* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
MOBBING O PREGIUDIZIO ALLA PERSONALITÀ MORALE?
Dr. Fausto Nisticò
All’inizio di questo incontro qualcuno si è domandato dove stesse andando il diritto del lavoro.
Con il vantaggio di chi è chiamato ad intervenire per ultimo, mi pare di poter affermare che il diritto del lavoro derivi verso Fantozzi ,che è lo sponsor ideale del nostro convegno, e si allontani sempre di più da Cipputi, il vecchio Cipputi, quello che , quando suonava la sirena, smetteva la tuta e se ne andava a giocare a briscola alla Casa del Popolo , scrollandosi di dosso la forma della fatica. La fabbrica, a quel tempo , stava da una parte e Cipputi dall’altra, quando era ben chiaro che chi lavorava cercava di guadagnare il suo pane e chi dava da lavorare cercava di realizzare i suoi guadagni; quando l’appartenenza – la consapevolezza del ruolo – allontanava le suggestioni di una commistione che oggi l’ideologia produttiva (come la chiama Giuseppe Guarino) rivitalizza, chiamando alla cultura aziendale e proponendo potenzialità imprenditoriali generalizzate, alla portata di tutti, con l’unico effetto di enfatizzare i percorsi competitivi, lacerare l’identità, predisporre, finalmente, alla inconsapevole dedizione assoluta. Corrispondendo questo ad un preciso disegno ( nel c.d. Libro Bianco sul mercato del lavoro il vecchio posto di lavoro viene sostituito dalla partecipazione al ciclo lavorativo), artatamente enfatizzato attraverso i noti strumenti di persuasione mediatica, stiamo inesorabilmente diventando tutti Fantozzi, e la prima signorina Silvani che capiti, od anche un semplice servile , fedele ed occhialuto Filini possono, sol che lo vogliono, lacerarci l’anima, sconvolgere la nostra agenda di vita e consegnarci, guarniti di tutti gli odori e le spezie della new economy, alla manipolazione culinaria del Grande Cuoco.
Chi avesse la ventura (e la pazienza) di leggere con attenzione il Libro Bianco del Ministro Maroni non troverà una sola parola – neppure sforzandosi di tradurre in italiano corrente i molti neologismi ed inglesismi – dedicata alla persona del lavoratore, il quale, come ci ricordava Umberto Oliva nel suo intervento, è ormai indicato come risorsa umana, ma anche, come capita di leggere, capitale umano. Si dirà che si tratta di questioni semantiche e come tali di operazioni di maquillage che non mutano la sostanza delle cose. Ma in un contesto, come il nostro, dominato dagli effetti della comunicazione, anche la semantica assume significato ed è utilissima e alla
Giudice del Lavoro, Tribunale di Pisa
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
persuasione; pensiamo, per esempio, come la stampa ha presentato (all’unisono) la figura di Marco Biagi in occasione della sua uccisione, definendolo un economista, mentre Biagi, come sanno gli addetti ai lavori, non era un economista, ma un giurista, anzi, come si dice, un lavorista.
Che significato ha, allora, tutto questo, se non valorizzare il primato delle ragioni economiche rispetto alle regole destinate alla regolamentazione del rapporto? E, dunque, affermare che le dinamiche produttive debbano condizionare quelle regolative e non, come fin’ora era stato, il contrario?
Il diritto del lavoro (quello che Giuseppe Pera, giurista liberale, nella sua ultima lezione all’Università di Pisa, ha definito di sinistra per definizione e per destinazione e che Luigi Mengoni invocava a tutela del protagonista debole) marcia, dunque, verso un radicale mutamento di prospettiva, da quella di elaborazione del sistema protettivo a difesa dai meccanismi mercantili a quella di residua normazione soft e, perciò, di modesta confezione di un pacchetto di tutele derogabili. Lo testimonia, se vogliamo, l’affermato primato della flessibilità (che per il lavoratore equivale a precarietà) che investe con la sua forma espansiva il tipo contrattuale e le regole interne dei tipi, l’entrata e l’uscita del capitale umano; e sul piano processuale lo testimoniano la
“certificazione” e dunque la sottrazione all’esperienza giudiziaria della definizione del rapporto e l’auspicato ricorso al giudizio di equità, che muove dalla vincente affermazione secondo la quale le regole sono inique anche quando ci sono e i giudici del lavoro, descritti dal Ministro come incapaci a svolgere il loro mestiere, votati alla realizzazione di quel brocardo (da uomo della strada) secondo il quale summun ius summa iniuria.
