la Confederazione generale del lavoro, la quale però, a differenza di quella ricostituita in Italia, ebbe ben pochi contatti con i lavoratori.
Nonostante la loro limitata attività, l’importanza di queste due Confederazioni risiede nel fatto che esse costituirono l’emblema della continuità del movimento sindacale libero durante la dittatura fascista.
Inoltre, nel 1930, durante la Terza Conferenza della Confederazione generale dei lavoratori, tenutasi clandestinamente in Francia, si verificò una svolta importante:
poiché appariva chiaro che, l’opposizione formale alla dittatura fascista non era lo strumento adeguato per ottenere rivendicazioni nell’interesse della classe operaia, si decise di utilizzare le strutture sindacali fasciste, nelle quali la maggior parte dei lavoratori erano organizzati, a vantaggio di questi ultimi.
Così gli operai furono invitati non solo a partecipare alle riunioni, ma a chiederne essi stessi la convocazione nelle fabbriche o, in alternativa, nelle sede indicate dai sindacati fascisti, di modo che tali riunioni fossero legali; si suggerì di chiedere, durante tali riunioni, che l’esame dei contratti di lavoro e, in particolare, la parte economica fosse discussa non dai funzionari del partito fascista, bensì dai Commissari degli operai. Si trattò di una strategia che in numerosi casi diede esiti positivi e fu condotta con costanza fino alla caduta del fascismo.
Non mancarono, inoltre, in questo periodo vere e proprie forme di lotta sindacale, nonostante i divieti che colpivano lo sciopero e le altre forme di azione sindacale. Tra il 1931 e il 1935, numerosi furono gli scioperi, causati dalle riduzioni salariali, dal dilagare della disoccupazione e dall’applicazione nelle grandi fabbriche del sistema Bedaux.
All’inizio del secondo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi, il movimento sindacale libero estese la sua forza organizzata e la sua influenza tra le masse popolari: gli scioperi aventi ad oggetto rivendicazioni di tipo salariale, diventano ben presto veri e propri scioperi politici, che scossero profondamente il regime fascista e rappresentarono un’aperta sfida ad esso.
intensificando gli scioperi e sabotando l’elezione dei consigli di gestione, fino a giungere all’insurrezione e alla lotta armata.
Il 25 luglio 1943 crollò il regime fascista. Il governo Badoglio, subentrato a Mussolini, mantenne inizialmente un atteggiamento ambiguo e per certi versi diffidente nei confronti delle organizzazioni sindacali e politiche, che finalmente uscivano dalla clandestinità; infatti, mantenne si in vita le organizzazioni sindacali, ma nella loro struttura di diritto pubblico tipica del regime fascista52.
Al contempo, tuttavia, entro la fine di luglio ed i primi di agosto, il governo emanò una serie di provvedimenti con cui fece crollare gran parte dell’impalcatura dell’ordinamento corporativo: vennero soppressi il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il Partito nazionale fascista e il Ministero delle Corporazioni..
Non furono, invece sciolte le confederazioni dei lavoratori; per ognuna di esse furono nominati dal Governo un commissario e un vice commissario, su indicazione delle tre maggiori forze politiche (comunista, socialista, democristiana). Alle quattro confederazioni dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e a quella dei professionisti e degli artisti furono designati furono assegnati dei Commissari e dei vicecommissari , tra i quali Buozzi, Roveda, Di Vittorio, Grandi.
Il primo atto compiuto dal movimento sindacale libero, all’indomani della caduta del regime fascista, fu la ricostituzione delle Commissioni interne mediante l’accordo Buozzi-Mazzini, firmato il 2 settembre 1943.
Tale accordo prevedeva l’elezione di Commissioni interne, in tutte le aziende con più di venti dipendenti (tre rappresentanti nelle aziende che avevano alle proprie dipendenze fini a cento dipendenti e sei rappresentanti in quelle che ne avevano da mille a millecinquecento).
