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Breve commento alla sentenza del tribunale di Napoli N. 1317 del 30/01/98

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Breve commento alla sentenza

del tribunale di Napoli N. 1317 del 30/01/98

Marco Rossetti*

La sentenza che precede scandisce un articolato sillogismo che può così sintetizzarsi:

a) commette un illecito aquiliano, consistente nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, il medico il quale omette di informare il proprio paziente sui rischio dell’intervento che sta per compiere;

b) tale illecito fa sorgere l’obbligo del risarcimento del danno, in caso di complicazioni, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito;

c) il consenso, per essere validamente prestato, deve provenire dal paziente, mentre resta del tutto irrilevante il consenso prestato da un congiunto - anche stretto - del paziente stesso, salvo che quest’ultimo non fosse capace di intendere e di volere.

Ciascuno dei princìpi suddetti costituisce l’espressione di una tendenza giurisprudenziale che può ritenersi ormai consolidata.

Il principio secondo cui l’intervento chirurgico o terapeutico compiuto senza il consenso del paziente costituisce un atto illecito, è stato più volte affermato dalla Suprema Corte, e si fonda sull’assunto secondo il quale in mancanza di informazione il consenso non sarebbe consapevole, e dunque l'intervento sarebbe impedito al chirurgo:

a) dall'art. 32, 2º comma, cost., a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;

b) dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica;

c) dall'art. 33 l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.) (Cass., sez. III, 25- 11-1994, n. 10014, in Foro it. Mass. 1994; Trib. Roma, 10-10-1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 337; Trib. Genova, 20-07-1988, Foro pad., 1989, I, 172).

E’, dunque, partendo dall’assunto della autonoma illiceità dell’intervento compiuto senza il consenso informato del paziente, che il tribunale partenopeo può giungere ad affermare la sussistenza della responsabilità del medico, anche se l’intervento sia stato correttamente eseguito.

La illiceità della condotta del medico infatti non viene fatta consistere nell’essere stato imperito od imprudente o negligente, ma nell’avere violato la libertà di autodeterminazione del paziente, impedendogli di effettuare una scelta consapevole ed informata.

Va piuttosto osservato che, nel caso di specie, il medico convenuto aveva allegato di essere stato indotto dal marito della paziente a tacere a quest’ultima l’esistenza di metastasi, sicché l’informazione dovuta alla paziente era stata fornita al marito di quest’ultima. In teoria, potrebbe forse dubitarsi se una tale condotta integri o meno gli estremi dello stato di necessità, con conseguente riduzione del risarcimento: tuttavia nel

* Magistrato Tribunale di Roma

Tagete n. 4-1998 Ed. Acomep

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caso in questione tale esame sarebbe stato superfluo, giacché il medico convenuto non aveva provato la veridicità del proprio assunto.

Va comunque ricordato che, secondo il giudice di legittimità, il consenso può essere validamente prestato dal congiunto del paziente soltanto quando quest’ultimo sia incapace di intendere e di volere (Cass., sez. III, 08-11-1994, n. 9261, in Foro it. Mass., 1994).

Ineccepibile quindi sotto il profilo della ricostruzione della responsabilità ascritta ai convenuti, la sentenza può forse suscitare qualche perplessità sotto il profilo della liquidazione del danno.

Nella sentenza infatti viene liquidata una somma a titolo di risarcimento del danno morale anche ai congiunti della paziente. A questi ultimi, inoltre, viene liquidata una somma anche a titolo di risarcimento del danno biologico.

La questione della risarcibilità del danno morale ai congiunti del macroleso è questione probabilmente non destinata a sopire nei prossimi anni. Ciò che tuttavia qui può rilevarsi, come osservazione assolutamente preliminare e senza pretesa di completezza, è che - piaccia o non piaccia - il risarcimento del danno morale resta disciplinato dall’art. 2059 c.c., e tale norma condiziona la risarcibilità del danno morale alla commissione di un reato. Va da sé che titolare del diritto al risarcimento può essere solo la vittima del reato. Nel caso di lesioni personali gravi vittima del reato è il leso, e non i suoi congiunti, e solo al primo spetta il risarcimento del danno morale.

L’osservazione del tribunale, secondo la quale “danneggiato da un fatto illecito è sia il soggetto che ebbe a subire la lesione, sia chiunque altri abbia risentito, in conseguenza di quel fatto illecito, un qualsiasi momento di varia natura ed entità” sembra dimenticare che il risarcimento del danno è disciplinato dall’art. 1223 c.c., il quale esclude dalla risarcibilità i danni che non siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

Appare invece del tutto erronea l’affermazione secondo cui il danno morale, al pari del danno biologico, costituisce un danno-evento, immanente al fatto illecito. Al di là delle osservazioni che potrebbero muoversi - e che sono state mosse da autorevole dottrina - circa l’utilità di conservare ancora oggi la tesi carneluttiana della distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, deve rilevarsi comunque che la stessa Corte costituzionale nella sentenza 14.7.19886 n. 184 (la quale costituì il più importante avallo giurisprudenziale alla tesi di Carnelutti, per il resto poco seguita dalla giurisprudenza) basò tutta la propria ricostruzione del “danno biologico” proprio sul presupposto che quest’ultimo, a differenza del danno morale, era un danno-evento, e dunque non rientrava nella previsione di cui all’art. 2059 c.c.: scrisse in quel caso la Consulta: “Il danno morale subiettivo, che si sostanzia nel transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso, è danno-conseguenza, in senso proprio, del fatto illecito lesivo della salute e costituisce, quando esiste, condizione di risarcibilità del medesimo;

il danno biologico è, invece, l'evento, interno al fatto lesivo della salute, deve necessariamente esistere ed essere provato, non potendosi avere rilevanza delle eventuali conseguenze esterne all'intero fatto (morali o patrimoniali) senza la completa realizzazione di quest'ultimo, ivi compreso, ovviamente, l'evento della menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto offeso”.

Azzardato appare, pertanto, affermare oggi che il danno morale costituisca un danno- evento.

Parimenti, numerose perplessità potrebbe suscitare l’affermazione secondo cui ai congiunti della paziente, rimasta paralizzata dopo l’intervento, spetta il risarcimento del danno biologico.

Tagete n. 4-1998 Ed. Acomep

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E ciò non tanto per il principio in sé, del tutto logico e coerente, quanto per la circostanza che, nel caso di specie, non sembra che i congiunti avessero documentato e provato una lesione dell’integrità psicofisica, presupposto minimo indefettibile per potere far luogo al risarcimento del danno biologico.

Nel caso di specie, invece, il tribunale ha aderito ad una sorta di presunzione juris et de jure dell’esistenza del danno biologico in capo ai prossimi congiunti, muovendo dalla sola gravità delle lesioni, e dilatando così in modo inammissibile il dettato dell’art.

2727 c.c..

La lesione soprattutto dell’integrità psichica, proprio per la delicatezza degli accertamenti che essa richiede, non può essere presunta dal giudice, ma dovrebbe essere accertata da uno specialista medico legale. Pertanto affermare, come ha fatto il tribunale partenopeo, che tale lesione può desumersi dalla soppressione dei rapporti nel consorzio familiare, significa rendere oltremodo diafana ed impercettibile la soglia che separa il danno morale da quello biologico, favorendo il rischio di duplicazioni risarcitorie.

Tagete n. 4-1998 Ed. Acomep

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