Comunque vada è, allora, certo che quella del mobbing è teorica che procede nel verso opposto, perché, la si voglia intendere in un senso o nell’altro e qualsiasi contenuto le si voglia affidare, sicuramente ha l’effetto di rivalutare la condizione umana del protagonista debole, che tale è nel rapporto lavorativo, ma tale non deve essere nel suo momento esistenziale; ci aiuta a mettere dei paletti fra le vita e la fabbrica, fra l’agorà e l’ozio intelligente e la minaccia della partecipazione al ciclo produttivo. Perciò è fenomeno in controtendenza, da custodire gelosamente e salvaguardare attraverso una sistemazione teorica che non ne faccia solo una tendenza, se non una moda, ma uno strumento di tutela in linea con l’ordinamento ed in pace con il codice civile e la legge.
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
Questa operazione, in realtà non semplice, deve muovere da un programma, per così dire, epurativo che in primo luogo distingua la molestia morale colpevole dalla molestia morale semplicemente avvertita come tale e poi rivendichi al giurista la definizione e la gestione scientifica del fenomeno.
Lo stress è conseguenza delle nostre scelte di vita o delle scelte che i dominanti ci impongono attraverso l’intrattenimento e la persuasione. La molestia morale è dietro l’angolo in tutti in contesti dove conti l’affermazione, ovunque vi sia competizione e quando si interloquisca con un antagonista; le pressioni, più o meno dirette, sulla nostra personalità si identificano con la necessaria convivenza con quanto è altro che noi stessi ed a questa continua tensione è da attribuire la condizione di sfibramento esistenziale che colpisce chi è dotato di minore resistenza.
Le componenti sono tante e diversificate e tutte realizzano un bagaglio di stimolazioni esterne che possono compromettere l’equilibrio della nostra personalità e molto è da attribuire alla condizione genetica, che, a quel che sembra, marca con effetti determinanti il nostro percorso di vita.
Va da sé che l’ordinamento giuridico non può (e forse non deve) occuparsi con strumenti concreti della felicità individuale e che, al contrario, lo possa e la debba fare le volte che la soggezione derivi da quanto non appartenga alle scelte personali e sia l’effetto di un rapporto potenzialmente sbilanciato, nel quale l’un protagonista sia maggiormente dotato dell’altro. In tal senso l’affermazione secondo la quale tutti devono rispettare la personalità morale di tutti corrisponde alla enunciazione di un principio eticamente condiviso, ma la cui rilevanza giuridica non può che essere parametratata e delimitata, in una comunità laica, alle regole fondamentali dell’ordinamento e quindi alle scelte che la comunità abbia canonizzato nelle sue Carte fondamentali. L’apprezzamento giuridico del fenomeno, perciò, non può affermarsi se non attraverso la mediazione delle regole e la individuazione delle scelte che segnano il confine fra i compiti dell’ordinamento e gli spazi riservati alla riflessione del singolo. Per intenderci, non c’è dubbio che abbiano una enorme capacità lesiva della personalità morale quante proposte di intrattenimento animano oggi i nostri intrusivi mezzi di comunicazione, in special modo quando la rappresentazione sia tale per qualità da mortificare la dignità stessa dello spettatore: tuttavia non è ipotizzabile che l’ordinamento si impegni per rimuovere dalla fascia oraria televisiva che copre le
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
prime ore serali tutti quei giochi a premi che stimolano i momenti di maggiore povertà dell’animo umano o per allontanare dagli sguardi incuriositi dei nostri figli le immagini di violenza o di stupidità o di morbosità che informano i palinsesti televisivi. Qui si tratta di spazi che l’ordinamento assegna alla sensibilità dell’individuo, ancorché la dimensione del fenomeno potrebbe legittimare qualche forma di intervento. Ma in linea di massima ognuno è libero di scegliere se vedere “Il Grande Fratello” o “La vita è bella”, quando siano mandati in onda lo stesso giorno ed alla stessa ora (come qualche mese fa è successo).
