* * * * TAGETE Nr. 2 ‐ 2003
Anno IX
DANNO PSICHICO, DANNO MORALE, DANNO ESISTENZIALE
Dr. Marco Rossetti
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SOMMARIO 1. Premessa
2. Il danno psichico
2.1. La nozione di danno psichico per la medicina legale. ‐ 2.2. La nozione di danno psichico nella giurisprudenza. ‐ 2.3. Il fondamento normativo della risarcibilità. ‐ 2.4.
L’accertamento del danno psichico. ‐ 2.5. Danno psichico e vittime secondarie (o “di rimbalzo”).
3. Il danno morale
3.1. Legittimazione. ‐ 3.2. Liquidazione. ‐ 3.3. Danno psichico e danno morale.
4. Il danno esistenziale
4.1. Le definizioni dottrinarie. ‐ 4.2. I riscontri giurisprudenziali.
(A) La giurisprudenza di legittimità. ‐ (B) La giurisprudenza di merito. ‐ 4.3.
Osservazioni critiche alla tesi del danno esistenziale.
(A) Imputabilità del danno. ‐ (B) Contenuto del danno.‐
(C) (In)distinzione dal danno morale.
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1. Premessa
Scopo del presente scritto è provare a definire le nozioni di danno psichico e di danno morale.
Date tali definizioni, e ricavate per conseguenza le differenze tra queste due fattispecie, si proverà a stabilire se tali figure esauriscano gli spazi risarcitori lasciati scoperti dal danno patrimoniale e da quello biologico, ovvero se sia effettivamente configurabile, in aggiunta a quelli ora indicati, un
Magistrato, Tribunale di Roma
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danno “esistenziale”, consistente ‐ in tesi ‐ nella perdita o nella compromissione di una o più attività realizzatrici della persona.
2. Il danno psichico
2.1. La nozione di danno psichico per la medicina legale
Secondo la migliore dottrina medico legale, il danno psichico può definirsi come “la menomazione psichica esprimente lo stato di peggioramento del modo di essere di una persona, a causa di un disturbo psichico determinato da una lesione psichica, cioè da un’ingiusta turbativa del suo equilibrio psichico” (Brondolo e Marigliano, Il danno psichico, Milano 1995, 95).
La dottrina medico legale è altresì concorde nel ritenere che la suddetta menomazione, causata dall’atto illecito, non deve rappresentare un mero momento di disagio o di sofferenza, perché in quest’ultimo caso si avrebbe “solo una reazione depressiva, di durata ed intensità congruente con l'evento, che si normalizza in tempi brevi” (Pajardi, Il concetto di danno alla persona, in Quadrio e De Leo (a cura di), Manuale di psicologia giudiziaria, Milano, 1993, 520).
Il danno psichico è dunque, per i medici legali, un danno di tipo biologico, ed in quanto tale richiede la sussistenza di tutti i presupposti di quest’ultimo, e cioè:
(a) una lesione psichica, vale a dire una alterazione patologica del precedente equilibrio psichico del danneggiato;
(b) una menomazione, o handicap, o “malattia” psichica in senso medico legale, causata dalla lesione;
(c) un peggioramento della qualità della vita, causata dalla menomazione (Cataldi, Il danno psichico tra medicina e diritto, in Tagete, 1997, fasc. 6, 20; Ponti, Danno psichico e attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale, in I cinquant’anni del codice civile, in Riv. it. med. leg., 1992, 527).
2.2. La nozione di danno psichico nella giurisprudenza
Nel modo in cui la giurisprudenza, tanto di legittimità che di merito, affronta il problema della definizione del danno psichico sembrano annidarsi contraddizioni inespresse.
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In particolare il giudice di legittimità, chiamato a definire la nozione di danno biologico, ha reiteratamente affermato che questo consiste in una lesione dell’integrità biopsichica o psicofisica dell’individuo (così, ex permultis, Cass. 28‐4‐1999 n. 4231, in Resp. civ. prev., 2000, 110;
Cass. 6‐2‐1998 n. 1285, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 154; Cass. 25‐6‐1997 n. 5675, in dir.
econ. ass., 1997, 1056; Cass. 16‐4‐1996 n. 3563, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1996, 310; Cass. 26‐10‐
1994 n. 8787, in Arch. circolaz., 1995, 632). Se dunque la lesione della salute psichica costituisce una ipotesi di danno biologico, il danno psichico rientra in quest’ultima categoria di danno, interamente e senza residui.
Tuttavia, chiamata a definire il danno morale, la S.C. lo ha definito come “un turbamento ingiusto dello stato d'animo o in uno squilibrio o riduzione delle capacità intellettive della vittima” (Cass.
6.10.1994 n. 8177, in Foro it., 1995, I, 1852).
Ora, poiché il medesimo tipo di pregiudizio (l’alterazione psichica) non può costituire al contempo un danno sia biologico che morale, deve ritenersi che, là dove la Corte di cassazione parla di
“sofferenza psichica” con riferimento a quella causata dal danno morale, non faccia riferimento ad una vera e propria patologia, ma soltanto allo stato di tristezza e prostrazione causato dal reato.
Tuttavia questo uso promiscuo degli aggettivi “morale” e “psichico”, forse a causa della tralatizietà di certe formule, potrebbe ingenerare il dubbio che un danno psichico possa sussistere anche a prescindere dall’effettivo accertamento d’una patologia in atto. Ed in quest’ultimo senso, infatti, sembra essersi orientato qualche giudice di merito, ritenendo che la sindrome depressiva causata (od anche solo concausata) dalla morte di un familiare costituisca un danno biologico di natura psichica, immediatamente risarcibile, anche nelle ipotesi in cui i disturbi costituiscano un c.d. “lutto complicato”, e non rappresentino una malattia in senso medico legale (Trib. Roma 12.10.2000, in Giurispr. romana, 2001, 24).
Dinanzi a queste incertezze definitorie, se si vuole evitare il rischio di confusioni concettuali, è opportuno ribadire che:
(a) non può esservi danno biologico se non c’è una lesione della salute psichica o fisica dell’individuo, suscettibile di accertamento medico legale (Cass. 17.11.1999 n. 12756, ove si afferma espressamente che “in difetto di prova di una lesione della integrità psicofisica del soggetto (…), non è configurabile un danno biologico”; Cass. 18.4.1996 n. 3686, in Riv. giur. lav., 1996, II, 33;
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Cass. 13.8.1991 n. 8835, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, 954; Cass. 6.5.1988 n. 3367, in Foro it. Rep.
1988, voce Danni civili, n. 69, in motivazione);
(b) il danno psichico, come definito dalla medicina legale, costituisce una lesione della salute psichica dell’individuo;
(c) ergo, il danno psichico non è che una sottospecie del danno biologico, così come ‐ ad esempio ‐ il danno osteoarticolare, il danno visivo, il danno muscolare, e via dicendo.
