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La crisi dell’unità sindacale: nascita della CGIL, CISL e UIL

Nel documento Capitolo I PROFILI STORICI 1. (pagine 43-49)

occasione, poiché lo sciopero era stato indetto senza fissarne la fine, la corrente cristiana invitò la Confederazione generale dei lavoratori a ordinarne la conclusione entro il giorno successivo.

La conclusione, da parte di quest’ultima, fu disposta di lì a due giorni, provocando la dura reazione della corrente cristiana, la quale, attraverso un documento, datato 16 luglio, fece sapere che, poiché ritenevano che la maggioranza dei membri della CGIL avesse rotto il patto di unità sindacale e violato lo spirito dello Statuto, i sindacalisti cristiani, d’intesa con la presidenza delle ACLI, avrebbero indetto un convegno nazionale della corrente, in cui avrebbero prospettato, come poi effettivamente fecero, ai lavoratori la necessità di creare un sindacato autonomo e democratico che fosse libero da qualsiasi influenza dei partiti.

La scissione era oramai compiuta.

D’altro canto, la rottura dell’unità sindacale corrispondeva al disegno della borghesia industriale e agraria di spezzare la forza unitaria dei lavoratori; tale unità, rappresentava, infatti, il pericolo e l’ostacolo più grande alla restaurazione capitalistica, poiché dietro di essa si celava l’intenzione di modificare l’economia e la società a vantaggio delle masse operaie.

Al secondo Congresso nazionale delle ACLI (ottobre 1948), la corrente democratico- cristiana costituì un’organizzazione autonoma, che assunse la denominazione di Libera confederazione generale italiana del lavoro (LCGIL).

A poco meno di un anno dalla scissione della Confederazione generale dei lavoratori, le correnti socialdemocratiche e repubblicane si dichiararono anch’esse sciolte e diedero vita ad un’organizzazione autonoma che assunse il nome di Federazione italiana del lavoro (FIL); subito dopo la costituzione di quest’ultima, si avviarono una serie di contatti per fondere nuova organizzazione con la corrente cristiana.

Infatti, di lì a breve, il 1 maggio 1950, la fusione fu resa operante e fu costituita la Confederazione italiana dei sindacati del lavoro (CISL).

Quasi contemporaneamente alla costituzione della CISL, nasceva un’ulteriore organizzazione dei lavoratori: l’Unione italiana del lavoro (UIL), che raggruppava i sindacalisti della FIL che si erano mostrati contrari alla fusione con la corrente sindacale cristiana (in specie, i sindacalisti repubblicani, la cui visione laica del

l’organizzazione sindacale acquistasse un ruolo politico e che accentuasse i caratteri di un sindacato unito ed anticomunista, che raccogliesse tutte le forze centriste, dai cattolici ai socialdemocratici e ai repubblicani. Secondo altri, cfr. F. SANTI, in AAVV, I sindacati in Italia, Bari, 1955, pag. 146, la causa della scissione risiedeva nell’egemonia comunista sul movimento sindacale, la quale rendeva impossibile la coesistenza fra cattolici e marxisti anche solo sul piano sindacale, perché troppo grande era il divario ideologico tra le due in campo religioso, ideologico e sociale.

sindacato era totalmente incompatibile con quella della corrente cristiana) e un gruppo di sindacalisti di ispirazione socialdemocratica, staccatisi dalla Confederazione generale dei lavoratori.; tale movimento doveva rappresentare un’alternativa alle due tendenze, marxista e cristiano-democratica.

Sempre nello stesso anno, sorse anche la Confederazione italiana dei sindacati nazionali dei lavoratori (CISNAL), ispirata ai principi del c.d. “sindacalismo nazionale”, di chiaro orientamento corporativistico, i cui scopi riprendevano quelli di ispirazione fascista.

Agli inizi del 1951 il movimento sindacale italiano era, raggruppato in quattro Confederazioni a carattere nazionale: la CGIL, la CISL, la UIL e la CISNAL.

La CISL, nella quale coesistevano le correnti cristiano democratica, repubblicana e socialdemocratica, assunse la forma di sindacato libero ed esplicitò i principi cui si informava la sua attività durante il suo primo Congresso a Napoli: essa respingeva il sindacato fondato, diretto ed ispirato da correnti politiche, sostenendo la necessità della sua autonomia; intendeva creare un sindacato che fosse chiaramente riconoscibile rispetto al partito politico cattolico, se non altro per distinguersi dal modello sindacale proposto dalla CGIL.

Ed, in effetti, la posizione della CISL divergeva profondamente, sotto parecchi aspetti, da quella della CGIL.

In primo luogo, in ossequio al principio di autonomia sindacale, essa contrapponeva ad una visione estremamente politicizzata dell’azione sindacale una concezione che privilegiava il perseguimento di obiettivi immediati e concreti, soprattutto a livello d’impresa e, conseguentemente, rifiutava di scendere in campo per la risoluzione dei problemi generali della società e dello Stato.

In secondo luogo, la CISL incentrava l’azione del sindacato sulla tesi produttivistica. In forza di tale tesi, al fine di realizzare il miglioramento della condizione economica e sociale della classe operaia, era necessario che quest’ultima finalizzasse il proprio impegno per il raggiungimento della massima efficienza e produttività dell’impresa.

