

Si pensi all’immagine di donna malata che viene spesso evocata per

descrivere l’Italia: un paese complesso, afflitto dalle più disparate sindromi e

in continua degenerazione. Le cause che vengono diagnosticate sembrano

radicate nel tessuto culturale e nel carattere degli italiani, cause che

avrebbero reso il paese “particolarista”. Si sente parlare di “familismo”,

inteso come attaccamento al nucleo familiare o più in generale come fedeltà e

correttezza verso i legami di sangue, di amicizia, verso il proprio gruppo. Un

popolo con questo attaccamento abnorme ad appartenenze ristrette

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tenderebbe ad agire con un’ottica limitata ai suoi interessi e alle sue finalità, ossia in forza dell’appartenenza in quanto tale. Un popolo particolarista- familista dovrebbe essere un popolo incapace di sviluppare solidarietà più ampie della propria cerchia di riferimento, incapace quindi di sostenere un impegno civile e di agire in funzione del bene comune. La sua cultura arretrata, legata a vincoli primordiali e arcaici, non rappresenterebbe un sostegno ai valori e alle istituzioni democratiche, ma ne renderebbe precario e instabile il funzionamento

6

. Questa definizione è uno stereotipo, ed è strano come continui a sopravvivere e a preservare la sua dogmaticità anche quando lo riferiamo a noi stessi e in modo negativo: «Noi italiani siamo così:

attaccati alla mamma, siamo dei furboni, riusciamo a cavarcela in ogni situazione!». Approfittando di questi ultimi stereotipi, che ci toccano nel vivo, vorrei capire se il familismo è davvero il tratto distintivo della cultura italiana in modo tale da giungere ad un altro, centrale interrogativo: esiste, di fondo, un rapporto di verità tra stereotipo e realtà?

Cerco intanto di dare una risposta al familismo italiano attraverso l’analisi sociologica che Loredana Sciolla ha affrontato nel libro Italiani. Stereotipi di casa nostra

7

. Prima di tutto: la cultura non è qualcosa, ma un continuo ed inarrestabile sviluppo di qualcosa. Non è un fatto immutabile. L’indagine della Sciolla parte facendo riferimento alla ricerca di un sociologo americano, Edward Banfield (1958), su un paesino della Basilicata, Chiaromonte, e alla

6 Cfr. Isnenghi M., Dall’Alpi al Lilibeo. Il noi difficile degli italiani, in "Meridiana", 16, 1993. È facile ascoltare commenti al riguardo, anche se in modo più rozzo, nei dibattiti di molte trasmissioni televisive.

7 Sciolla L., Italiani. Stereotipi di casa nostra, Bologna, Il Mulino, 1997.

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sua conclusiva constatazione di profonda arretratezza

8

. Banfield poi estese la considerazione a tutto il profondo sud. L’aspetto interessante della sua ricerca sta nella spiegazione che egli ha offerto sulla causa da ricercare non nella povertà delle risorse naturali, quanto in tratti culturali profondamente radicati nel carattere collettivo. Banfield parlò di ‘ethos amorale’ che non significava assenza di morale ma si riferiva ai limiti della sua applicazione, cioè alla limitata cerchia familiare. Ma ciò che Loredana Sciolla critica duramente è il difetto di cui pecca l’analisi e che caratterizza ogni stereotipo:

l’ipergeneralizzazione.

Il particolarismo dell’Italia venne considerato come un segno di non civilizzazione, sottovalutando però tutte le altre situazioni in cui la famiglia contadina presentava una struttura più estesa. “Inoltre per operare in maniera così deterministica, come un fattore causale indipendente, il suo ethos avrebbe dovuto rappresentare un patrimonio originario, frutto di antichi processi di sedimentazione, interiorizzato e quindi poco flessibile e modificabile se non in tempi lunghi”

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.

Ma il rapporto che la cultura ha con noi è un rapporto interattivo e non unidirezionale. La società è composta di idee, credenze, sentimenti. Abbiamo a che fare con un processo nel quale interagiscono tra loro fattori sociali, istituzionali, storici, caratteriali, religiosi ecc. Perché dovremmo ritenere valida l’idea che si fonda sull’abbinamento tra piccola comunità e assenza di virtù civili? La Sciolla rimanda ad un modello deterministico che riconduce il

8 Cfr. Banfield E. C., The moral basis of a backward society, Glencoe, Free press, 1958; tr. it. di Guglielmi G., Colombis A., De Masi D., a cura di De Masi D., Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976.

9 Sciolla L., op. cit., pp. 19, 20.

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maggior spirito civico delle regioni centro-settentrionali alla stagione dei comuni e il particolarismo/familismo del meridione alla monarchia feudale e del Papato. Ma questo rigido modello “non solo enfatizza il ruolo causale della cultura, ma non tiene conto del fatto che la fiducia nelle istituzioni, e anche quella interpersonale, nucleo portante dello spirito civico, non è sempre un’”abitudine del cuore” o una disposizione d’animo interiorizzata, che non implica cioè alcuna riflessione, ma è un sistema di aspettative, fondato su valutazioni realistiche del grado di affidabilità, e quindi di rischio di fallimento, dell’interazione […]; se il funzionamento dell’autorità politica fa acqua, se la certezza del diritto è un punto di vista, vi saranno sempre buoni motivi per mantenere una sfiducia ben fondata”

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.

Ho cercato di analizzare questa immagine comune di un’Italia familista come un esempio fondamentale che mette a fuoco, oltre l’ipergeneralizzazione, un’altra caratteristica dello stereotipo: la semplificazione. Una realtà complessa e ricca di sfumature viene livellata e pressata in scatolette rigide ed uniformi che ci ricordano gli scaffali dei legumi in un supermercato. E’

facile sentire degli italiani parlare di se stessi come un popolo pigro, opportunista, accomodante anche se, per esempio, individualmente ci si autostima. Perché questa differenza? Forse perchè quella connotazione negativa è una connotazione stereotipata?

Può succedere, per di più, che insiemi generali, dicotomie e sintesi, usati come strumenti per comprendere nel complesso un fatto, perdano il loro senso descrittivo e assumano un carattere valutativo. Si perde così di vista

10 Ivi, p. 28.

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l’esito di indagini che affermano “non solo che i legami di tipo particolaristico — forti o deboli che siano — sono saldamente presenti e diffusi nel tessuto sociale anche delle società economicamente più avanzate, ma che, lungi dall’aver perso il proprio ruolo, l’hanno riadattato ad esigenze nuove legate all’incertezza e alla complessità dei sistemi economici e politici moderni. È risultato anche che, nel cuore del mondo sviluppato, i rapporti familiari e di parentela costituiscono gli strumenti più efficaci per conseguire potere e prestigio sociale”

11

. Fino a dieci anni fa, la famiglia risultava al vertice della gerarchia dei valori in tutti i paesi europei e l’Italia compariva addirittura dietro l’Islanda, paese che ha da sempre avuto a che fare con un elevato e problematico numero di ragazze madri

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. Possiamo dire che il familismo non è indice di arretratezza culturale e che l’attaccamento alla famiglia ha, anzi, un ruolo positivo: il familismo non solo non ostacola, ma favorisce l’inclinazione dei soggetti ad identificarsi in cerchie sociali più ampie e a riconoscersi in un tipo di etica civile dal carattere liberale e tollerante.