2.3. Il fondamento della risarcibilità
Deve ritenersi ormai superato il problema se il fondamento normativo della risarcibilità del danno psichico vada individuato nell’art. 2043 c.c., ovvero nell’art. 2059 c.c.. In verità, nessuno aveva mai dubitato che il danno psichico, in quanto species di danno biologico, andasse risarcito ex art. 2043 c.c..
Il quadro, tuttavia, era stato complicato da un infelice intervento della Corte costituzionale la quale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., nella parte in cui non prevedeva la risarcibilità del danno biologico da morte iure proprio (cioè del danno alla salute, ivi compresa quella psichica) subìto in conseguenza della morte traumatica del proprio congiunto, aveva articolato il seguente sillogismo:
(a) l’essenza della colpa è la prevedibilità;
(b) nel caso di lesioni colpose che cagionino la morte di una persona, mentre può considerarsi astrattamente prevedibile la lesione del rapporto obbligatorio (patrimoniale) sussistente tra il defunto ed i suoi congiunti, non può considerarsi prevedibile, da parte del danneggiante, la lesione della salute del congiunto del leso, in quanto tale evento non consegue necessariamente all’estinzione del rapporto di coniugio o parentela;
(c) ergo, poiché il danno biologico causato dalla morte del congiunto non è prevedibile, esso non è risarcibile ex art. 2043 c.c. (Corte costit. 27‐10‐1994 n. 372, in Foro it., 1994, I, 3297).
Dunque, poiché per la Consulta il risarcimento del danno psichico da lutto non poteva avvenire ai sensi dell’art. 2043 c.c., fu giocoforza concludere che tale risarcimento dovesse avvenire ai sensi dell’art. 2059 c.c., osservando che nel caso di trauma psichico provocato dalla morte di un congiunto “il danno alla salute è (…) il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in
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persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento” (Corte costit. 27‐10‐1994 n. 372, cit.).
Le conclusioni del giudice delle leggi suscitarono aspre critiche in dottrina, e forti perplessità in giurisprudenza. Al riguardo si osservò, tra l’altro che:
(a) la tesi secondo cui al danno alla salute (psichica) causato dalla morte di un congiunto non sarebbe applicabile l’art. 2043 c.c., per difetto di prevedibilità dell’evento dannoso, prova troppo:
se fosse vera, infatti, anche la lesione d’un rapporto patrimoniale esistente tra il de cuius ed il suo congiunto non sarebbe risarcibile, perché non “necessariamente conseguente” (secondo le parole della Corte) alla morte dell’obbligato;
(b) con la sentenza 372 del 1994, la Corte costituzionale ha ammesso la risarcibilità ex art. 2043 c.c. del danno psichico corpore corpori illatum (ad esempio, derivante da trauma cranico); mentre l’ha negata nel caso di danno psichico nec corpore corpori illatum (ad esempio, danno psichico da shock o da stress), ritenendo che in quest’ultima ipotesi il danno psichico fosse risarcibile soltanto ai sensi dell’art. 2059 c.c., sebbene senza limitazioni.
In definitiva, con la sentenza n. 372 del 1994, la Corte ha abbandonato il principio costantemente affermato in precedenza (Corte costit., 14‐07‐1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053), e cioè che la salute dell’individuo, oggetto di protezione ex art. 32 cost., è una soltanto, ed essa può essere lesa sia vulnerando il soma, sia vulnerando la psiche.
Le non sempre perspicue affermazioni contenute nella motivazione della sentenza n. 372 del 1994 indussero alcuni giudici di merito a sollevare nuovi dubbi di legittimità costituzionale sull’art. 2059 c.c.. In particolare il tribunale di Bologna, preso atto che per la Consulta il danno psichico era risarcibile soltanto ex art. 2059 c.c., ipotizzò il seguente sillogismo:
(a) il danno psichico da morte del congiunto è un danno alla salute;
(b) tuttavia, secondo Corte cost. 372/94, esso va risarcito ex art. 2059 c.c., e non ex art. 2043 c.c.;
(c) l’art. 2059 c.c. limita la risarcibilità dei danni ivi previsti alle ipotesi in cui l’illecito costituisca reato;
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(d) ergo, il danno alla salute psichica da morte del congiunto è risarcibile solo nelle ipotesi di reato, con conseguente violazione dell’art. 32 cost..
Questa volta la Corte ha provato a (ri)mettere ordine nei rapporti tra il danno morale ed il danno psichico, osservando che: (a) tutti e due costituiscono forme di danni non patrimoniali; (b) tutti e due sono risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.; (c) tuttavia il danno (psichico) alla salute è assistito dalla garanzia dell’art. 32 cost., e quindi sempre risarcibile, a differenza del danno morale, osservando: “la sentenza n. 372 non ha confuso il danno biologico col pretium doloris, ma ne ha parificato il trattamento giuridico sul presupposto della loro distinzione, nel senso (…) che le conseguenze risarcibili in base agli elementi costitutivi del fatto‐reato sanzionato dall'art. 185 cod.
pen. si estendono a tutti i danni non patrimoniali da esso cagionati, compreso il danno alla salute, indipendentemente dal problema generale del coordinamento, in via di interpretazione, dell'art. 2059 cod. civ. con la diversa fattispecie dell'art. 2043 in ordine al danno biologico causato da un fatto illecito non qualificato come reato” (Corte cost. (ord.) 22.7.1996 n. 293, in Foro it., 1996, I, 2963).
Anche l’ordinanza n. 293 del 1996, tuttavia, non ha soddisfatto pienamente gli interpreti, soprattutto perché non si è fatta carico di precisare ‐ anche alla luce delle più moderne acquisizioni della medicina legale ‐ l’esatta linea di confine tra danno psichico e danno morale, limitandosi ad affermare ‐ sibillinamente ‐ che il loro trattamento ha da essere “parificato sul presupposto della loro distinzione”.
Allo stato, quindi, le pronunce della Consulta in tema di tutela (anche risarcitoria) della salute psichica sembrano gettare l’interprete in una sindrome dissociativa, in quanto:
(‐) in linea di principio, si è affermato che la salute dell’individuo, fisica o psichica che sia, deve godere della medesima forma di tutela;
(‐) in relazione a singole fattispecie, si è invece affermato che la lesione della integrità psichica è risarcibile ex art. 2059 c.c., mentre quella dell’integrità fisica è risarcibile ex art. 2043 c.c..
Non deve destare quindi meraviglia se la giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, non ha seguito la Corte costituzionale sulla problematica strada della risarcibilità ex art. 2059 c.c.
del danno psichico alle vittime secondarie, ritenendo invece in modo assolutamente prevalente che tale danno vada risarcito ex art. 2043 c.c. (ex multis, Trib. Roma 12.10.2000, in Giurispr.
romana, 2001, 24; Trib. Roma 23.12.1996, Pafundi c. L’Italica, inedita).
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Anno IX 2.4. L’accertamento del danno psichico
Posto che il danno psichico costituisce una particolare ipotesi di danno biologico, il suo accertamento non dovrebbe presentare difficoltà: in teoria, infatti, l’accertamento di questo tipo di danno si dovrebbe risolvere nel demandare ad un medico legale di stabilire l’esistenza di una lesione psichica.