Infatti, proprio grazie alla realizzazione della maggiore produttività imprenditoriale, di riflesso poteva ottenersi il miglioramento della posizione sociale dei lavoratori. Si trattava di un’impostazione lealista verso il capitalismo e verso lo Stato: l’obiettivo del sindacato era quello di provvedere al miglioramento della classe operaia, ma ciò doveva avvenire nel rispetto del Governo e delle sue istituzioni.

Altro punto fondamentale nell’elaborazione teorica della CISL risiedeva nella contrattazione aziendale, che divenne il punto centrale dell’azione sindacale per tutti gli anni 60’-70’

L’attenzione mostrata per la contrattazione collettiva a livello aziendale non era altro che una ripresa delle istanze di decentramento e federalismo a suo tempo proposte dalla corrente cristiana della CGIL prima della scissione, e che ispirò tutta l’azione della CISL tra il 1950 e il 1960.

La CISL riteneva che la politica contrattuale del sindacato doveva essere diretta ad esaltare al massimo l’efficienza del sistema economico nazionale e delle sue unità produttive e per farlo occorreva puntare sulla contrattazione aziendale: la pressione sindacale differenziata nei settori e nelle moderne aziende industriali, infatti, avrebbe garantito il raggiungimento di tale obiettivo.

Così facendo, inoltre, la CISL accentuava il suo ruolo di forza legata alle politiche dei governi centristi.

La CGIL, invece, si poneva nelle vesti di sindacato che, forte del legame con le masse operaie, in aperto antagonismo con il regime capitalista, si ergeva a difensore delle istituzioni repubblicane e democratiche. Nell’ottica della CGIL non era necessario che tra sindacato e partito vi fosse autonomia; anzi, il partito costituiva una sorta di prolungamento dell’organizzazione sindacale, era lo strumento di raccordo tra le masse operaie e la società, cui spettava il compito di indicare al sindacato le strategie da adottare per modificare l’assetto economico. La Confederazione unitaria, sulla scia del proprio substrato ideologico, si proponeva di scendere in campo per un generale miglioramento della condizione economica e sociale delle masse di lavoratori e, quindi, tra i suoi compiti vi era quello di intervenire non solo per la risoluzione delle questioni strettamente legate alla condizione di operaio, ma per la realizzazione di un nuovo ordine sociale, in cui le ricchezze fossero distribuite in maniera più equa. La CGIL propose, in occasione del Congresso di Genova del 1949, il c.d. “Piano del lavoro”, che costituì uno dei primi esempi di programmazione generale dell’economia, con il quale si intendeva consentire al sindacato di prendere parte alle decisioni dello Stato nell’ambito della politica economica. Tale piano aveva come obiettivi principali la ricostruzione e lo sviluppo dell’occupazione, da realizzare attraverso la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la costituzione di un ente per lo sviluppo agricolo e di un ente nazionale per lo sviluppo dell’edilizia popolare e sociale nonché la realizzazione di un piano di opere pubbliche essenziali. Ancorché tale proposta

rappresentasse un importante tentativo di fornire una direttrice politico-economico unitaria, essa fu liquidata dal governo come inattuabile.

Alla luce di quanto detto, non difficile osservare che profonde erano le differenze ideologiche tra i due sindacati, sia per quanto concerneva l’elaborazione teorica, sia per i conseguenti programmi elaborati, e la contrapposizione che ne conseguiva veniva vissuta drammaticamente anche dalla classe operaia, all’interno delle fabbriche.

Gli anni seguenti alla scissione furono, infatti, tra i più bui della storia del movimento sindacale: Miglia di quadri, socialisti e comunisti, vennero licenziati dai padroni; le libertà sindacali venivano costantemente attaccate nel pieno del processo di restaurazione capitalistica, appoggiato esplicitamente dai governi centristi. Il loro carattere antioperaio non aveva veli: l’intervento della forza pubblica in ogni sciopero o manifestazione costituiva la normalità; furono anni di eccidi di operai e braccianti, di inaudite repressioni fuori e dentro le fabbriche

In tale contesto, mentre la CISL rafforzava i suoi legami con i governi centristi, attraverso fitti legami con la Democrazia cristiana, di cui, non a caso, erano membri i suoi quadri e i suoi dirigenti, la CGIL risentì dell’isolamento seguito alla scissione e rafforzò i legami con i due partiti della sinistra storica, accentuando la contrapposizioni con le altre due centrali sindacali, la CISL e la UIL.

La crescente contrapposizione tra le due correnti sindacali si acuiva sempre più e i rapporti tra le due assunsero i toni dello scontro vero e proprio in occasione dello sciopero generale che la CGIL indisse contro la proposta di legge in materia elettorale, la c.d. legge truffa57 e rispetto al quale la CISL prese le distanze, arrivando a dichiarare illegali gli scioperi attuati per motivi non economici.

I contrasti tra CGIL e CISL, dopo un periodo di breve tregua, si riacutizzarono negli anni 53’-54’, quando CISL e UIL firmarono con la Confindustria un accordo sul conglobamento delle varie voci salariali.