Ho voluto considerare questo caso così specifico perché è esemplificativo nell’indagine di uno dei problemi centrali di questo percorso e cioè il rapporto di uno stereotipo con la verità. Alla luce di questi dati e delle domande che si sono poste, verrebbe voglia, in un primo momento, di verificare a tutti i costi se per caso anche noi stessi ci ritroviamo tra coloro che portano le rigide e corruttrici lenti stereotipanti, e di fare qualunque cosa

11 Ivi, p. 44.

12 Notizie raccolte nel corso di Sociologia Family in Icelandic Society, frequentato durante il progetto Erasmus, anno accademico 2003/2004, presso l’Università di Reykjavík, Islanda.

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per abbandonarle. Ma, pur accorgendocene, sarebbe sbagliato sbarazzarsi immediatamente di esse come faremmo d’istinto. Invero, è necessario, prima di tutto, guardarle bene poiché solo faccia a faccia e criticamente, capiremo che non è così semplice fare a meno di esse e gettarle via.

3. Lipmann e l’ambivalenza degli stereotipi

Per cominciare, parto da lontano. Consideriamoci, almeno per quanto riguarda l’occidente, gente che popola un villaggio in cui l’evidente globalizzazione di sistemi di valori, di credenze, di stili di vita, non ha implicato, e non implica, omogeneizzazione ed erosione delle differenze culturali. C’è interdipendenza tra le culture locali, ci sono zone di sovrapposizione e si formano strutture di significato che non sono legate a territori o culture particolari, ma a reti sociali più estese nello spazio. Si può parlare di cultura globale? Sì, se riconosciamo che i processi di confluenza di valori non eliminano tuttavia i tratti culturali che sono divergenti

13

.

Paradossalmente, e al di là del fatto che essi siano portatori di verità, gli stereotipi possono essere ritenuti veri e propri testimoni di questa “cultura globale”: da un lato vogliono ergersene a rappresentanti e, dall’altro, hanno la smania di mantenere distinti e inconciliabili alcuni aspetti delle varie culture nazionali. Queste due tendenze, l’una verso l’uniformità, l’altra verso

13 Cfr. Hannerz U., Cosmopolitans and Locals in World Culture, in Global Culture, London, Sage, 1993; tr. it., Featherstone M., Cosmopoliti e locali nella cultura mondiale, in Cultura Globale.

Nazionalismo, globalizzazione e modernità, Roma, Seam, 1996.

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la rivendicazione della diversità, sono chiarissime. Anzi, può darsi addirittura che queste due tendenze si diano unitamente.

Per essere più chiara, faccio un passo indietro. Nel contesto di questa indagine, l’espressione “va di moda” o “è fuori moda”, non è un affermazione corretta. Supponiamo di non riuscire a stimare una moda specifica, come si vuol far credere, cioè la moda di questo o di quell’anno, e sostituiamo invece l’espressione con l’idea che degli stereotipi, questo o quell’anno, siano diventati più comuni di altri. A questo punto, la borsa per ragazze chiamata e firmata Pinko Bag, è un esempio perfetto di questa doppia direzione. Borsa di tela, tinta unita, con la scritta Pinko Bag in paillettes di vari colori e in stampatello maiuscolo, su un solo lato. Miriadi di ragazze, miriadi di Pinko Bag. La tendenza all’omogeneizzazione è fortemente constatabile. Rimane invece nascosta, e sembrerebbe non esistere proprio, l’altra tendenza, quella che rivendica la diversità. Il fatto curioso però è che le proprietarie di una Pinko Bag non vedono e non percepiscono quell’omologazione. Anzi la Pinko Bag è, paradossalmente, un simbolo che accompagna e definisce una specifica personalità, il distintivo d’appartenenza a uno specifico gruppo, il modo per dirsi e per dire Io sono così! e per credere di esserlo. E sull’onda di questa doppia tendenza, gli

stereotipi restano al passo coi tempi, con la globalizzazione e racchiudono davvero tanti interrogativi.

Perché si crea un’immagine o un’idea che racchiuda tutta l’Italia e tutti gli italiani? Perché ci si batte per la tradizione italiana, per la famiglia italiana?

Forse perché al di sotto delle varietà linguistiche, gastronomiche, rituali,

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istituzionali, qualcuno è riuscito ad intravedere una qualche unitarietà nel modo di sentire e di essere. Magari in riferimento alla religiosità, al rapporto con la religione istituzionale che fa scarseggiare la presenza del pluralismo, oppure all’unificazione politica o alla scuola che ha assunto il ruolo di mediatore tra generazioni e classi sociali diverse e che ha cercato di avvicinare gli italiani ai giovani degli altri paesi. Oppure, più in generale, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Eppure, anche in Italia si è avvertito, e si avverte, un forte processo di secolarizzazione, che autonomizza la morale e il comportamento dalle prescrizioni religiose, che rende probabili ma non assolute le credenze, che cerca di individualizzare i valori. Allora mi chiedo: c’è una memoria collettiva per gli italiani che possa giustificare la vita degli stereotipi? C’è un’identità italiana o solamente un’unità territoriale?

Le Goff si chiedeva se la difficoltà da parte degli italiani di fare i conti con il proprio passato non fosse dovuta al “presentimento di scoprire, alla fine della ricerca, che l’italiano contemporaneo percepisce il proprio passato più in rapporto a una regione o a una città che in rapporto all’Italia”

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. Chi vede una grande storia, vede un’Italia. Chi vede tante piccole storie, trova molte identità. Dipende dalla nostra volontà? Non risponderò, per ora, a questa domanda, ma la propongo per cercare di capire se gli stereotipi cambiano o no a seconda dei tempi, dei luoghi e dell’inferenza dell’osservatore.

14 Le Goff J., Il peso del passato nella coscienza collettiva degli Itialini, in F. L. Cavazza e S. R.

Graudbard, Il caso italiano, Italia anni ’70, Colloque international de Turin, 1973, Milano, Garzanti, 1974; p. 545.