E’ proprio, qui, tuttavia, che sorgono i maggiori problemi pratici, dovuti essenzialmente a due fattori:
(a) la difficoltà di inquadrare nosograficamente l’infinita serie di disturbi mentali;
(b) l’impossibilità (nella maggioranza dei casi) di potere ricorrere ad accertamenti clinico‐
strumentali;
(c) la multifattorialità del danno psichico, che può dipendere tanto da fattori esterni, quanto da predisposizione psichica della vittima (Fornari, Trattato di psichiatria forense, Torino, 1997, 557‐
558).
L’accertamento del danno psichico, quindi, dovrebbe essere sempre particolarmente accurato, al fine di evitare due rischi antitetici ma ugualmente perniciosi.
Se, infatti, si adopera particolare acribia nell’accertamento del danno psichico, si finirà per ritenerlo sussistente soltanto in presenza di lesioni organiche o di gravi sindromi neurologiche immediatamente percepibili.
Se, all’opposto, si adotta un metro di giudizio eccessivamente “largo” (ricorrendo agli argomenti del res ipsa loquitur, dell’id quod plerumque accidit, del “non può non avere causato”, e simili), si finirà per risarcire a titolo di danno psichico dei meri turbamenti transeunti dell’anno, che potrebbero ‐ al più ‐ costituire un danno morale, ma non certo una malattia in senso psichico.
Specialmente nelle ipotesi in cui il danneggiato alleghi di avere subito un danno psichico non causato da lesioni organiche (ad esempio, disturbo post‐traumatico da stress, danno da lutto, danno da shock), la giurisprudenza sembra divisa tra due orientamenti di fondo.
Taluni giudici esigono la dimostrazione rigorosa del nesso eziologico tra l’evento lesivo (il trauma psichico) ed il disturbo psichico. Dimostrazione che deve essere fornita dall’attore, anche se si ritiene pacificamente che in questi casi possa essere disposta una consulenza di ufficio, a causa della estrema difficoltà di prova.
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Altri giudici, all’opposto, ritengono che la prova della lesione psichica, e del conseguente danno, in alcuni casi possa essere desunta ipso facto dal verificarsi di determinati eventi ritenuti traumatizzanti: la morte di un congiunto, la nascita di un figlio malformato, l’esposizione a sorgenti sonore moleste, l’ingiusto licenziamento o l’ingiusta assegnazione a mansioni inferiori, l’illegittima levata d’un protesto cambiario. Costituiscono esempi di questo secondo orientamento, propenso agli “automatismi risarcitori”:
(a) quel nutrito filone giurisprudenziale secondo cui il mancato godimento, da parte del lavoratore dipendente, del riposo festivo, costituisce una fonte di danno psicofisico presunto iuris et de iure a carico del datore di lavoro (Cass. 26.1.1999 n. 704, in Resp. civ., 1999, 389; Cass. 4‐12‐1997 n.
12334, in Foro it. Rep., 1997, Lavoro (rapporto), 983; Cass. 11‐7‐1996 n. 6327, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 113; Cass. 27‐4‐1992 n. 5015, in Dir. lav., 1993, II, 115);
(b) quelle decisioni in cui, nel caso di morte traumatica del congiunto, il danno psichico è stato ritenuto esistente e liquidato senza procedere ad alcun accertamento medico legale sulla persona dell’attore (Trib. Milano 2.9.1993, in Riv. it. med. leg., 1994, 513).
Vi è, insomma, una corrente giurisprudenziale che tende a trasformare il danno psichico in un mero contenitore bonne à tout faire, attraverso il quale risarcire i più disparati tipi di pregiudizi, anche puramente morali (Ziviz, Viaggio ai confini del danno psichico, in Resp. civ. prev. 1996, 175‐
176) od esistenziali (Cendon, Appunti sul danno psichico, ivi, 2000, 4).
Questo orientamento non può essere condiviso. In teoria, in virtù della natura “multifattoriale” del danno psichico, è indubbio che qualsiasi condotta contra ius, e qualsiasi evento ingiusto da essa causato, può costituire a sua volta fonte (o almeno concausa) di un disturbo psichico. Però sia l’esistenza del disturbo, sia il nesso causale, debbono essere accertati in concreto, con l’indispensabile apporto del medico legale, e giammai ritenuti esistenti facendo ricorso alle presunzioni semplici (art. 2727 c.c.) o, peggio, a presunzioni assolute. Ogni volta che si ritiene il danno psichico “presunto”, ovvero in re ipsa, sol che sia dimostrata l’esistenza d’un certo fattore causale potenzialmente idoneo a produrlo, si producono almeno tre serie di effetti negativi:
(a) si solleva il danneggiato dall’onere della prova su di lui incombente;
(b) si impedisce al convenuto la possibilità di fornire la prova contraria;
(c) si incentivano le liti pretestuose.
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L’esistenza del nesso causale tra azione lesiva e danno deve quindi essere accertata in concreto, preferibilmente mediante il ricorso alla consulenza tecnica medico‐legale (Giannini e Pogliani, Il danno da illecito civile, 1997, 179). Naturalmente, anche nel caso di danno psichico, è buona norma che il giudice disponga la consulenza non a semplice richiesta dell’attore, ma soltanto quando questi abbia dimostrato almeno il fumus della possibile esistenza d’un danno psichico (sia consentito, sul punto, il rinvio a Rossetti, Il danno da lesione della salute ‐ Biologico, patrimoniale, morale, Padova 2001, 342‐346).
La medicina legale, per accertare l’esistenza del danno psichico e la sua derivazione causale dall’illecito, ricorre normalmente al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (meglio noto come DSM), messo a punto dalla Associazione degli psichiatri americani, e giunto ormai alla sua quarta edizione (DSM‐IV). Il DSM‐IV assolve quindi la funzione di definire la nozione di
“disturbo mentale”, al fine di evitare una eccessiva “psichiatrizzazione” di qualsiasi sbalzo dell’umore (Bogetto e Bellino, Criteri diagnostici in psichiatria, in “L’altra faccia della luna” ‐ Il danno psichico, Atti del convegno svoltosi a Torino il 7.4.2000, Torino, 2000, 15). Per la medicina psichiatrica (alla quale la medicina legale necessariamente fa riferimento), pertanto, non può essere considerato danno psichico:
(a) la reazione che, in un determinato contesto psicosociale, deve considerarsi normale rispetto ad un evento traumatico (e quindi il pianto in conseguenza di una disgrazia; il timore in conseguenza di un pericolo; l’ansia in conseguenza di una incertezza);
(b) la “devianza”, ovvero la consapevole contrapposizione rispetto ai dettami di una società, di una religione, di un gruppo organizzato (e quindi non può considerarsi disturbo psichico la delinquenza, l’eterodossia politica o religiosa, gli atteggiamenti contestatori, e via dicendo; cfr.
Invernizzi‐Garbarini‐Vita, Metodiche diagnostiche, in Brondolo e Marigliano, Il danno psichico, Milano, 1996, 45‐46).