Così, ognuno di noi è ben libero di scegliere il suo percorso di vita e nella vita lavorativa è libero di immolarsi (ma quasi sempre per lui improduttivamente) al lavoro come Fantozzi o fare il suo e correre al bar come faceva Cipputi; convincersi che l’esistenza è fuori dalla fabbrica o che il capannone rappresenti il suo destino; assistere ad un film proposto dal suo capo ufficio o scelto di testa propria; provare soddisfazione nell’essere invitata a cena dal capo (come la più stupida delle tre oche dell’Amaro Lucano) o farlo in compagnia di una persona gradita.
Per l’ordinamento lavoristico la condizione del lavoratore (subordinato, ma anche tale solo economicamente) è condizione di immanente soggezione. Il nostro legislatore conosce(va) le regole del mercato e sa(peva) della loro inadeguatezza rispetto alle esigenze esistenziali del protagonista debole.
Il lavoro è l’ottava parola contenuta nel primo articolo della costituzione e questo, con la sua collocazione in sede definitoria della Comunità Nazionale, ha un suo significato, in special modo se si considera che altre tre disposizioni appartenenti alla Parte Prima sono dedicate all’uomo che lavora (art. 2, 3 e 4) e che il libero esercizio dell’impresa è subordinato al rispetto della dignità umana e che la retribuzione è destinata all’affermazione sociale dell’individuo per una vita libera e dignitosa. Ove poi, come da qualche parte si va affermando con un certo successo, questa nostra Carta la si volesse ritenere vecchia ed inadeguata alle pressanti esigenze mercantili dei nostri tempi, Quella di Nizza, che è del 2001 e che rappresenta la ricognizione dei principi condivisi dagli Stati Comunitari e dunque la chiave di lettura degli Ordinamenti Membri, alla persona umana dedica il preambolo, alla dignità assegna il primo posto ed alle regole sul lavoro assegna la collocazione nel capo dedicato alla solidarietà. La prospettiva europea e quella nazionale, dunque,
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
convergono e con attualità indiscussa, verso il primato dell’uomo nella sua dimensione esistenziale e dettano regole per la tutela della sua personalità nell’arena mercantile, così indicando la necessità che nella manipolazione degli elementi della produzione l’uomo (il capitale umano) mantenga la sua dimensione naturale. Il risultato di questo impianto – ispirato a criteri di solidarietà ed equità sociale e principalmente al rispetto dell’uomo anche quando lavora – si risolve nella enucleazione di un pacchetto di salvaguardia che sottragga allo logica produttivistica il protagonista umano del ciclo, così autorizzando il gestore del capitale al compimento delle operazioni che vuole sulle componenti materiali della sua impresa ma limitando i margini di manovra che abbiano ad oggetto la persona del lavoratore. Accanto al pacchetto retributivo minimo (art. 36 Cost.) l’ordinamento costruisce – e fin’ora ha costruito – un ulteriore nucleo di protezioni che tracciano i confini inderogabili fra l’esigenze della produzione ed il rispetto esistenziale di chi alla produzione partecipi conferendo le sue energie personali. (si pensi ad alcune regole enunciate dallo Statuto dei lavoratori in tema di rispetto della condizione personale del dipendente).