Le Commissioni interne, che fungevano da raccordo tra “sindacato esterno” e lavoratori all’interno delle fabbriche, avevano il compito di garantire rapporti pacifici
52 Tale iniziativa trovò consensi negli esponenti della vecchia ala riformista del socialismo italiano, la quale vedeva nella efficacia erga omnes riconosciuta al contratto collettivo una garanzia essenziale per la tutela della classe operaia; ma non dispiaceva neanche alle correnti cristiane e, ciò per una molteplicità di ragioni: in primis, il sindacato unico consentiva di tutelare al meglio gli interessi di categoria, secondariamente rendeva più sicura la stipulazione dei contratti collettivi ed, infine, consentiva di limitare l’attività del sindacato a quella di tutela degli interessi sindacali, evitando che esso tornasse ad essere uno strumento di lotta politica. Sicuramente tale scelta era troppo vicina all’esperienza corporativo-fascista per durare a lungo, ma, d’altro canto, anche quella alternativa, di indirizzo privatistico, non incontrava meno limiti. Infatti, l’idea di un sindacato totalmente libero, non regolato dalla legge e privo di rapporti con lo Stato era inconciliabile con il ruolo che i partiti politici riconoscevano al sindacato e con lo stesso intento sotteso al Patto di Roma: la ricostruzione economica, politica e sociale del Paese.
fra le imprese e i loro dipendenti; inoltre, dovevano partecipare al tavolo delle trattative di stesura dei contratti collettivi e, successivamente, controllare la loro corretta applicazione.
Preparato da lunghe e difficili trattative tra gli esponenti delle maggiori forze popolari (comunisti, socialisti e democristiani), il 3 giugno 1944 fu sottoscritto il Patto di Roma53, che condusse alla costituzione della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL).
Si trattava di un organismo unitario, che, tuttavia, raccoglieva al suo interno concezioni politiche diametralmente opposte.
Se, da un lato, infatti, il partito comunista, alleato di quello socialista, sperava attraverso tale Patto di stringere con la democrazia cristiana un accordo per la realizzazione una linea di condotta comune e, cioè, la riunione di tutte le masse lavoratrici (comuniste, socialiste e cattoliche) per la realizzazione di un nuovo assetto politico, economico e sociale, dall’altro, la democrazia cristiana, invece, sottoscrivendo tale Patto sperava di riuscire ad esercitare, all’interno della nascente Confederazione generale italiana del lavoro, una funzione equilibratrice e direttiva nel momento in cui si fossero dovute assumere decisioni importanti.
Nonostante, però, le differenti motivazioni sottostanti alla sottoscrizione del Patto di Roma, tutti i partiti politici erano d’accordo sull’assoluta necessità di porre alla base della ricostruzione del Paese la più solidale intesa tra tutte le forze sociali. E, infatti, il Patto di Roma rappresentò la prima realizzazione nella storia del movimento sindacale
53 Il testo stabiliva che “Gli esponenti autorizzati delle principali correnti sindacali dei lavoratori italiani, comunista, democratico-cristiana e socialista, in successive riunioni, che hanno avuto luogo clandestinamente prima della liberazione di Roma, hanno proceduto ad un esame approfondito del problema sindacale dell’Italia ancora occupata dall’invasore tedesco e dai suoi complici fascisti. A conclusione di questi lavori, le tre correnti sindacali si sono ritrovate d’accordo nel ritenere che l’unità sindacale è lo strumento più efficace per il potenziamento dell’organizzazione del lavoro, per assicurare la migliore difesa degli interessi economici e morali dei lavoratori e garantire il loro apporto più efficiente all’opera immane di ricostruzione del paese. In conseguenza di ciò è stata unanimemente decisa la realizzazione immediata dell’unità sindacale, mediante la costituzione di un solo organismo confederale, per tutto il territorio nazionale, denominato Confederazione generale del lavoro, d’una sola federazione nazionale per ogni produzione, d’una sola Camera confederale del lavoro per ogni provincia, di un solo sindacato locale e provinciale per ogni ramo e categoria di attività produttiva.