2.5. Danno psichico e vittime secondarie (o “di rimbalzo”)
Il danno psichico, sia esso corpore corpori illatum (come nel caso di lesioni cerebrali causate da un sinistro stradale), oppure nec corpore corpori illatum (come nel caso in cui la vittima sia costretta ad assistere ad una scena violenta o ripugnante), può attingere non soltanto la persona per così dire “destinataria” della condotta dolosa o colposa (c.d. “vittima primaria”), ma anche terze
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persone, rispetto alle quali sussista un qualsivoglia collegamento con la condotta illecita (c.d.
“vittime secondarie”). Così, per fare un esempio assai noto, l’investimento di un pedone può arrecare un danno biologico alla persona investita, ma può causare anche uno shock, e quindi un danno psichico, al prossimo congiunto della persona investita; come pure ad un passante che abbia suo malgrado assistito alla scena.
Sorgono in questi casi due problemi; (a) stabilire se sussista un valido nesso causale, ex art. 41 c.p., tra la condotta illecita ed il danno psichico subìto dalla vittima secondaria; (b) delimitare l’ambito soggettivo delle vittime secondarie.
Del primo problema (sussistenza del nesso causale) si è espressamente occupata la Corte costituzionale, con la sentenza 27‐10‐1994 n. 372 (in Foro it., 1994, I, 3297), giungendo alla ‐ opinabilissima ‐ conclusione che il danno psichico subìto dai congiunti della vittima primaria non può essere risarcito ex art. 2043 c.c., in quanto mancherebbe nella specie uno degli elementi essenziali dell’illecito, cioè la colpa del danneggiante (su tale questione si veda anche supra, il § 2.3). Si è già detto quante e quali critiche tale sentenza abbia sollevato in dottrina. Ai fini che qui rilevano (risarcibilità del danno psichico subìto dalle vittime secondarie), alla soluzione adottata dalla Corte costituzionale sono stati mossi, tra gli altri, due rilievi difficilmente superabili:
(a) da un lato, che l’imprevedibilità la quale esclude la colpa è l’imprevedibilità in astratto, e non quella in concreto; e chi causa ad altri gravi lesioni personali ben può, in astratto, prevedere che il danno della vittima costituirà un evento shockante per i familiari;
(b) dall’altro, che a condividere la tesi propugnata dal giudice delle leggi (essere cioè il danno psichico dei congiunti risarcibile ex art. 2059 c.c.) si giungerebbe alla evidente incongruenza di far dipendere la norma da applicare all’illecito dal titolo di imputazione di quest’ultimo. Infatti, poiché è indubbio che nel caso di sinistro doloso l’autore di esso debba rispondere del danno psichico causato ai parenti della vittima, ne seguirebbe che il danneggiato da atto doloso potrà invocare la maggior tutela di cui all’art. 2043 c.c.; il danneggiato da atto colposo dovrà invece “accontentarsi”
della più blanda tutela di cui all’art. 2059 c.c.: (così Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, 212‐213).
Si è anche ricordato (supra, § 2.3) come la giurisprudenza di merito non abbia seguito la Corte costituzionale sulla problematica strada della risarcibilità ex art. 2059 c.c. del danno psichico alle vittime secondarie. Il danno psichico alla vittima secondaria viene infatti pacificamente liquidato,
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senza neanche più troppo diffondersi in motivazione sulla risarcibilità di questo tipo di danno.
Così, è stato riconosciuto e liquidato il danno psichico subìto da una bambina che aveva perso la madre in un incidente stradale, e che in seguito a tale evento aveva avuto seri disturbi psichici (Trib. Roma 23.12.96, Pafundi c. L’Italica, inedita), e tali conclusioni sono condivise dalla Corte di cassazione, secondo la quale, pur in assenza di una norma espressa, deve ritenersi indubitabile la risarcibilità ex art. 2043 c.c. dei c.d. danni riflessi (Cass. 7‐1‐1991 n. 60, in Foro it., 1991, I, 459).
Col problema in esame (sussistenza del nesso causale tra condotta illecita ed evento lesivo) non va confuso il diverso problema dell’accertamento del nesso causale tra evento lesivo e postumi (temporanei o permanenti). Mentre il primo nesso va accertato alla stregua della causalità giuridica (artt. 40 e 41 c.p.), il secondo va accertato alla stregua dei criteri di causalità medico legali, onde il danno in esame non può mai ritenersi “presunto” per il solo fatto che siano accertate la morte o le gravi lesioni del congiunto dell’attore. Deve ribadirsi ancora una volta che non è possibile ritenere in re ipsa l’esistenza del danno psichico, il quale invece va correttamente dedotto e medicolegalmente accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio (non a caso, come dimostrano recenti studi, la domanda di risarcimento del danno psichico subìto dai congiunti della vittima di lesioni è ormai divenuta una “clausola di stile” negli atti di citazione, ma raramente tale domanda viene suffragata da adeguati riscontri probatori, ed in molti casi non è difficile scorgere dietro la proposizione di tali domande un uso pretestuoso o emulativo dello strumento processuale; si veda al riguardo Bargelli, Linee di tendenza della giurisprudenza di merito in tema di risarcibilità del danno psichico “da morte” dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 372/1994, in Danno e resp., 1999, 156‐157).
Il secondo dei problemi sopra accennati (delimitazione dell’ambito soggettivo delle vittime secondarie) si presenta di più delicata soluzione, e consiste nell’individuare un criterio oggettivo, razionalmente condivisibile, in base al quale selezionare, tra la infinita schiera di soggetti potenzialmente vulnerabili dall’atto illecito compiuto nei confronti della vittima primaria, quelli soli che potrebbero vantare un diritto al risarcimento.
La giurisprudenza edita, sia di legittimità che di merito, non fa registrare casi in cui il danno psichico “di rimbalzo” sia stato liquidato a soggetti diversi dai prossimi congiunti della vittima primaria, sicché un primo punto fermo può essere considerato la necessaria sussistenza di un rapporto di parentela, di coniugio od anche di convivenza more uxorio tra la vittima secondaria
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e quella primaria. In costanza di tale rapporto, il danno psichico alla vittima secondaria è senz’altro risarcibile. Secondo parte della dottrina, anzi, quello del rapporto di parentela sarebbe l’unico criterio utilizzabile per individuare la cerchia delle vittime secondarie aventi diritto al risarcimento. Infatti soltanto rispetto agli stretti congiunti sarebbe ipotizzabile la prevedibilità dell’evento dannoso da parte dell’offensore, mentre quest’ultimo non potrebbe mai prefigurarsi un danno psichico riflesso a carico di un ignaro passante. Di conseguenza, mancando nei confronti dei “non‐congiunti” la prevedibilità dell’evento dannoso, non sarebbe ipotizzabile alcuna colpa a carico del danneggiante (Navarretta, op. ult. cit., 212).