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Sembra che gli stereotipi rinforzino l’identità collettiva quando vengono riferiti a noi e al nostro gruppo e siano negativi, invece, quando si riferiscono a tutto quello che ne è altro ed esterno. Eppure si ha l’impressione, per esempio, che negli stereotipi, gli italiani provino del disprezzo nei propri confronti. L’auto-denigrazione e l’accettazione dei difetti sembrano assimilati ad inconfutabili doveri, come se fossimo incatenati a misteriose e antropologiche pecche ereditarie. «Ma noi italiani siamo fatti a modo nostro… Riusciamo a trovare delle scorciatoie… Prendiamo la vita un po’

così… Per non parlare dei politici che sono tutti dei ladri». Non sarà che, in realtà, ripetere costantemente quel tipo di comportamenti e caratteristiche, serve a rassicurarci di essere diversi dalla massa, da ciò che giudichiamo?

Oppure, non sarà che ci siamo ritrovati senza ambizioni, senza speranze, e ci basta una squadra di calcio che diventa campione del mondo per farci urlare

“Viva l’Italia!”? Stiamo dimenticando qualcosa?

Per muovere ancora un altro passo verso la delineazione di ciò che intendo per luogo comune, e capire la sua nascita e il perchè della sua forza e popolarità, è necessario recuperare per un attimo il concetto di “stereotipo”

di Lipmann

15

.

Lipmann chiamava stereotipi le immagini della realtà che si originano nella nostra mente e che sono fattori determinanti del modo in cui percepiamo le persone e gli eventi. Quando queste immagini si riferiscono ad un gruppo di persone, esse ci convincono che i membri del gruppo in questione siano difficilmente distinguibili l’uno dall’altro, come le copie di un libro o di un

15 Lipmann W., L’opinione pubblica, op. cit. pp. 103-124.

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giornale appaiono uguali perché derivano tutte dallo stesso stampo tipografico che le ha prodotte. Ma il termine stereotipo non fu solo una geniale denominazione: Lipmann attribuiva a queste pre-concezioni la funzione di garantire agli individui una visione del mondo coerente e in grado, ad esempio, di farli sentire dalla parte del giusto. Proiettando e dislocando all’esterno gli attributi negativi del Sé o anche di coloro che reputiamo appartenenti al nostro stesso gruppo, siamo in grado di difenderci. Se l’altro, quindi non il nostro simile, viene percepito in modo negativo, noi e il gruppo a cui apparteniamo diventiamo invece i migliori.

Quindi cresce anche per noi stessi l’autostima.

In quanto prodotti della cultura e di specifici bagagli di idee, gli stereotipi sono dei veicoli di omogeneità per valori e credenze. Lipmann offre, quindi, un punto di vista che invita a prendere in considerazione tutti gli agenti che influenzano la formazione e la trasmissione di queste pre-concezioni, tra generazioni e tra diverse fasce sociali. Pensiamo all’influenza della famiglia, dei coetanei o degli amici, ai mezzi di comunicazione, a ogni occasione di propagazione delle tradizioni di un territorio, ecc. Così, si apprendono l’insieme delle credenze, dei criteri, degli sguardi che possono guidarci, o deviarci, nell’organizzazione della conoscenza del mondo e dell’altro.

Gli stereotipi sono sistemi di credenze che vengono puntualmente rinforzati,

anche senza alcun dato empirico. Quindi credenza, caratteristica,

somiglianza, differenza. Lipmann sembra non chiedersi davvero se essi siano

il prodotto di errori, di distorsioni oppure se siano rappresentazioni che

affermano delle verità. Egli non pone un aut-aut. L’essere degli stereotipi è

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doppio: come strumenti di giudizio, essi si contraddistinguono per inaccuratezza; tuttavia, per l’organizzazione di esemplari entro determinati e generali insiemi o gruppi, hanno la loro autorevolezza.

Anche per Lipmann, si presenta il problema della consapevolezza: queste operazioni che si attuano con l’uso delle conoscenze stereotipiche e che egli definisce operazioni di categorizzazione e attribuzione, sono un’assunzione e un’applicazione diretta, esplicita, sempre cosciente? No.

Sia nell’organizzazione, sia nel loro uso, gli uomini possono attivare delle conoscenze di cui non sono consapevoli ma che scattano in maniera automatica, senza alcuna strategia. La definizione di stereotipi come esagerazioni della realtà sociale, fa ipotizzare che, quando si giudica qualcosa di altro da noi, si sovrastimino gli attributi stereotipici e si sottostimi la presenza di attributi contro-stereotipici. C’è, generalmente, un’attribuzione di negatività al “diverso da noi”. C’è dell’inaccuratezza nel modo in cui

“l’altro da noi” viene percepito. Ma vorremmo, al contrario, che noi fossimo percepiti e descritti nella maniera più accurata possibile, per quello che siamo. La domanda è: chi si definirebbe freddo, disonesto, traditore? Chi ammetterebbe di essere privo di personalità, di intelligenza?

Gli stereotipi producono semplicità quando si ha a che fare con una

complessità, una pluralità di aspetti. Vogliono distinguere ma si impegnano

anche a creare delle differenze dove non ne esistono e la semplificazione può

costituire una violenza sui fatti. Emerge l’aspetto della non neutralità degli

stereotipi che veicolano valori, criteri, preferenze, giudizi tendenziosi.

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Ma a questo punto ci si deve chiedere: dopo la spiegazione di Lipmann e di alcuni apporti dalla psicologia sociale, perché per questi sistemi di categorizzazione e dei loro meccanismi, che sono effettivamente il soggetto di questo lavoro e a cui il nome stereotipo, dato fino ad ora, sembra adatto, si dovrebbe preferire la denominazione di luoghi comuni?

4. Un primo passo verso la filosofia: il termine luogo comune

Una delle ragioni che hanno dato il via a questa analisi era legata all’obiettivo di proporre un altro punto di vista rispetto a quello della psicologia sociale e il termine stereotipo non era completamente adatto all’obiettivo. La scelta di un altro termine, però, la scelta di luogo comune, già utilizzato in generale come sinonimo, non si limita a una semplice sostituzione. C’è un motivo preciso che spiega la mia preferenza per il luogo comune. Intanto rimane valido ciò è stato detto fino ad ora.

Si guardi questo piccolo schema:

OMOGENEIZZAZIONE

Oggi vanno tutti di fretta.

La legge non è uguale per tutti.

Tutto il mondo è paese.

Il maschio moderno è in crisi ma non vuole ammetterlo.

DISTINZIONE

I milanesi sono freddi.

Gli svizzeri sono puntuali.

Come si mangia in Italia…

Gli immigrati rubano il lavoro ai nostri figli.

In questi luoghi comuni sono in azione gli stessi meccanismi che Lipmann

chiama stereotipi. Ma sarebbe meglio dire che, grazie agli stereotipi, i luoghi

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comuni si differenziano da qualsiasi altra osservazione. Lo stereotipo è un termine che copre solo una parte, anche se sostanziale, della costituzione del concetto di luogo comune che vorrei proporre.