Lasciando impregiudicate le questioni di indirizzo generale dell’organizzazione che saranno esaminate in seguito con la più larga partecipazione possibile degli esponenti sindacali delle varie province liberate, l’accordo raggiunto si può sintetizzare nei punti seguenti: a) ampia democrazia interna con elezione di tutte le cariche dal basso e con la partecipazione proporzionale delle minoranze in tutte gli organismi dirigenti, dal vertice alla base; b) massima libertà di espressione agli aderenti di qualsiasi corrente e rispetto reciproco di ogni opinione politica e fede religiosa; c) indipendenza di tutti i partiti, con facoltà alla Confederazione generale del lavoro di associarsi all’azione dei partiti democratici che sono espressione di masse lavoratrici, sia per la salvaguardia e lo sviluppo della libertà popolare, sia per la difesa degli interessi del lavoro e del paese”.
italiano dell’unità tra forze di diversa e talvolta contrastante ispirazione ideologica e politica.
La Confederazione generale italiana dei lavoratori intendeva realizzare una politica economica generale, organica e tempestiva, in quanto era cosciente che per ricostruire il Paese non poteva incentrare la propria opera esclusivamente sulle rivendicazioni salariali, ma doveva puntare su una strategia di più ampio respiro, che investisse i punti nevralgici dell’economia. La Confederazione unitaria era convinta che le masse lavoratrici dovessero lottare non solo per le questioni strettamente attinenti al rapporto di lavoro che, quindi, li vedevano interessati in prima persona, ma per realizzare, all’indomani della caduta del regime fascista, un paese totalmente rinnovato. Essa fu dotata di un Direttivo e di una Segreteria, entrambi con rappresentanza paritetica.
La posizione della Chiesa dinnanzi a tale Patto era cauta: seppure formalmente lo appoggiò, mantenne viva la preoccupazione che l’unità sindacale potesse costituire uno degli strumenti più efficaci e potenti per estendere l’egemonia comunista fra le masse dei lavoratori.
Spinta da tale preoccupazione, la Chiesa diede vita alle Associazioni cristiane lavoratori italiani (ACLI), che dovevano costituire, in campo sindacale, il punto di riferimento di tutte le masse cattoliche.
La collaborazione sul piano sindacale fra le varie correnti fu proficua e portò all’emanazione di numerosi provvedimenti54, sia sul terreno della contrattazione collettiva sia su quello normativo.
Tuttavia, nonostante la volontà di rimanere coesi fosse forte, ben presto si crearono delle fratture all’interno della Confederazione generale dei lavoratori, che vedevano la democrazia cristiana contrapposta a tutte le altre correnti e, in particolar modo, a quella dei socialisti e dei comunisti.
D’altro che lo spirito unitario, alla base del Patto di Roma, si riducesse quasi esclusivamente ad una comune avversione al regime fascista, lo si intuiva anche dal contenuto della prima dichiarazione scritta, che la Democrazia cristiana rilasciò subito dopo la sottoscrizione del Patto.
In tale dichiarazione, oltre ad un generale richiamo ad alcuni dei temi centrali della ideologia di tale sindacato, si sottolineava particolarmente l’impegno da parte della corrente a realizzare modifiche di struttura di gestione delle imprese, prospettando
54 Si ricordano, tra i più importanti esempi, gli accordi interconfederali in materia di licenziamenti individuali e collettivi, quello sulla “scala mobile”, il riconoscimento costituzionale del ruolo del sindacato nella stipulazione dei contratti collettivi e della loro efficacia erga omnes, il riconoscimento del diritto di sciopero.
l’ipotesi della socializzazione, della partecipazione agli utili, della lotta contro il bracciantato in agricoltura. Si evinceva, insomma, da tale dichiarazione, una concezione “non classista” del sindacato, visto “come mezzo di assorbimento indolore del proletariato nel ceto medio”, in aperto contrasto con la visione che del sindacato avevano, invece, socialisti e comunisti.