3. Il danno morale
Come noto, l’art. 2059 c.c. consente la risarcibilità dei danni “non patrimoniali”, limitandola però ai soli casi previsti dalla legge. I casi previsti dalla legge sono, principalmente, quelli in cui il fatto dannoso deriva:
(a) dalla commissione di una fattispecie criminosa (art. 185 c.p.);
(b) dall’uso di espressioni offensive negli scritti difensivi durante un procedimento civile (art. 89 c.p.c.);
(c) dall’impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali (art. 29, comma 9, l. 31.12.96 n.
675);
(d) dall’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi (art. 44, comma 7, d. lgs.
25.7.98 n. 286).
Quando ricorre l’ipotesi sub (a), per la risarcibilità del danno morale non è necessario che l’autore del reato sia noto, né che sia imputabile, né che sia stato condannato con sentenza passata in giudicato, né che l’azione penale sia procedibile. Il danno in questione può infatti essere liquidato anche:
(a) quando il reato è estinto (ad esempio, per amnistia o prescrizione); in questi casi, sarà il giudice civile investito della domanda risarcitoria ad accertare l’esistenza del fatto‐reato (Cass.
23‐6‐1999 n. 6400, in Foro it. Rep., 1999, Giudizio (rapporto), n. 19);
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(b) quando l’azione è improcedibile per mancanza di querela (anche in questi casi, l’accertamento dell’esistenza del fatto‐reato spetta al giudice civile: Trib. Messina 25‐11‐86, in Dir e prat. ass., 1987, 382);
(c) quando il fatto‐reato è stato commesso da soggetto non imputabile (Cass. 20‐11‐1990 n.
11198, in Foro it. Rep., 1990, Danni civili, 82).
E’ invece esclusa la risarcibilità del danno morale o quando non viene accertata la sussistenza di alcun reato, ovvero quando la responsabilità del danneggiante è affermata non in base ad un accertamento oggettivo dei fatti, ma in base ad una presunzione di legge, ad esempio, ex artt.
2048‐2054 c.c. (ex plurimis, Cass. 2‐10‐1998 n. 9794, in Foro it. Rep., Responsabilità civile, 315;
Cass. 25‐9‐1998 n. 9598, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 137; Cass. 21‐4‐1998 n. 4030, in Arch.
circolaz., 1998, 774; Cass. 11‐3‐1998 n. 2674, in Foro it. Rep.; 1998, Danni civili, 139; Cass. 18‐7‐
1997 n. 6632, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 154; Cass. 27‐6‐1997 n. 5781, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 153).
3.1. Legittimazione
Legittimato a domandare il risarcimento del danno morale è la vittima del reato. Per lunghissimo tempo, la Corte di cassazione era stata unanime nel tenere fermo questo principio e negare, di conseguenza, che i prossimi congiunti della vittima potessero pretendere il risarcimento del danno morale (Cass. 21.5.1996 n. 4671, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 935; Cass. 17.11.1997 n.
11396, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 108; Cass. 17.10.1992 n. 11414, in Arch. circolaz., 1993, 158; Cass. 16.12.1988 n. 6854, in Giur. it., 1989, I, 1, 962; Cass. 21.5.1976 n. 1845, in Giust. civ., 1976, I, 1652).
Tuttavia qualche anno fa, con un clamoroso revirement, la III sezione civile della S.C. ha abbandonato l’orientamento tradizionale, ammettendo che anche i prossimi congiunti della vittima possono pretendere il risarcimento del danno morale, a condizione che ne alleghino e ne dimostrino (anche in via presuntiva) l’effettiva esistenza (Cass. 23.4.1998 n. 4186, in Riv. giur. circ.
trasp., 1999, 699; Cass. 1.12.1999 n. 13358; Cass. 19.5.1999 n. 4852).
Il nuovo orientamento di cui si è detto ha aperto un contrasto in seno alla Corte di legittimità: da esso, infatti, ha apertamente dissentito la Sezione lavoro, secondo la quale il danno morale subito
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dai congiunti della vittima del reato sarebbe un danno indiretto, e perciò irrisarcibile ex art. 1223 c.c. (Cass. 23.2.2000 n. 2037).
Tale contrasto, tuttavia, è stato risolto dall’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno optato per la tesi più recente, ammettendo la risarcibilità del danno morale ai prossimi congiunti del leso (Cass. 1.7.2002 n. 9556, in Dir e giust., 2002, fasc. 34, 21, con nota di Rossetti, Vittime secondarie e risarcimento del danno morale da lesioni personali). Le Sezioni Unite, nella sentenza appena citata, hanno negato che il danno morale sofferto dai congiunti della vittima di lesioni personali possa considerarsi un danno “di rimbalzo”, cioè un danno indiretto. Si tratta, invece, di un danno diretto, in quando immediata propagazione del fatto illecito, a quest’ultimo riconducibile ai sensi dell’art.
40 c.p.. In questo modo, la Corte ha eliminato una evidente distonia nella propria giurisprudenza.
Infatti l’obiezione secondo cui la sofferenza morale dei congiunti del leso sarebbe una conseguenza solo mediata ed indiretta dell’illecito, si poneva in contrasto proprio con le soluzioni e le definizioni adottate dalla S.C., quando si era trattato di accertare l’esistenza del nesso causale al di fuori del tema del danno morale. Secondo la Corte, infatti, il nesso di causalità tra condotta illecita ed evento di danno deve ritenersi sussistente in tutti i casi in cui, valutando gli elementi della fattispecie, possa ritenersi che il fatto era obiettivamente e concretamente (cioè con riferimento a quel singolo caso contingente) idoneo a produrre l'evento (Cass. 11‐9‐98 n. 9037, in Riv. giur. circ. trasp., 1999, 86).
Deve tuttavia segnalarsi che, nella medesima sentenza, la S.C. ha avvertito la necessità di precisare a quali condizioni (di massima) i congiunti della vittima di lesioni possono pretendere il risarcimento del danno morale. I princìpi fissati al riguardo dalle Sezioni Unite possono così riassumersi:
(a) esclusione di qualsiasi ricorso al fatto notorio, od altro “automatismo risarcitorio”: il danno morale del congiunto va dunque allegato e dimostrato, magari anche per presunzioni semplici (ex art. 2727 c.c.);
(b) esclusione di qualsiasi corrispondenza biunivoca tra l’esistenza del rapporto di parentela e l’esistenza del danno: così, anche un terzo potrebbe invocare il risarcimento del danno in esame, ove dimostri l’esistenza di uno stabile legame affettivo con la vittima delle lesioni ad esempio, il convivente more uxorio); per contro, nulla potrà liquidarsi a titolo di danno morale al congiunto, ove si dimostri che il rapporto di parentela non implicava un sottostante legame affettivo.