Il luogo comune non è solo un giudizio, un’omogeneità di immagine, di ritmo, di visione. La spiegazione della psicologia sociale comprende ma non esalta quell’aspetto che costituisce invece un punto fondamentale di scarto del mio lavoro e per il quale proprio l’espressione luogo comune è assolutamente perfetta.

Si tratta dell’aspetto che non riguarda la sola formulazione di giudizi o la

costruzione di suddivisioni e differenziazioni, ma riguarda precipuamente

l’assunzione di un sistema di credenze come guida al proprio modo di vivere

e di essere. Gli stereotipi sono aspettative, delle vere e proprie inferenze che

cambiano a seconda di chi siamo, di come e dove viviamo. Ma il luogo

comune è il termine più adatto per riferirsi anche agli esseri stessi in cui sono

riposte tali aspettative, tali attitudini; coloro che inferiscono e coloro che,

anche inconsapevolmente, rispecchiano proprio quegli atteggiamenti tanto

scontati o rivisti. Quegli esseri stessi divengono dei luoghi comuni. Cioè, per

capirci, non solo l’espressione “i giovani d’oggi bevono e non hanno più

rispetto per gli anziani” ma, ad esempio, l’essere giovane, bere moltissimo,

trascurare il rapporto con i propri nonni e non riconoscere il valore che una

persona anziana potrebbe avere. Non solo il “si va avanti soltanto con le

conoscenze giuste!” ma anche essere la fidanzata di uno dei membri della

giuria di un concorso d’arte e vincere il primo premio (al di là del fatto che la

fidanzata in questione possegga realmente lodevoli qualità artistiche). Il

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luogo comune quindi come “essere” un luogo comune. Rivestirsi di esso e non solo investirne gli altri, come una freccia che torna indietro sul proprio modo di vivere.

Generalmente si usa ‘luogo comune’ pensando solo a un modo di dire, ma in queste pagine esso si carica di una dimensione esistenziale. Il luogo comune è sì un modo per parlare dell’altro da noi, ma anche il posto, il luogo dentro il quale possiamo stare. Quindi non solo laggiù, davanti a noi, per altro, ma su di noi. Ed è questo aspetto che, secondo me, il termine stereotipo fa sfuggire.

È, ovviamente, molto più difficile constatare di essere un luogo comune che osservare e giudicare l’altro, ma è questa la dimensione su cui vorrei puntare.

È il riflesso su di noi che m’interessa. Parlare per luoghi comuni può già renderci luogo comune? Il fatto di descrivere una realtà complessa e differenziata come se fosse omogenea e semplice significa, di riflesso, vivere senza cercare sfumature, senza cercare differenziazioni, senza la pretesa di sentirsi unici, senza interrogarci su cosa c’è al di là dell’orizzonte che tutti vedono, cosa c’è dietro ciò che ci siamo ritrovati davanti?

Il luogo comune è, nella misura estrema, la non-domanda, la non-ricerca, un

modo assunto e seguito senza alternative, senza cercare altre possibilità. Si

intrecciano attributi sulla base di semplici associazioni, di connessioni casuali

e causali al di fuori della consapevolezza dell’individuo. Un insieme di

credenze generalizzate e astratte, uno schema nel quale inserire tante

informazioni senza che ne venga richiesta motivazione o nel quale inserire

noi stessi senza un perché. Con il luogo comune l’individuo ha la possibilità

di manipolare un ampio numero di cose (aggettivi, tratti, comportamenti,

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34

ecc.) come se fossero tra loro equivalenti e intercambiabili

16

. Così nel XIX secolo e così oggi:

A

RTISTI

: Tutti buontemponi. Lodare il loro disinteresse. Stupirsi del fatto che girano vestiti come tutti gli altri. Guadagnano montagne di soldi ma li buttano dalla finestra. Spesso invitati a cena dal bel mondo. Donna artista non può essere che puttana. Il loro non si può chiamare lavoro

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.

«Gli ingegneri sono razionali», «I marocchini spacciano droga perché non hanno voglia di lavorare», «La famiglia è la famiglia!»

È fondamentale chiedersi se questo processo dia luogo o no ad una distorsione, a una sovrageneralizzazione e se ha un senso. È fondamentale chiedersi se nel nostro modo di vivere sono in atto quelle stesse sovrageneralizzazioni. Sappiamo davvero cos’è la famiglia, per dire che la nostra è ‘tradizionale’?

Nell’affrontare il mondo e tutte le sue esperienze d’interazione sociale, l’individuo che vive di luoghi comuni si colloca lungo un continuum ai cui estremi stanno, da un lato, le impressioni basate su definizioni ereditate o assorbite, dall’altro, quelle basate sulla rivelazione delle specifiche caratteristiche dell’individuo, che ci sono, comunque. Quando egli si muoverà da un estremo all’altro, metterà in azione processi guidati da schemi rigidi piuttosto che dai dati in ingresso; mobiliterà impressioni basate

16 A questo proposito, Anolli L., La comunicazione nei e fra i gruppi, in Psicologia della comunicazione, a cura di Anolli L., Bologna, il Mulino, 2002; pp. 305-331, in particolare il par.

Sociocentrismo e stereotipi.

17 Flaubert G., op. cit., p. 22.

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su caratteristiche generali piuttosto che su impressioni orientate alla descrizione dell’individuo.

Se l’essere umano è un elaboratore di informazioni sottostante a tali dinamiche, non è da escludere che egli incorpori anche l’idea che il processo sotteso ai luoghi comuni è un rimedio per ovviare all’estrema complessità delle nostre esperienze. Esso possiede, accanto agli indubbi vantaggi, nei termini di economizzazione delle risorse cognitive, anche degli effetti collaterali: quelli di rendere più grossolana e anche più povera l’impressione che ci formiamo degli altri, di rendere grossolana e povera la nostra vita.

Ma non è finita. C’è un aspetto ancora più afferrabile nel termine luogo comune e sta proprio nell’aggettivo. Esso sottolinea non solo la comunione che crea tra più esseri umani, ma anche la loro diffusione tra noi.

Dopo questo bisogno di specificazione, con la rivendicazione dell’essere noi stessi luoghi comuni, aggiungerò ancora qualche risposta della psicologia sociale al fine di chiudere il loro inquadramento storico e teorico, e avere una base solida e indispensabile per ripartire.

5. Le aspettative e il rapporto con l’eccezione

Perché l’individuo si sposta verso l’approssimazione, l’ipergeneralizzazione?