Nel conflitto immanente fra le dinamiche mercantili (per definizione ispirate alla acquisizione di materialità) e quelle esistenziali, il nostro ordinamento (ed oggi quello Europeo) hanno, dunque, manifestato una precisa opzione, che potremmo spingere fino ad affermare che la tutela della personalità esistenziale dell’individuo rappresenti una sorta di costo fisso, una priorità inderogabile il cui rispetto debba obbligare l’imprenditore a cercare soluzioni nel suo margine di profitto e non in pregiudizio di chi al ciclo partecipi con la sua stessa vita. Si tratta, in definitiva, della ricognizione normativa del primato dell’uomo o, se vogliamo, del primato del benessere etico rispetto al benessere materiale.
Tale principio (oggi posto in discussioni per le ragioni che tutto conosciamo e per le quali qui non vi è spazio) appartiene alla nostra cultura giuridica tradizionale, perché si legge nel codice civile e, dunque, in un testo normativo precostituzionale, sistematicamente inserito in un prodotto normativo di ispirazione tutt’altro che collettivista, ma semmai attenta alle esigenze del mercato.
La storia della evoluzione normativa di attuazione della costituzione, poi, se la si vuol leggere con intelligenza e senza pregiudizi, dimostra la convergenza di ogni intervento verso l’affermazione concreta del principio guida e per rendersene conto basterà ricordare la legislazione protettiva
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
degli anni dal 1960 al 1970. Né vale eccepire, come sa qualche parte si fa, che il contesto è oggi mutato, poiché il primato esistenziale dovrebbe comunque reggere all’impatto della new economy ed a quanta “cultura” aziendalista si porti dietro, che anzi le obiettive condizioni di benessere economico proprie dei sistemi occidentali dovrebbero consigliare (passata la contingenza retributiva) ulteriori forme di intervento per la tutela della personalità.
Esiste, allora, una norma (l’art. 2087 c.c.) che traccia la definizione giuridica – che alla fine è quella che conta – di quanto sia obbligato a fare il datore di lavoro per rispettare la condizione esistenziale del suo lavoratore. Qui si dice che vi sia un obbligo di tutelare da una parte l’integrità fisica e dall’altra la personalità morale.
La personalità morale è concetto del tutto diverso da quello di integrità, di tal che se ne può senz’altro dedurre che l’obbligo di tutelare ( meglio: rispettare) la personalità morale non si esaurisca nel solo evitare lesioni dell’integrità (fisica o psichica che sia), ma assuma i contenuti di un atteggiamento doveroso che possa essere censurato anche se non ne sia derivata alcuna conseguenza pregiudizievole alla integrità. Rispettare la personalità di un individuo non significa, infatti, solo evitare di condurlo alla depressione o ad altra forma di psicopatologia, essendo chiaro che il comando legislativo non intende proteggere la sola integrità, ma la condizioni esistenziale dell’individuo e che il destinatario della molestia possa reagire anche a fronte di una forma di aggressione che non abbia l’effetto di cagionare un pregiudizio permanente.
Identico significato assume l’ulteriore regola civilistica (art. 1375), da combinarsi con il contenuto dell’art. 2087 c.c. e secondo la quale il contratto deve essere eseguito seconda buona fede.
L’impianto normativo – Europeo, Costituzionale, legislativo – sinteticamente riassunto ci tranquillizza, allora, sulla definizione e consente , a mio giudizio correttamente, di organizzare una proficua collaborazione con la scienza psichiatrica o con la psicologia del lavoro che, tuttavia, non comporti equivoche commistioni ingenerate vuoi dalla particolare attenzione con la quale si guarda oggi al fenomeno e dalle generalizzate aspettative di tutela, vuoi dal “pigro” recepimento da parte del giurista della definizione (per altro , come oggi abbiamo sentito, neppure pacifica) enucleata nella sede psichiatrica. L’impressione che oggi si riceve, ogni volta che in qualsiasi sede si discuta di mobbing è quella di un fenomeno da altri confezionato per il giurista (o ,più
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
modestamente, per l’operatore del diritto), quasi si trattasse di una ricostruzione alla quale piegare le regole giuridiche con interventi radicalmente innovativi.
