D’altro canto, la possibilità di spiegare l’efficacia del contratto collettivo riconducendolo ad una prospettiva diversa e superiore a quella meramente individuale, oggi è legittimata dalle valutazioni del fenomeno sindacale implicitamente contenute nell’art. 39 Cost. che consente di ritenere valida la spiegazione privatistica dell’autonomia sindacale.
L’art. 39 Cost, non può certo essere utilizzato per spiegare la rilevanza e l’efficacia del contratto collettivo di diritto comune, ma sancisce comunque “l’implicito, ma non meno sicuro, riconoscimento a livello costituzionale della competenza delle associazioni di categoria a regolare gli interessi collettivi dei lavoratori”163.
espressione che induce a focalizzare l’attenzione sui diversi modelli di organizzazione sindacale.
Storicamente sono due i modelli che il sindacato ha sviluppato per delimitare l’ambito degli interessi alla cui protezione è destinato.
Il primo di tali modelli organizza i lavoratori sulla base della loro identità professionale (sindacato di mestiere); il secondo, invece, accorpa i lavoratori in base all’appartenenza di essi ad un dato ramo di industria (sindacato di categoria)166. Le fonti pocanzi citate non autorizzano ad avallare la tesi di quanti ritengono che, proprio alla luce di esse ed in particolare, del comma IV, art. 39 Cost, si debba attribuire la prevalenza al secondo modello167.
In realtà il riferimento contenuto nel comma IV dell’art. 39 Cost alla categoria rileva esclusivamente al fine di delimitare l’ambito di applicazione del contratto collettivo e, pertanto, è assolutamente irrilevante ai fini della scelta del modello organizzativo.
Quanto al concetto di categoria168, deve ritenersi definitivamente superata la visione della categoria quale prius ontologico, ovverosia quale gruppo sociale di riferimento dell’organizzazione naturalmente emergente nel tessuto sociale. Infatti, non è la categoria a creare l’organizzazione, ma viceversa: allorquando un’organizzazione sindacale decide di tutelare gli interessi dei lavoratori operanti in un determinato settore, allora (e, quindi, in un momento cronologicamente successivo), il gruppo portatore dei medesimi interessi crea una categoria di “rappresentabili”. In definitiva, la
166 Cfr. G. MAZZONI, Manuale di diritto del lavoro, II ed., Milano , pag. .255; G. GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, 2004, pag. 41; A, VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro. I. Il diritto sindacale, Padova, 2002, pag. 84.
167 Cfr. PERA, Diritto del lavoro, 1996, pag. 80
168 Sul concetto di categoria R. FLAMMIA, op. cit., pag. 24, il quale approfondisce tale concetto nel tentativo di individuare gli elementi di tipicità della fattispecie “sindacato”. Egli ritiene che la categoria professionale, genericamente definibile “come l’insieme delle persone che, in un dato momento, svolgono la medesima attività in un processo produttivo”, sia una “mera indicazione formale dei destinatari della tutela statuale del lavoro” e non un “presupposto giuridico necessario, dal quale abbisogna muovere per l’individuazione della fattispecie sindacale nell’ordinamento vigente”; tale assunto troverebbe conforto, secondo l’Autore, nella L. 14 luglio 1959, n. 741 da una analisi della quale (art. 2 e art. 7) emergerebbe chiaramente che il concetto di categoria è preso in considerazione dal legislatore solo al fine di ricollegarlo al contratto collettivo, per individuare la sfera di soggetti sottoposti a tale normativa. Invero, tale visione prende in considerazione il concetto di categoria quasi per sminuirne la portata, allorché ne colloca la rilevanza solo quale conseguenza indiretta dell’operatività del contratto collettivo, la ragione d’essere della categoria è esclusivamente quella di individuare i soggetti cui si applica la normativa ivi contenuta. Sempre sullo stesso argomento cfr. G. PERA, Libertà sindacale. b) Diritto vigente, in Enc. Giur., XVII, Milano, 1948, pag. 516 ss, che focalizza l’attenzione non tanto sulla necessità di capire se “la categoria sia o no un quid obiettivamente rinvenibile in rerum natura”, quanto piuttosto sull’analisi delle modalità di emersione delle categorie nei vari ordinamenti giuridici e, in particolare, nell’ordinamento corporativo e in quello immediatamente successivo, in cui è emersa la cosiddetta “concezione contrattuale della categoria” e ancora C. ESPOSITO, Lo Stato e i sindacati nella costituzione italiana, in ID, La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954.
categoria è un espediente concettuale che consente alle organizzazioni sindacali di delimitare l’ambito degli organizzabili.