Perché si incammina sulla strada che vede più trafficata? Perché,

nell’associare una persona e una caratteristica, un popolo e un

comportamento, un individuo a un tratto positivo o negativo, si può

rischiare di trascurare le proprie esperienze? Oppure, perché nel nostro

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modo di vivere e guardare non mettiamo sempre in gioco la creatività, la spontaneità? Cogliere le relazioni tra le caratteristiche, tra le variabili che costituiscono un fatto è una capacità che dobbiamo avere per conoscere bene, per prevedere, per muoverci in un contesto, per orientarci nel mondo quotidianamente. Può accadere tuttavia che queste connessioni non vengano sorrette empiricamente e si vedano legami che non ci sono, cioè si crea una correlazione illusoria

18

, per la quale io attribuisco una connotazione negativa all’altro pur non essendoci stata nessuna vera esperienza a giustificarmi. La connessione tra negatività e l’altro da me funziona spesso. Come ogni azione, questa correlazione illusoria ha poi delle implicazioni nella formazione dei giudizi e sulla memoria. Dietro a tutto questo sembra pulsare il primitivo bisogno di difendere il proprio io e i propri simili, con il rischio di ricordare meglio i comportamenti indesiderabili dell’altro solo in quanto altro da me

19

. Il luogo comune, ormai lo si deve chiamare così, è una forma di correlazione illusoria. Non solo. Può essere ritenuta una forma di autodifesa. Ma questa premura di protezione verso sé stessi e coloro che stimiamo ha sempre un senso? Qui tutto dipende da come pensiamo l’altro da noi. L’altro è il diverso? Il diverso costituisce sempre una minaccia?

La formazione di un luogo comune può essere legata anche alla preferenza che viene attribuita a fattori disposizionali, piuttosto che situazionali, dei

18

Cfr. Arcuri, Cadinu, Gli stereotipi: dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, op. cit., pp. 75-80.

19 A questo proposito, Moscovici S., Cos’è una società pensante?, par. 3, Scienze sacre e Scienze Profane: universi consensuali e universi deificati, in Social representations, a cura di Farr R. M. e Moscovici S., Cambridge, Cambridge University Press, 1984; tr. it. di Zammuner V. L., Rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1989; pp. 41-44. Si tratta di uno dei testi fondamentali sulle rappresentazioni sociali; cfr. anche Arcuri L., Cadinu M., op. cit., pp. 129- 137.

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comportamenti altrui. Un esempio. La maggior parte degli italiani è avvantaggiata economicamente e socialmente rispetto agli individui immigrati. Interpretando la posizione di subalternità, di debolezza di questi ultimi nell’ottica sbagliata, gli italiani possono legare lo scarso successo economico e sociale degli immigrati alle loro caratteristiche di personalità.

Così come, in modo speculare, saranno ricondotti a fattori di tipo interno, caratteriale, il successo negli affari e il livello di vita degli italiani.

C’è un errore di attribuzione per cui delle condotte e delle caratteristiche, conseguenze di ruoli sociali, e sulle quali pesano incisivamente le situazioni, vengono viste come il risultato delle loro caratteristiche di personalità.

Questo altro fattore di costruzione di un luogo comune non sembra essere intrinseco nel modo di vedere e vivere di ogni uomo. L’errore di attribuzione sembra meno marcato in società che sono più orientate al collettivismo e all’interdipendenza. Perché badiamo molto di più a comportamenti, a modi di vivere, alle credenze di coloro che abitano lontano da noi, fuori dai confini che ci siamo disegnati, fuori dalle strade che calpestiamo, fuori dal luogo in cui noi abbiamo deciso di vivere? Perché i loro comportamenti negativi sono riconducibili alla appartenenza “territoriale” e, invece, se si verificano entro i confini della nostra “terra”, vengono ricondotti al carattere della persona stessa, all’educazione ricevuta, ecc.?

Forse abitiamo in luoghi troppo comuni, con orizzonti così netti e regolari da

non farci credere che oltre ci possa essere una terra con un’altra morfologia o

con molteplici conformazioni. La percezione distorta, l’asimmetria nell’uso

delle conoscenze a seconda che queste servano a confermare il luogo comune

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o a metterlo in discussione, la non-indagine, sono rischi che minacciano il nostro punto di vista in ogni momento e su ogni cosa. È lecito notare che la maggior parte delle informazioni che ci investono, la maggior parte delle realtà che osserviamo è confusa, per niente intelligibile, richiede interpretazione. Il luogo comune ci aiuta ad interpretare, ma ci aiuta, e questo è il punto, sulla base delle aspettative che esso genera. Può accadere che uno stesso fatto, una stessa condotta risulti come luogo comune oppure no, a seconda del tipo di sguardo posseduto dall’osservatore, uno sguardo che filtra le notizie in entrata. Se le aspettative non sono corrette, l’interpretazione che ne deriva non dovrebbe essere presa come la sola possibile. Un’aspettativa è fatta anche per essere inappagata dal momento che riguarda qualcosa che non conosciamo e che trova compimento nel futuro.

La mancanza di evidenza, di esperienze a conferma delle proprie ipotesi, come viene considerata da colui che vive o giudica per luoghi comuni?

Generalmente non è così immediato abbandonare una credenza, mettere sottosopra il bagaglio di notizie e di riferimenti che ci siamo costruiti o che abbiamo assunto da tempo. In effetti, ci ricordiamo di più le esperienze coerenti con le nostre aspettative che quelle incongruenti. Ma può verificarsi che l’accumularsi delle mancate conferme porti alla formazione, e non senza sforzo, di un insieme alternativo che possa racchiuderle. Pertanto, mente e sguardo saranno sensibili all’incongruenza, al momento dell’impatto con essa, tuttavia la metteranno da parte senza rimpiazzare il luogo comune.

Come dicevo poco sopra, dipende a cosa diamo peso. Alla classe sociale cui

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appartiene un individuo, alle circostanze ambientali, alla personalità con le sue inclinazioni, al caso.

Se una situazione o delle notizie sono in collisione con le aspettative che formano il luogo comune, riusciremo a non smentire quest’ultimo poiché diamo peso ad elementi instabili per spiegarle. Se, invece, esse rispecchiano le nostre aspettative, allora subentrano le spiegazioni disposizionali e non esterne, cioè il carattere, le inclinazioni, eccetera

20

. Ma occorre ben altro. Non basta semplicemente accorgersi che qualcosa non torna e riferire tutto ai luoghi comuni. È indispensabile sapere perché. È indispensabile sapere che non si tratta solamente di un insieme di eccezioni.

C’è cambiamento nella storia di ognuno, nelle storie dei paesi e del mondo.

C’è cambiamento a seconda di chi, dove e quando osserva, confronta e giudica. E sono proprio i luoghi comuni, in riferimento al cambiamento, a costituire un’eccezione. Essi, una volta acquisiti, non si fanno intaccare dalle mancate conferme. Al massimo si fanno moltiplicare dal cambiamento, ma non si fanno uccidere.