La CGIL non sottoscrisse tale accordo, dando inizio al periodo dei c.d. accordi separati a tutti i livelli; in tale periodo la contrapposizione tra GCIL da un lato, e CISL e UIL dall’altro, era così forte che i rapporti tra esse erano di tipo quasi esclusivamente epistolare e, per dare un’idea della drammaticità dei rapporti, basti pensare che per i

57 Tale proposta di legge prevedeva che venisse attribuita la maggioranza assoluta ai partiti che avessero superato il 50% dei voti; Il 30 maggio, quando la legge venne approvata definitivamente in Parlamento, la CGIL indisse un sciopero generale, cui prese parte il 56% dei lavoratori italiani, nonostante l’azione contraria svolta dalla CISL e dalla UIL. Tuttavia, alle elezioni politiche del 7 giugno 1953 la legge maggioritaria non scattò per circa 57.000 voti. Tale fatto rappresentò una sconfitta pesante per i partiti di centro, che aprì una fase di riflessione critica all’interno della CISL.

sindacalisti della CISL e UIL firmare congiuntamente alla CGIL un accordo equivaleva essere deferiti agli organi statutari per l’adozione di misure disciplinari.

La CGIL perdeva sempre più terreno, com’è testimoniato da un altro importante evento: nel marzo 1955 si verificò una grave sconfitta per la CGIL, che perse alle elezioni nelle Commissioni interne della Fiat e fu superata dalla CISL, la quale divenne il primo sindacato, con il 46% dei voti, seguito dalla CGIL con il 36% e dalla UIL con il 23%.

Fu in tale occasione che all’interno della CGIL si avviò un processo critico di analisi della propria linea di condotta, finalizzato ad individuare gli errori commessi. La CGIL ammise di avere trascurato, dando la precedenza a generali problemi politici, quelli più intimamente collegati con la posizione degli operai, quali, ad esempio, il rapporto fra condizione operaia e processo tecnologico, di aver sottovalutato il controllo operaio sul processo produttivo, di non avere incalzato il padronato in fabbrica, di essersi eccessivamente distaccata dalla realtà lavorativa all’interno delle fabbriche.

Nel Congresso del 1956, si ebbe una svolta: si iniziò a parlare del controllo operaio sul processo produttivo, quale strumento di potere della classe operaia non solo all’interno della fabbrica, ma con proiezioni immediate nella società; si affermò che gli operai non dovevano subire passivamente l’introduzione di nuove tecnologie e di forme di organizzazione del lavoro, ma dovevano saperle gestire perché esse non venissero utilizzate dai padroni contro di loro, tutti temi che saranno al centro dell’iniziativa del sindacato nel decennio 1960-1970.

Gli effetti non tardarono a farsi sentire: nell’estate del 1956 braccianti e ferrovieri, con le rispettive organizzazioni, guidarono unitariamente la vertenza e la lotta, ma i fatti d’Ungheria, dell’ottobre 1956, troncarono bruscamente questo fragile spiraglio di dibattito.

La CGIL, a differenza del PCI, espresse la sua deplorazione per l’intervento sovietico in Ungheria, condannando i metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica, che causavano il distacco tra fra i dirigenti e le masse popolari.

La Segreteria della CGIL, infatti, si mostrò contraria all’impiego delle forze armate straniere; tale posizione era in aperto contrasto con quella del PCI che aveva, invece, assunto una posizione di aspra critica verso gli insorti. La CISL e la UIL attaccarono duramente la CGIL per la solidarietà mostrata verso i massacratori degli operai e degli studenti ungheresi, tant’è che sollevarono la c.d. “questione morale”, cioè il rifiuto dei rappresentanti della CISL e UIL di sedersi al tavolo delle trattative con i rappresentanti della CGIL.

Nonostante i due maggiori partiti di sinistra si fossero attestati su posizioni diametralmente opposte, ancora una volta si tentò di mantenere l’unità tra le tre maggiori confederazioni sindacali, attraverso l’appello lanciato da Di Vittorio per la ricostruzione di una grande organizzazione unitaria, democratica, autonoma e indipendente dallo stato e da tutti i partiti.

La CISL rispose in maniera sprezzante, dichiarando che al suo interno non vi era necessità di un ripensamento dei propri indirizzi e proponendo, a sua volta, la creazione di una organizzazione unitaria, ricomprendente però solamente le forze

“sinceramente democratiche”, ossia la UIL e la corrente socialista della CGIL, con l’esclusione, invece, della corrente comunista.

I sindacalisti socialisti non raccolsero l’invito e rimasero all’interno della CGIL, ma furono artefici di un compromesso per risolvere i problemi della democrazia interna alla CGIL. Esso consisteva nella possibilità per le organizzazioni sindacali di decidere di non prendere posizione su questioni o avvenimenti nazionali o internazionali, di carattere prettamente politico e, nell’ipotesi in cui su tali questioni non si fosse raggiunto un accordo, veniva garantito il diritto di esprimere il proprio dissenso.

Nel documento Capitolo I PROFILI STORICI 1. (pagine 43-49)