Le cause delle tensioni interne alla Confederazione furono molteplici; in primis, vi erano differenti posizioni tra i membri della Confederazione unitaria sull’autonomia tra sindacati e partiti politici.
Un’ulteriore causa era da ricercare nella frattura dell’unità politica antifascista, che si era concretizzata nell’esclusione della sinistra dal Governo a partire dalla Liberazione ed ancora, non meno importante, era la questione attinente alla posizione della ACLI.
In questo clima di tensione, si tenne nel giugno del 1947 a Firenze il primo Congresso nazionale della Confederazione generale dei lavoratori, durante il quale furono trattati i due temi.
Con riguardo al primo dei due problemi, l’autonomia dei sindacati rispetto ai partiti politici, le posizioni tra la corrente democratico-cristiana, da un lato, e quella dei socialisti e comunisti dall’altro, non potevano essere più distanti: la democrazia cristiana voleva limitare il campo di intervento della Confederazione al terreno delle pure rivendicazioni economico-normative, con esclusione di un intervento nel campo politico; viceversa, le altre due correnti ritenevano che la Confederazione dovesse avere voce in capitolo sulle più importanti decisioni politiche, quando queste riguardavano i lavoratori.
Fu comunque raggiunto un compromesso con la modificazione dell’art. 9 dello Statuto della Confederazione55, nel senso di consentire ai sindacati la possibilità di intervento su alcuni problemi, quali la difesa delle istituzioni repubblicane, della democrazia, delle libertà popolari e della partecipazione alla ricostruzione e allo sviluppo economico.
55 Tale compromesso condusse alla modificazione dell’articolo 9 dello Statuto della Confederazione Generale dei lavoratori; la nuova versione prevedeva che “l’indipendenza dei sindacati dai partiti politici e dallo Stato non significa agnosticismo dei sindacati di fronte a tutti i problemi di carattere politico. La Confederazione potrà prendere posizione su quei problemi politici, che interessano non già questo o quel partito, ma la generalità dei lavoratori, come quello della difesa della Repubblica e dello sviluppo della democrazia e delle libertà popolari, quali quelle relative alla legislazione sociale, alla ricostruzione e allo sviluppo economico del Paese. Gli eventuali interventi delle organizzazioni sindacali sui problemi di cui sopra, essendo di carattere eccezionale, potranno effettuarsi soltanto per deliberazione dell’organo dirigente dell’organizzazione interessata regolarmente convocato con la maggioranza dei tre quarti dei componenti presenti”.
Tale compromesso valse a garantire l’unitarietà ancora per qualche anno, ma non a sanare definitivamente i contrasti interni alla Confederazione.
Con riguardo al secondo problema e, cioè, il ruolo sindacale che avrebbero avuto le ACLI, questo fu superato attraverso una dichiarazione dei rappresentanti della corrente democratico-cristiana, nella quale si affermava che le ACLI avrebbero limitato la loro azione al campo assistenziale ed educativo, rimanendo un’organizzazione parasindacale.
Ancora una volta, seppure a fatica, sembrò che l’unitarietà del movimento sindacale fosse stata preservata, mentre di lì a poco essa sarebbe stata spezzata dall’uscita della corrente cristiana dalla Confederazione generale dei lavoratori.
D’altro canto, che l’obiettivo della creazione di un organismo sindacale unitario, quale doveva essere negli intenti la Confederazione, fosse lontano dall’essere stato raggiunto, era ulteriormente dimostrato dal fatto che il Patto di Roma non affrontò, neanche incidentalmente, la questione più importante, ossia quella relativa all’individuazione del tipo di sindacato da ricostruire sulle rovine di quello fascista. Anche in tal caso, infatti, le soluzioni prospettate dalla sinistra divergevano profondamente da quelle della democrazia cristiana.