Sto ritornando al cuore del mio lavoro, ossia mi trovo di fronte alle domande iniziali che mi ero posta. Quali sono i motivi dell’“eternità” di un luogo comune e quali sono, quindi, le ragioni della sua potenza? Che cos’è necessario fare per mettere in discussione questa forza che, al di là di ogni cosa, porta con sé il rischio d’essere distruttiva?

20 Per quanto riguarda l’indagine sociologica sulla formazione di categorie alternative:

Jaspars J. M. F. e Frazer C., Attitudes and social representations, in Farr R. e Moscovici S., op.

cit., pp. 129-152.

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40 6. I gruppi, il sé, l’immutabilità, le revisioni

Dedicare un po’ di spazio in questa sede alla sociologia e alla psicologia, desidero ripeterlo, mi è sembrato importante. Discutere di qualcosa significa conoscere lo scenario in cui questo qualcosa è da sempre apparso. Non solo, ma rapportarsi a quei tipi di studi, di sguardi, che fino ad ora hanno indagato su stereotipi e clichè, significa capire in cosa specificamente vorrebbe distinguersi il mio sguardo (oltre alla oramai chiara scelta di un altro termine) e la mia risposta.

La psicologia sociale risponde in vario modo all’interrogativo sull’eternità e

la resistenza al mutamento dei luoghi comuni. Esaminando il

comportamento degli individui come membri di un gruppo, ha rilevato in

essi una tendenza ad evitare il contatto con i membri di altri gruppi sociali,

impedendo quindi la creazione di rapporti intimi e personali tali da offrire,

eventualmente, delle alternative o semplicemente un confronto tra le

aspettative. Nel caso in cui si verifichi un contatto e la persona che

incontriamo ci appare diversa rispetto a quello che credevamo, ciò non

conduce a un cambiamento del luogo comune, perché quest’eventualità

viene meno ricordata rispetto ad un esempio che costituisce una conferma

della categoria. Se, invece, viene ricordata accuratamente, quella persona è

un esemplare che non viene incorporato nel luogo a cui logicamente

appartiene, ma viene isolato, trattato come eccezione. Gli individui anomali

non sono in grado di produrre una riconsiderazione della definizione

stereotipica comune nel suo complesso. Quindi il comportamento di una

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persona “tipica”, viene stimato come predittore del comportamento dell’intero gruppo. Questo non è vero se la stessa condotta viene messa in atto da una persona “atipica”.

C’è un’ipotesi

21

che vedrebbe i diversi modi di relazione fra gli individui collocati tra due poli, dove a un estremo c’è l’incontro tra i membri di due diversi gruppi che avvengono a livello interpersonale. In questo caso le persone agiscono in quanto individui, con le loro peculiarità e discrasie, essendo debole il legame che unisce l’individuo al gruppo di appartenenza. E questo avviene quando gli individui smentiscono le opinioni sul gruppo.

Al polo opposto ci sono le relazioni che non avvengono tra individui particolari ma tra membri di gruppi, ossia quelle relazioni la cui qualità è determinata dall’appartenenza a questo o a quel gruppo. Secondo questo modello, gli individui, nel loro giudicare e nel loro comportarsi, si spostano avvicinandosi talvolta all’uno, talvolta all’altro polo.

Ma può anche essere vero che l’eternità e la quasi immutabilità delle considerazioni e dei comportamenti da luoghi comuni, sia da attribuirsi agli insufficienti e superficiali scambi tra i singoli che si verificano e che necessitano d’essere incrementati. Non si esclude la possibilità che fioriscano, mentalmente, dei luoghi che accolgano in sé le eccezioni rispetto alla regola.

Ma questi sottotipi o non sono tanto utili, oppure vengono isolati lasciando inalterata la percezione globale e magari negativa del gruppo. Eppure il gruppo generale verrebbe percepito in maniera più variabile poiché gli

21 L’ipotesi è stata formulata nel 1986 da Hewstone M. e da Brown R., due fra gli autorevoli studiosi nei diversi settori della psicologia sociale che hanno dato il loro contributo al manuale Introduzione alla Psicologia Sociale, Hewstone M., Stoebe W. (a cura di), collana Strumenti, 2002, e anche in Arcuri L., Cadinu M. R., op. cit., pp. 103-104.

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individui si farebbero più consapevoli delle diversità esistenti tra le persone.

Anche se con terminologie specifiche, le indagini sociologiche fanno riferimento a qualcosa che si è già intravisto: cioè che le rappresentazioni che possiamo avere di qualunque cosa, non sono il risultato della mera e vera associazione di certe caratteristiche a un determinato gruppo, ma sono fortemente influenzate dalla prospettiva di giudizio degli osservatori o della maggioranza.

Sembra davvero che la realtà per l’individuo sia in gran misura determinata da ciò che è socialmente accettato come realtà

22

. L’influenza del proprio gruppo è qualcosa di davvero ineluttabile per una persona, per quanto riguarda la visione di un altro gruppo o del proprio, nei termini di mutevolezza e complessità. Vediamo il nostro gruppo in modo variopinto ma riserviamo la tendenza a semplificare, e quindi a stereotipare, principalmente ai gruppi esterni e quindi ai “diversi da noi”.

La prospettiva di giudizio delle persone, l’essere fuori o dentro al gruppo, si respira anche nel modo in cui si trattano i potenziali nuovi arrivati. Per accettare qualcuno nel nostro gruppo siamo molto prudenti, scateniamo domande, facciamo sentire più resistenza. Cosa che non accade quando vogliamo includere qualcuno al di fuori e nei luoghi dei “diversi da noi”.

22 Non solo «ciò che pare vero a tutti, lo è», scrive Aristotele, ma anche «chi distrugge questa fiducia non dirà affatto cose più degne di fede», Etica Nicomachea, X, 2, 1173°a. In Wittgenstein L., On Certainty, Oxford, Basil Blackwell, 1969; tr. it. di Trinchero M., Della certezza, l’analisi filosofica del senso comune, Torino, Einaudi, 1978, pp. 30, 36, si legge: «Io credo a quello che gli uomini mi trasmettono in una certa meniera. Così credo a dati di fatto geografici, chimici, storici. Così imparo le scienze. Naturalmente l’imparare riposa sul credere», non solo «forse se qualcuno supponesse che tutti i nostri calcoli sono incerti e non possiamo fidarci […] noi diremmo che è pazzo» e aggiunge «ma possiamo dire che è un errore?».

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Com’è possibile che le cose cambino nelle relazioni? E come riescono ad andare diversamente?

“Più siamo uniti al gruppo, più ne viviamo la vita, più siamo aperti alla loro influenza. Inversamente, siamo più refrattari ad essi e desiderosi di sfuggirne l’influenza quando abbiamo una personalità ben distinta da quella. Dato che non vi è nessuno che conduca questa doppia esistenza simultaneamente, ognuno di noi è animato contemporaneamente da un duplice movimento.