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Naturalmente, l’esistenza d’un rapporto di parentela, specie se stretto, potrà pur sempre fondare una presunzione (ex art. 2727 c.c.) di sussistenza del legame affettivo tra vittima e congiunto, e quindi di sussistenza del danno morale per quest’ultimo. L’esistenza di tale rapporto, pertanto, inciderà sicuramente sul riparto dell’onere della prova, nel modo che segue: (a) se il danno morale è lamentato da strettissimi con giunti e conviventi (padre, madre, coniuge, figlio), l’esistenza stessa del rapporto coniugale o parentale è idonea a far presumere l’esistenza del danno morale, e spetterà al convenuto dedurre e dimostrare che nella specie mancava un qualsiasi vincolo affettivo tra l’attore ed il leso; (b) se il danno morale è lamentato da congiunti non prossimi (avi, zii, cugini, nipoti), ovvero da terzi (convivente, fidanzato, amico), sarà per contro onere dell’attore dimostrare l’esistenza del legame affettivo con la vittima, e di conseguenza la propria sofferenza morale.
3.2. Liquidazione
Per la liquidazione del danno morale non esiste alcun criterio obiettivo, ma solo parametri di riferimento. Principio generalissimo, sul punto, è che la liquidazione del danno morale da lesione della salute deve essere compiuta valutando tutte le circostanze del caso concreto, ed al di fuori di ogni automatismo (Cass. 19‐1‐1999 n. 475). Pertanto, nella motivazione della sentenza, il giudice non può mai limitarsi ad adottare formule del tipo “si ritiene equo”, ma deve indicare gli elementi dei quali ha tenuto conto nella liquidazione del danno.
Il primo e principale elemento che il giudice deve valutare, ai nostri fini, è rappresentato dalla entità oggettiva del danno. Facendo leva sulla violazione del principio in esame, la Corte di cassazione ha ritenuto di potere riesaminare persino la scelta equitativa compiuta dal giudice del merito con valutazione di fatto, quando essa sia “manifestamente simbolica” (Cass. 21.5.1996 n.
4671, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 927; in quel caso, il giudice del merito ‐ con la decisione cassata dalla S.C. ‐ aveva liquidato nella somma di 5 milioni di lire il danno morale subìto da una persona che, in seguito ad un sinistro stradale, aveva perso l’uso delle gambe). La Corte ha cassato tale decisione, osservando
Più problematico è stabilire se nella valutazione del danno morale da lesione della salute possa tenersi conto dalla entità della colpa del responsabile. La soluzione a tale quesito è embricata con un formidabile problema di teoria generale, quello della funzione del risarcimento del danno
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morale. Se, infatti, si annette al risarcimento una funzione unicamente satisfattoria, il grado della colpa del responsabile non può essere valutato per modulare il risarcimento, in quanto la sofferenza della vittima (e quindi la somma necessaria per compensare con utilità alternative tale sofferenza) resta la medesima, quale che sia la colpa dell’offensore. Se, invece, si ammette che il risarcimento del danno morale possa avere anche una funzione sanzionatoria e dissuasiva, ben a ragione il grado della colpa deve essere valutato per la relativa liquidazione, in quanto è normale che la sanzione sia proporzionale allo stato soggettivo del responsabile.
La Corte di legittimità, sul punto, ha fornito indicazioni non sempre coincidenti.
In un caso, chiamata a valutare la decisione con la quale un giudice di merito aveva contenuto entro valori modesti la liquidazione del danno morale, sul rilievo che il grado di colpa del responsabile era assai modesto, la Corte ha confermato la decisione, osservando che “ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale l'accertamento della responsabilità esclusiva non è inconciliabile con la valutazione del grado di colpa (Cass. 29.11.1999 n. 13336, in Riv. giur. circ.
trasp., 2000, 314).
In altre decisioni, tuttavia, la Corte aveva in varie occasioni ritenuto che il risarcimento del danno morale non ha alcuna funzione sanzionatoria, (Cass. 14‐10‐1997 n. 10024, in Arch. circolaz., 1998, 149; Cass. 14.2.2000 n. 1633).
E tuttavia, nel momento in cui si ammette la graduabilità del quantum del danno morale in funzione del grado di colpa del responsabile, inevitabilmente si assegna al risarcimento del danno morale una funzione anche sanzionatoria. Così, per fare un esempio, la sofferenza derivante da una splenectomia appare la medesima, sia che la lesione derivi da un sinistro stradale causato con colpa grave, sia che derivi da un sinistro dovuto a colpa lievissima. Se dunque si consente che, nel primo caso, il risarcimento sia maggiore, la maggiorazione non può avere la funzione di soddisfare la vittima (uguale essendo, nei due casi, la sofferenza), ma all’evidenza quella di punire il responsabile.
Sembra dunque esservi una inespressa contraddizione tra l’affermare, da un lato, che del grado di colpa del responsabile debba tenersi conto nella liquidazione del danno morale; e dall’altro che il risarcimento del danno medesimo non ha funzione sanzionatoria.
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Non utilizzabili come parametro di riferimento per la valutazione del danno morale, sono state ritenute le condizioni familiari e sociali del soggetto leso, in quanto insuscettibili di incidere sull’entità della sofferenza (Cass. 14‐10‐97 n. 10024, in Arch. circolaz., 1998, 149).
Una considerazione a parte, per la indubbia delicatezza dell’argomento, merita l’esame di un ulteriore criterio, recentemente ritenuto valido dalla Corte di legittimità, per la liquidazione del danno morale da lesione della salute: quello della realtà socioeconomica ove vive il danneggiato.
In una recente decisione, infatti, la S.C. ha ammesso la validità di un criterio di liquidazione del danno morale che “abbatta” la aestimatio in funzione delle condizioni socioeconomiche del luogo di residenza del danneggiato (Cass. 14.2.2000 n. 1637, Dir. & giust., 2000, fasc. 7, 12).
L’orientamento inaugurato dalla sentenza ora citata presta tuttavia il fianco a varie obiezioni.
In primo luogo, esso si fonda su un assunto (il danneggiato spenderà il risarcimento nel luogo dove vive) indimostrato ed indimostrabile: perciocché, dal fatto noto che il danneggiato viva in una determinata zona, non può legittimamente desumersi né come, né dove, né quando egli spenderà il risarcimento ricevuto.
In secondo luogo, l’ammissibilità di abbattimenti del risarcimento proporzionali alla ricchezza della regione abitata dal danneggiato, potrebbe indurre le parti a manovre poco corrette per
“scegliersi” il giudice: ad esempio, da parte degli assicuratori, spostare la propria sede nelle zone più depresse del Paese.
Infine, non appare condivisibile la relazione stabilita dalla Corte tra entità del risarcimento e zona dove esso “è presumibilmente destinato ad essere speso”. Infatti, se il ritenuto collegamento tra la pecunia doloris e l’uso che il danneggiato ne farà fosse valido, esso potrebbe essere portato a conseguenze estreme: il risarcimento, cioè, potrebbe essere modulato in funzione non soltanto del luogo, ma anche del tempo in cui sarà speso (con problematiche presunzioni circa la propensione al consumo del danneggiato), ovvero in funzione delle caratteristiche soggettive del creditore, sicché il prodigo dovrebbe essere risarcito più dell’avaro, e lo stoico meno dell’epicureo.
La evidente paradossalità di queste conseguenze rivela la debolezza della premessa, e cioè che il risarcimento del danno morale possa variare in funzione del luogo “ove sarà presumibilmente speso”.