Tutti i partiti antifascisti erano consci che dovevano dotarsi di un canale di collegamento diretto con le masse e, affinché tale obiettivo potesse realizzarsi, era necessario che un analogo processo ricostruttivo,venisse posto in essere parallelamente in campo sindacale. Tale esigenza era avvertita dai partiti di sinistra e, in particolar modo, dal Partito comunista, il quale, pur essendo l’unico ad avere mantenuto una presenza significativa nei luoghi di lavoro, non godeva di un larga influenza sui lavoratori; le correnti di sinistra intendevano realizzare un sindacato di massa, che fosse in grado di penetrare all’interno della crisi in atto e di risolverla, per risollevare la classe operaia e consentire al partito di svolgere un ruolo di sintesi politica.
La stessa esigenza si poneva anche per la Democrazia cristiana che, invece, era priva di canali di collegamento con la classe operaia e, proprio per questo motivo, avvertiva tale esigenza anche più lucidamente delle sinistre; essa riteneva che il nuovo modello sindacale dovesse essere incentrato su un’organizzazione, istituzionalmente riconosciuta, capace di isolare il conflitto di classe e di dare stabilità entro la cornice statale.
La circostanza che il Patto di Roma lasciava impregiudicate tutte le questioni relative alla struttura definitiva dell’organizzazione sindacale, era probabilmente indice, non tanto della volontà di raggiungere un compromesso tra le diverse forze in campo, in
nome di una soluzione unitaria, quanto piuttosto di uno scontro di dimensioni tali per si preferì, come di fatto accadde, ricorrere all’arte della diplomazia e lasciare che il tempo facesse il suo corso.
I comunisti e i socialisti sostenevano la necessità di dare al sindacato una struttura organizzativa di tipo orizzontale, incentrata sulle Camere del lavoro e sulla Confederazione, in cui potevano riconoscersi grandi masse popolari, il cui unico punto in comune era dato dalla ricerca di un’occupazione. Tale proposta, infatti, era perfettamente aderente sia alla realtà nel meridione, dove vi era una manodopera prevalentemente occupata nel settore agricolo o in attività industriali molto arretrate, sia nel settentrione, dove, invece, era presente una manodopera che lavorava nelle grandi fabbriche. Tale modello organizzativo era capace di accogliere e dirigere le istanze di una base diversificata ed in rapida crescita.
La corrente cattolica si pronunciò, invece, per il modello organizzativo di tipo verticale, ossia a favore di un decentramento sindacale “federale”, che facesse perno sui sindacati locali e provinciali e sulla federazione nazionale, svincolandoli il più possibile dagli organi camerali e confederali, ai quali si voleva lasciare una funzione di coordinamento e affiancamento dell’azione dei sindacati.
Pur essendo tale modello organizzativo non meno radicato di quello orizzontale (per lungo tempo le strutture di categoria costituirono la spina dorsale del sindacalismo), tuttavia, esso avrebbe potuto trovare difficilmente attuazione in tale preciso momento storico, poiché contrastava non poco con il quadro economico-sociale, caratterizzato dalla necessità di organizzazioni in grado di accogliere le istanze di interessi largamente diffusi. Da’altro canto, uno degli obiettivi della corrente cattolica, nel proporre tale modello sindacale, era quello di dilatare la capacità del sindacato di isolare gli aspetti più squilibranti e politici del conflitto di classe, risolvendolo mediante una serie continua di mediazioni contrattuali. Si trattava, in definitiva, di un modello che aveva alla base una concezione contrattualistica e apolitica del sindacato, che, come tale, non poteva che essere rifiutata dall’esperienza sindacale dell’epoca.
Per tutti questi motivi, la corrente cattolica ben presto si convinse che tale modello sindacale proposto era impraticabile e vi rinunciarono. E tale cambiamento di rotta fu già visibile nel corso del Congresso sindacale di Napoli (gennaio 1945), che si chiuse con l’approvazione del primo Statuto della Confederazione generale dei lavoratori italiani, nel quale è lapalissiana la prevalenza delle strutture orizzontali rispetto a quelle verticali.