Siamo spinti da un senso sociale e nel contempo siamo propensi a seguire la china della nostra natura […]. Due forze antagonistiche si trovano di fronte:

una, proveniente dalla collettività, che cerca di impadronirsi dell’individuo;

l’altra, proveniente dall’individuale, che respinge la precedente”

23

. I sociologi parlano di decategorizzazione, cioè un processo di indebolimento dei confini e della forza degli schemi, dei criteri e delle definizioni rigide grazie ai rapporti interpersonali; confini che, infatti, sono particolarmente marcati quando quelle dimensioni esercitano nel contempo la loro influenza. La religione è un criterio che può separare due popoli. Se si mettono in concorrenza criteri come questi, è arduo riuscire a modificare gli stereotipi che li accompagnano. Diversamente, è importante che essi si intreccino tra loro con una direzione interpersonale, che cooperino per ridurre il favoritismo e quindi la competizione.

Per ridimensionare gli stereotipi, è necessaria una nuova dimensione e cioè un nuovo modo di pensare l’appartenenza ad uno schema: cioè che

23 Moscovici S., op. cit. p. 104. Su questo punto, cfr. Durkheim É., Les formes élémentaires de la vie religieuse (Le système totémique en Australie), Paris, F. Alcan, 1912; tr. it. di Cividali C., Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, pp. 228-237.

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l’appartenenza più autentica è quella incrociata. D’altronde, la simultanea appartenenza a più luoghi ci sembra la più autentica rappresentazione dell’essere umano. Al posto di considerare gli uomini come appartenenti a due popoli o a due gruppi distinti, si può immaginare che siano tra loro interconnessi e che diano luogo ad un gruppo superordinato. Ma ciò che più preme è riuscire a rendere propria dei rispettivi popoli o gruppi questa concezione. Se i membri del gruppo arrivano a ri-categorizzare, a ripensare se stessi come membri di un insieme sovraordinato, i comportamenti, i giudizi, gli sguardi nei confronti di coloro che stanno al di fuori del piccolo insieme dettato dai precedenti criteri, dovrebbero cambiare, oltre a farsi maggiormente favorevoli.

«Gli uomini sono tutti uguali» e «i cinesi sono tutti uguali», sono affermazioni che spesso capita di sentire. È singolare il modo in cui appare il gruppo a cui appartengo e il modo in cui vedo gli altri, i “diversi da me”.

L’uno complesso e con molteplici personalità, gli altri sembrano omogenei e senza differenze. L’esterno appare semplificato, però tutto ciò che “abita”

con me è articolato e distinto. Dire che la familiarità, e quindi il contatto, siano gli elementi decisivi nella visione omogenea o complessa dell’altro non basta.

La soluzione potrebbe essere trovata nei soggetti stessi, cioè nell’immagine che gli individui hanno di sé

24

. Quando pensiamo a coloro che stanno e si muovono sul nostro stesso terreno, o nella nostra stessa casa, ci serviamo dell’immagine del Noi che abbiamo per osservarli e giudicarli. Tale

24 Mead G.H., Mind, Self and Society, Chicago, University of Chicago Press, 1943; tr. it. di Tettucci R., Mente, Sé e Società, Firenze, Giunti Barbera, 1972.

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confronto, che è un confronto con se stessi, conduce ad una visione eterogenea dei nostri “coinquilini”. Ma il confronto sparisce quando penso all’altro da me, a coloro che abitano fuori dalla mia casa, al diverso. Perché?

Perché essi non sono presi individualmente ma solo come tutt’uno? Molto probabilmente, percepiamo e rileviamo eterogeneità perché confrontiamo soggetti e comportamenti con noi stessi. E nel momento in cui togliamo di mezzo il nostro Sé, scompaiono variabilità e complessità.

Potrebbe anche essere che vedere uniformità nell’altro sia il risultato di uno scarso impegno nell’aggiornare le impressioni che avevamo ricavato dai primi contatti con il nuovo. Al contrario, “i nostri simili” sono sottoposti a continua revisione e appaiono distinti e particolari.

Pensiamo alla situazione in cui uno sconosciuto deve entrare a far parte della nostra compagnia. È quasi inevitabile che si inneschino controlli e prove che egli deve superare per “guadagnare” il proprio posto, la propria collocazione nel territorio. Ed è un percorso ancora più impervio se essere qui o là costituisce un criterio vitale per arricchire soggettivamente un’identità, e se bisogna passare attraverso pre-concezioni avanzate dagli stereotipi culturali per i quali un atteggiamento è esclusivo di un determinato tipo di persona e l’altro è tipico di un altro specifico individuo. La rapidità del controllo e la fiducia che ripongo nel mio giudizio dipendono da chi o da cosa dovrebbe superare tali prove di ammissione e in che gruppo dovrebbe essere incluso, se mio o altrui.

Immaginiamo un uomo che racconta un episodio di omicidio. Supponiamo

che in questo racconto non emergano informazioni specifiche a proposito

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della nazionalità dell’assassino. Chi ascolta vuole cercare invece di ricavarla collegando i dati forniti dal narratore con ciò che ha come credenze stereotipiche (i siciliani sono tutti mafiosi, oppure i siciliani, come tutti i meridionali, sono ospitali e si farebbero in quattro per dimostrare la loro gratitudine). Ovviamente, se l’ascoltatore è siciliano, ha bisogno di più prove, di tanti riscontri per classificare l’assassino come siciliano: l’assassino, cioè, dovrà corrispondere a molteplici criteri di classificazione che chi ascolta possiede. Ma basta che qualcosa non torni, che qualcosa nella corrispondenza tra caratteristiche raccontate e stereotipo posseduto non sia coerente, per non credere che l’assassino sia siciliano.

Un’altra ipotesi sposta l’attenzione sulla tendenza a codificare meglio le informazioni che smentiscono il luogo comune che colpisce noi, mentre si accolgono, quasi senza interrogativo, le conferme al luogo comune che colpisce “l’altro da noi”. Siamo più cauti nell’identificare una persona nuova come simile a noi piuttosto che agli altri. Vogliamo quindi rafforzare i nostri confini contro i pericoli del “diverso”. In genere, gli incontri della nostra quotidianità, danno luogo a ricordi positivi

25

. Ma, come si può constatare, questa tendenza entra in collisione con la negatività del giudizio affibbiato a coloro che abitano luoghi esterni al nostro. In questo caso si crea un ricordo spiacevole e questo evento diventa più rilevante di altri.

Perché, allora, il giudizio positivo tendenzialmente riguarda una persona che ci è “compaesana” e non una persona e basta? Forse perché un individuo

25 La sperimentazione psicosociale chiama questa tendenza a valutare positivamente gli individui person-positivity bias. Per approfondimenti, vedi ad esempio, Ranieri F., Psicologia, Alpha Test, 2002.