3.3. Il danno morale da morte del congiunto
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Ai congiunti di una persona deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito spetta, iure proprio, il risarcimento del danno morale da essi direttamente sofferto, in conseguenza della scomparsa della persona cara (Cass. 25.2.97 n. 1704, in Riv. giur. circ. trasp., 1997, 316).
Nella liquidazione del danno morale sofferto per la morte del congiunto, l’interprete è chiamato a risolvere principalmente due problemi: (a) quali siano i soggetti legittimati a domandare il risarcimento; (b) quali siano i criteri di liquidazione del danno.
Per quanto attiene ai soggetti legittimati, è pacifico che tali siano tutti i più stretti congiunti della vittima (coniuge, genitori, figli, fratelli). Pacifica è pure la risarcibilità del danno morale in favore del convivente more uxorio, purché dimostri la stabilità e la durevolezza del rapporto (App.
Milano 16‐11‐1993, in Foro it., 1994, I, 3212; in Dir. econ. ass., 1994, 249; in Arch. circolaz., 1994, 1067; Trib. Roma 9‐7‐1991, in Riv. giur. circ. trasp., 1992, 138). La risarcibilità del danno morale è stata invece esclusa per il coniuge separato, quando sia dimostrata l’esistenza tra i coniugi di un profondo dissidio al momento della morte di uno di essi (Trib. Venezia 22‐1‐1994, in Riv. giur. circ.
trasp., 1994, 862).
La giurisprudenza ammette che il risarcimento possa essere domandato anche da altri parenti, e pure se non conviventi, ma a condizione che dimostrino da essere legati allo scomparso da un intenso vincolo affettivo (Trib. Roma (ord.) 25.11.1997, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 90; Trib.
Viterbo 24.1.1997, Giurispr. romana, 1997, 421; in ambedue le decisioni ora citate è stato liquidato il danno morale in favore del nipote ex fratre; Trib. Trento 19.5.1995, in Riv. giur. circ. trasp., 1995, 782).
Per quanto attiene, invece, ai criteri di liquidazione del danno morale sofferto per la morte del congiunto, è spiacevole ammettere che la giurisprudenza è ancora ben lungi dall’adottare criteri anche solo simili, non che identici.
In linea di principio, tutti le decisioni di merito concordano con la S.C. nell’affermare che il danno morale da morte va liquidato tenendo conto dell’età del defunto, di quella dei congiunti, della presumibile intensità del dolore da questi sofferto.
Se però si passa ad esaminare in che modo tali princìpi trovano applicazione nei casi concreti, si registra un rilevante disparità di trattamento tra i vari uffici giudiziari, come risulta dalla seguente tabella:
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Anno IX Tribunale Risarcimento del danno
morale per la morte del coniuge non separato
Risarcimento del danno morale per la morte di un
figlio convivente
Ancona da 60 a 150 da 70 a 130
Belluno 200 300
Bologna da 140 a 200 da 160 a 250
Cosenza da 80 a 160 da 45 a 140
Lecce da 80 a 120 da 75 a 110
Livorno da 100 a 300 da 200 a 400
Roma 264,7 264,7
Torino 164 da 120 a 174
Venezia da 110 a 160 da 65 a 110
Vicenza da 105 a 160 da 63 a 105
(i valori sono tratti da Guida al dir., 2000, dossier mensile n. 6, e sono espressi in milioni di lire).
3.3. Danno psichico e danno morale
E’ possibile, a questo punto, provare a tracciare una linea di demarcazione tra danno psichico e danno morale.
Quest’ultimo viene tradizionalmente definito come il turbamento psichico soggettivo e transeunte, causato dall’atto illecito. Il danno morale, più esattamente, viene identificato con la
“sofferenza”, cioè con lo stato di prostrazione ed abbattimento provocato dall’evento dannoso.
Anche il danno morale quindi, come la lesione psichica, costituisce un pregiudizio sine materia, un qualcosa che non si può vedere o toccare con mano, ma del quale si possono soltanto constatare gli aspetti esteriori.
Tuttavia danno morale e danno psichico differiscono profondamente, e devono continuare ad essere tenuti distinti, se non si vuole correre il rischio di considerare come danno alla salute qualsiasi fatto che muti l’umore del soggetto. Distinguere danno morale e danno psichico, almeno a livello teorico, non è difficile. Le differenze strutturali tra le due figure di danno sono essenzialmente due.
In primo luogo, il danno psichico deve fondarsi su una patologia, cioè su una alterazione patologica delle funzioni psichiche dell’individuo, patologia che deve essere a sua volta nota alla psichiatria, e medicolegalmente accertabile. Il danno morale al contrario, non costituisce una
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malattia: è fonte di sofferenza per il danneggiato, ma non altera in senso patologico le sue funzioni psichiche (Ziviz, Viaggio ai confini del danno psichico, in Resp. civ. prev. 1996, 176).
In secondo luogo, diversi sono gli effetti (o, secondo altri, i “contenuti”) delle due nozioni di danno. Il danno psichico, in quanto danno biologico, per definizione sussiste quando il danneggiato, per effetto della lesione, è costretto a rinunciare, in tutto od in parte, ad alcune tra le attività esistenziali cui era solitamente dedito prima del sinistro. Il danno morale, al contrario, non comporta una perdita od una riduzione di attività esistenziali, ma soltanto una sensazione di dolore (Giannini e Pogliani, Il danno da illecito civile, 1997, 186‐187).
La differenziazione tra danno psichico e danno morale va dunque ricercata nei presupposti (presenza d’una patologia nel primo caso; assenza di patologie nel secondo caso) e nei contenuti (limitazione di attività esistenziali nel primo caso; nessuna limitazione nel secondo caso), e non già nella mera quantità od intensità della sofferenza provata dal danneggiato. Apparentemente chiari nella teoria, questi princìpi divengono di problematico accertamento nella pratica. Qualche giudice di merito, ad esempio, ha ritenuto che le sofferenze derivate dal lutto per la morte del figlio, quando costringono il danneggiato a mutare o interrompere la propria vita di relazione, vadano valutate e considerate come danno biologico di natura psichica anche se tali da non determinare l'insorgenza di vere e proprie patologie psichiche (in quel caso, i genitori del defunto avevano interrotto la convivenza coniugale, trasferendosi in due località diverse: Trib. Orvieto 7‐
11‐97, in Arch. circolaz, 1997, 1001). Questa conclusione non appare però condivisibile, in quanto delle due l’una: o la sofferenza morale degenera in patologia psichica, ed allora sussisterà un danno psichico risarcibile; ovvero la sofferenza, per quanto grande ed inconsolabile, non degenera in patologia psichica, ed allora non vi sarà alcun danno psichico risarcibile. Pertanto la sofferenza morale che non determina una patologia psichica, e medicolegalmente accertabile, non costituisce danno psichico (così ancora Navarretta, op. ult. cit., 1996, 408).