L’errore metodologico, dunque, consiste proprio nel prendere a prestito la definizione e la struttura stessa del fenomeno e nel qualificarla, alternativamente ricorrendo alla fattispecie di cui all’art. 2087 od a quella di cui all’art. 2043 c.c. (od ad entrambe) e finendo per attribuire significato giuridico e rilevanza nel rapporti contrattuali ad una fattispecie la cui ricognizione è affidata ad altri. E come sappiamo già qualche giudice ha cominciato ad escludere il diritto al risarcimento perché la molestia non era collettiva, o perché non si era manifestata nel segmento cronologico e nel numero di interventi canoninizzati secondo le esigenze “protoccolari” della psichiatria: in sostanza ha ritenuto che non ci fosse tutela da approntare perché il fenomeno descritto dal presunto mobbizzato non rispondeva agli strandars enunciati dagli studiosi del fenomeno.
All’evidenza il rischio è quello di confondere il contenuto di un obbligo datoriale (quale quello che risulta dalla lettura congiunta dell’art. 41 della Costituzione e degli artt. 137 e 2087 c.c.) che non soffre limiti di tempo, spazio e numero di interventi, con il diverso contenuto di un fenomeno da altri studiato ed a fini diversi, con il risultato, per esempio, di escludere dalla specifica forma di tutela contrattuale il caso della molestia singola (ancorché “pesante”) o della molestia plurima ma non posta in essere collettivamente.
Perché, dunque, come abbiamo fatto oggi, cercare affannosamente una definizione del mobbing, quando questa c’è già, sol che si rifletta sul contenuto delle due clausole generali contenute nel nostro codice civile? O perché diffidare delle clausole generali, quando tutte le ipotesi di danno aquiliano sono affidate, come sappiamo, ad una clausola generale (art. 2043 c.c.) di contenuto certamente più ampio ed indeterminato di quanto non sia l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore?
Per il giurista, dunque, quello della definizione è un falso problema, certamente ingenerato dal primato di altre discipline nella osservazione del fenomeno, anche se occorre dire, riflettendo ex post, che in realtà ai giudici non era mai sfuggita la necessità di tutelare la personalità morale del lavoratore le volte che se ne fosse presentata la necessità (basti pensare al consolidato orientamento sul danno alla professionalità o su quello degli specifici interventi previsti dalla normativa speciale), ancorché mancasse la consapevolezza di una nozione giuridica unitaria e sistematizzata alla quale ricondurre la ricostruzione della fattispecie. Se, dunque, il giurista deve
* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
alle diverse scienze sociali o psichiatriche le ragioni di una sistemazione, occorre, tuttavia, che egli rivendichi a sé la definizione del fenomeno. La proposta finale, senza che essa appaia provocatoria, potrebbe, allora essere, quella di abbandonare ogni riferimento al mobbing e cominciare a parlare, almeno fra gli operatori del diritto, di pregiudizio alla personalità morale e conseguentemente ricondurre l’interevento dell’ausiliare del giudice al suo ruolo naturale, che, come si sa, non è mai definitorio della fattispecie.
In definitiva, mi pare che le questioni, in realtà, siano altre ed in primo luogo quella di avvicinarsi , almeno con la curiosità che merita e comunque senza diffidenza, al danno esistenziale e lavorare per vincere tutte le resistenze dottrinali alla sua configurazione.
La scuola triestina di Cendon, a chi ne abbia voglia, offre, come sappiamo abbondante (ed intelligente) materiale di riflessione, qui mancando lo spazio per dar conto del dibattito sul punto, connotato da una certa “animosità” (scientifica).
I tempi sono maturi, infine, per provare ad abbandonare l’asservimento codicistico alla tutela sempre e solo risarcitoria , con il risultato non solo di utilizzare strumenti preventivamente esperibili ( nell’ambito, per esempio, delle procedure interne di cui alla legge n. 626) con gli effetti propri dell’azione inibitoria (quasi una procedura ex art. 28 s.l.), ma anche di scoraggiare chi , con una certa disinvoltura, aspiri al risarcimento confondendo gli oggettivi pregiudizi derivanti dalla fatica con le responsabilità del suo datore di lavoro.