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assomiglia di più al nostro Sé che un insieme di individui? Forse perché il giudizio è più “personalizzato” con un solo individuo che con tanti?

Ma c’è un’altra cosa da non dimenticare e sulla quale riflettere. Quando si tratta di valutazioni negative, sono le persone stesse, e non l’insieme degli individui, che ricevono i giudizi peggiori. Un asimmetria che trova la sua ragione nei processi di configurazione dell’immagine degli individui anziché del loro insieme. Gli individui, infatti, sarebbero sottoposti ad assidua ispezione, a differenza dei gruppi dotati di solidità e minore coesione interna.

7. Conclusioni: la fase operativa e la ragnatela

Dall’analisi psico-sociale su ciò che essa stessa chiama stereotipi, ci si avvicina sempre più ad un punto preciso dell’indagine sui luoghi comuni che sto cercando di affrontare: essi non abitano solo la mente delle persone, ma ne escono fuori poiché sono involucri che nascondono contenuti culturali, modi di lettura e interpretazione del mondo, conoscenze condivise e, se si pensa ad essi nel senso che ho voluto dare, sono sguardi che divengono comportamenti. Sicuramente, per uscire e trasmettersi, hanno bisogno degli incontri, dei discorsi che ne seguono, della televisione, degli scritti, dell’umanità. Quello che accade è una sorta di cristallizzazione. Si congelano conoscenze, si congelano atteggiamenti. Pensiamo alle barzellette

26

. Sono storie che riguardano popoli, classi sociali, professioni, gruppi etnici, ecc.

26 Le barzellette sui carabinieri sono famose, frequenti ed esemplificative.

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Queste storie hanno una struttura che ha un senso se chi parla e chi ascolta condivide la stessa conoscenza. E quale è questa conoscenza? È il luogo comune o la consapevolezza che esiste un luogo comune sul tema oggetto della barzelletta. C’è solidarietà, c’è complicità sulla manifestazione esagerata e paradossale di certe caratteristiche, c’è anche un senso di superiorità nei confronti del modo di essere, del comportamento dell’oggetto al centro storia. Anche le barzellette, essendo forme del luogo comune, portano a riflettere su cosa ci offra davvero il mondo reale.

Nel mondo circolano e agiscono persone. Si tratta di capire, entro i confini di questa ricerca, in cosa sono diverse o simili tra loro. Resta il fatto che i luoghi comuni, costituiscono un potente strumento cognitivo e una chiave universale sempre disponibile, consciamente e anche non. Anche in chi non ne apprezza la facile maneggevolezza e la loro grossolanità, essi possono introdursi poiché soddisfano moltissimi bisogni, specie nelle impressioni degli incontri con le persone mai viste. Si attivano quasi automaticamente.

Una volta scattati, essi possono rendere disponibile alla nostra mente l’oggetto che percepiamo per la prima volta, o la modalità da seguire. Il problema è analizzare il perché della difficoltà di intervenire per evitarne la loro attivazione.

Da tutti gli studi fatti, si ricava che gli individui ne fanno uso in molti modi.

Accade che gli individui non si rendano conto di usare sistemi di

rappresentazione capaci di portare a scorrette inferenze e giudizi a proposito

delle persone che incontrano, perché pensano che il mondo sia esattamente

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come viene visto da loro e che, quindi, ad esempio, gli statali non lavorano mai e pensano solo alla poltrona.

Accade che altri individui siano consapevoli delle conseguenze tendenziose a cui possono indurre determinate attribuzioni e che questo rischio sia sempre presente nella quotidianità, ma non gli è facile schivarlo poiché non si rendono conto della vera potenza dei luoghi comuni: essi possono controllarli, non prevenendoli, ma correggendo il giudizio che, comunque, è stato esplicitato. Quindi quello che avviene è una modifica non all’elaborazione del pensiero, ma alla conclusione raggiunta dopo la prima valutazione. Mi rendo conto di essere portatore di luoghi comuni e mi sforzo, ogni volta, per operare una modificazione del mio sistema di giudizio o di vita, anche se continuo a trovare delle ragioni che possano motivarlo.

Accanto a questi che agiscono a cose fatte, che riparano, secondo la psicologia sociale, c’è chi tenta di prevenire, cioè chi tenta di impedire alla potenza dei luoghi comuni di impregnare il pensiero. Sono soggetti che non vogliono cadere nella tentazione di percorrere la strada più rapida, semplice e comune. Scatta una fase di monitoraggio in cui avviene una scansione delle idee e poi una fase operativa per eliminare quelle indesiderate. Questa fase scatta automaticamente prima che i luoghi comuni raggiungano il livello di attenzione necessaria per sorpassare la soglia oltre la quale diventano patrimonio dell’individuo. Tutto questo richiede impegno.

La fase operativa dipende dalle risorse cognitive che l’individuo dispone in

quel momento e può funzionare bene solo quando egli è sufficientemente

attento. In alcune circostanze i tentativi di reprimere le idee e i giudizi

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indesiderati falliscono. Paradossalmente, nel caso di fallimento, l’individuo ottiene l’effetto opposto a quelle che erano le sue intenzioni, ovvero i pensieri indesiderati ritornano più forti e tendenziosi di prima. Perché questo accade?

Se si avverte la mancanza di tempo, l’azione di fattori di distrazione, preoccupazioni o particolari situazioni emotive, viene meno l’attenzione richiesta per inibire le idee scomode. La fase di monitoraggio però non dipende da tali fattori: rileva e segnala i pensieri sgradevoli e quindi deve essere sempre sintonizzata su di essi in modo da individuarli prima che si manifestino esplicitamente e da trasferirli alla fase operativa.

L’assurdità è che se la fase operativa non è in grado di attivarsi, quei pensieri

rimangono in circolazione senza essere sostituiti, liberi e, quindi, ancora più

accessibili alla memoria dell’individuo e disponibili al giudizio. Coloro che

volontariamente cercano di eliminare i cattivi pensieri a proposito degli altri

e del mondo, dovrebbero attivare il processo di soppressione in una

situazione in cui si possa portare a termine la fase operativa. Se ci

convinciamo di dover eliminare i luoghi comuni che abbiamo assorbito nel

tempo, non possiamo farlo se, afflitti dalla perdita del nostro posto di lavoro

in una ditta di confezioni di abiti, vediamo ampliarsi un magazzino di merce

cinese davanti a casa nostra. In quella situazione la seconda fase di controllo

non può completarsi. Anzi, è questo il momento in cui il luogo comune dei

cinesi che copiano, rubano tutto il lavoro e sono dei concorrenti sleali,

riaffiorerà con maggior virulenza. Questo effetto paradossale di rimbalzo,

come ho detto, è un effetto causato dalla prima fase che ha captato i pensieri

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