4. Il danno esistenziale.
4.1. Le definizioni dottrinarie
Il danno esistenziale, per chi ne sostiene l’esistenza e la risarcibilità, costituisce una categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali diversi da quelli morali, che riassorbe in sé il danno
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biologico, quello alla vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, eccetera (Ziviz, Alla scoperta dal danno esistenziale, in Contr. e impr., 1994, 864‐865).
Secondo i sostenitori della tesi in esame, il danno esistenziale si differenzia da tutti e tre i consueti tipi di danno:
(‐) da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche o del corpo;
(‐) da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza (la quale, ovviamente, può essere indotta dal danno, ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad una attività concreta;
(‐) da quello patrimoniale, in quanto esso può sussistere a prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio. E’ stato icasticamente osservato, a questo riguardo, che il danno morale si identifica con “le lacrime”, il danno esistenziale si identifica in una “rinuncia al fare”
(Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139).
Il danno esistenziale viene dunque configurato come un pregiudizio areddituale (in quanto il relativo risarcimento prescinde del tutto dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento.
I sostenitori della nozione di danno esistenziale precisano altresì che la nuova figura non viola (o meglio, non aggira) il disposto dell’art. 2059 c.c.. Si sostiene, infatti, che la rigida dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, voluta dal legislatore del 1942 ed incentrata sugli artt. 2043‐
2059 c.c., è definitivamente entrata in crisi con l’emersione della nozione di danno biologico: di un danno, cioè, tipicamente non patrimoniale, ma ritenuto risarcibile e sottratto all’ambito di applicabilità dell’art. 2059 c.c.. L’affermata risarcibilità ex artt. 2043 c.c. e 32 cost. del danno biologico dimostrerebbe che non esiste una irrisarcibilità assoluta dei danni non patrimoniali non causati da reato. Insomma, il diritto vivente per come elaborato dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità ha sempre di più eroso l’ambito di applicazione dell’art.
2059 c.c., sicché occorre prendere atto che esiste oggi non una, ma molteplici categorie di danni non patrimoniali: di queste, sono soggette alla limitazione di cui all’art. 2059 c.c. soltanto i danni non patrimoniali consistenti in sofferenze dell’animo (i danni morali propriamente detti), mentre
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la suddetta limitazione non sussiste per le altre categorie di danni non patrimoniali (Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e resp., 1999, 6).
La risarcibilità del danno esistenziale viene fondata dunque puramente e semplicemente sul disposto dell’art. 2043 c.c., secondo un sillogismo argomentativo che può così riassumersi: (a) lo svolgimento di attività non remunerative costituisce un interesse dell’individuo, che l’ordinamento tutela; (b) la lesione della possibilità di svolgere tali attività costituisce di conseguenza un danno ingiusto ex art. 2043 c.c.; (c) l’ingiustizia del danno ne comporta necessariamente la risarcibilità.
4.2. I riscontri giurisprudenziali
I sostenitori della categoria del danno esistenziale adducono, a sostegno della validità di essa, una serie di decisioni giurisprudenziali, solitamente distinte in due gruppi:
(a) quelle che hanno fatto espresso riferimento al “danno esistenziale”;
(b) quelle che hanno di fatto liquidato un danno esistenziale (cioè un danno non patrimoniale asseritamente diverso da quello morale), ma problematicamente etichettandolo con una categoria nota (biologico, patrimoniale, ecc.) o creata ad hoc (danno edonistico, danno da perdita del rapporto parentale, ecc.).
Esaminiamo ora più da vicino queste decisioni, distinguendo quelle di legittimità da quelle di merito.
(A) La giurisprudenza di legittimità
Tra le sentenze favorevoli alla risarcibilità del danno esistenziale viene solitamente citato il decisum di Cass., 7‐6‐2000, n. 7713 (in Danno e resp., 2000, 835, con note di Monateri, “Alle soglie”:
la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata, nonché in Dir. e giust., 2000, fasc. 23, 23, ed ivi, fasc.
24, 4, con nota di Rossetti, Messa da requiem per il 2059 c.c. se passa la linea del “danno in sé”).
In questa decisione, la S.C. ha affermato che la lesione di uno qualsiasi dei diritti fondamentali della persona, anche a prescindere dalla commissione di un reato, è causa di un danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c., che va risarcito in via equitativa in aggiunta rispetto agli eventuali pregiudizi patrimoniali (nella specie, è stato ritenuto che il mancato adempimento, da parte del
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genitore, degli obblighi di assistenza della prole, produce a quest’ultima un “danno esistenziale”, che si aggiunge a quello morale ed a quello patrimoniale).
Tale decisione è stata indirettamente corroborata, più di recente, da Cass. 3.4.2001 n. 4881, in Guida al dir., 2001, fasc. 19, e da Cass., 10‐5‐2001, n. 6507, in Dir. & giust., 2001, fasc. 22, 15, con nota di Rossetti, Risarcita la lesione della reputazione senza prova del danno patrimoniale. Anche secondo queste due sentenze (nelle quali comunque non si parla mai di “danno esistenziale”), dovute al medesimo estensore, la lesione dei diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti, costituisce un danno risarcibile ex art. 2043 c.c., che si aggiunge sia al danno morale, sia a quello patrimoniale.
Non può essere ovviamente questa la sede per sottoporre a vaglio critico il nuovo orientamento della S.C.. Quel che preme rilevare, tuttavia, è che nessuna delle sentenze appena citate costituisce un elemento decisivo a sostegno della tesi del danno esistenziale.
Tutte e tre queste decisioni, infatti, richiamano più o meno ampiamente la motivazione di Corte cost. 184/86, cioè della sentenza con la quale la Corte costituzionale dichiarò, per la prima volta, la risarcibilità del danno biologico, in base al combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 c.c..
La Corte di cassazione, con le sentenze del 2000‐2001, non ha fatto che applicare lo schema utilizzato per affermare la risarcibilità del danno biologico anche ad altri diritti costituzionalmente rilevanti. Anche nel caso di lesione di questi ultimi, si afferma, il combinato disposto degli artt.
2043 c.c. e 2 cost. (o comunque della norma costituzionale che sancisce il diritto violato dall’altrui illecito) dà diritto ad un autonomo risarcimento del danno, secondo la teoria del “danno‐evento”
(supra, § 1.2).
Sembra, tuttavia, che la Corte di legittimità abbia trascurato di considerare che la Consulta aveva successivamente abbandonato sia la distinzione tra “danno evento” e “danno conseguenza”, sia il principio secondo cui la lesione di un diritto costituzionalmente protetto fosse risarcibile di per sé, a prescindere dalle conseguenze che tale lesioni abbia cagionato (cfr. Corte costit., 27‐10‐1994, n.
372, in Giust. civ., 1994, I, 3029, con nota di BUSNELLI, Tre «punti esclamativi», tre «punti interrogativi», un «punto e a capo»).
E questo assunto era stato ribadito anche dallo stesso giudice di legittimità, che aveva osservato (con riferimento al danno biologico, ma le conclusioni non cambiano rispetto a qualsiasi altro tipo