Essa, pur non esistendo nella realtà sociale, deve comunque ancorarsi a parametri oggettivamente posti, anche se storicamente variabili; in tal senso deve constatarsi la tendenza sempre più diffusa da parte delle organizzazioni sindacali a creare ampi sindacati di categoria, mediante il raggruppamento di realtà sindacali minori.
Sempre con riguardo all’ambito degli interessi rappresentati dall’organizzazione sindacale, occorre prendere in considerazione il rapporto tra la categoria e gli interessi rappresentati, il quale introduce la seconda dimensione dialettica, quella verticale/orizzontale169.
In ordine a tale profilo la distinzione fondamentale è tra sindacati autonomi e sindacati confederali170. La Convenzione OIL si riferisce principalmente al modello sindacale di tipo categoriale, ma l’art. 5 di essa prevede che “le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro hanno il diritto di costituire federazioni e confederazioni così come di divenirne membri”. Esistono due tipologie di confederazioni, emblematicamente rappresentate dalle due maggiori confederazioni, la CGIL e la CISL.
Nella prima, infatti, la confederalità si esprime a livello territoriale mediante l’adesione diretta dei lavoratori alla Camera del lavoro territoriale e contemporaneamente all’organizzazione di categoria; in questo caso si realizza dunque una confederazione di lavoratori e non di sindacati, secondo lo schema delle associazioni parallele.
Nella CISL, invece, si ha una vera e propria confederazione di sindacati di categoria, che assumono la denominazione di Unioni e non sono semplicemente istanze periferiche della confederazione, ma strutture di secondo livello secondo lo schema delle associazioni in serie.
Un’altra dimensione che assume rilevanza è quella “esterno/interno ai luoghi di lavoro”171.
L’organizzazione sindacale, come delineata dall’art. 39 Cost e dalla Convenzione OIL n. 87, è esterna ai luoghi di lavoro. Pur tuttavia la specificità di essa risiede nella circostanza che la tutela delle condizioni di lavoro presuppone anche, e soprattutto, una presenza organizzata sui luoghi di lavoro.
La questione all’interno del nostro ordinamento giuridico è complicata dalla circostanza che nei luoghi di lavoro non sono presenti solamente strutture sindacali
169 Cfr M. NAPOLI, op. .ult .cit., pag. 522.
170 Cfr. G. MAZZONI, op. cit., II ed., Milano, pag. 256.
171 Cfr. M. NAPOLI, op. .ult .cit., pag. 522.
aziendali che sono articolazioni interne del sindacato esterno. La tematica dell’attività sindacale sui luoghi di lavoro si caratterizza per due circostanze che non toccano l’organizzazione esterna all’impresa. La prima di tali circostanze è data dalla regolamentazione legislativa della struttura sindacale operante sui luoghi di lavoro (r.s.a. e r.s.u.). La seconda circostanza consiste nella possibilità che sussistano modelli di organizzazione degli interessi di forma diversa e concorrente con l’organizzazione esterna all’impresa (il c.d. doppio canale di rappresentanza), da intendere quale possibilità di esistenza di strutture organizzative rappresentative dei lavoratori in quanto tali operanti accanto alle strutture interne ed esterne all’impresa.
Inoltre, l’attività sindacale sui luoghi di lavoro è maggiormente collegata alla gestione del rapporto di lavoro che non all’attività dell’organizzazione esterna; ma proprio tale circostanza costituisce una peculiarità dell’organizzazione sindacale, non rinvenibile in nessuna altra forma di organizzazione, quali i partiti o la chiesa. Infatti, l’organizzazione sindacale vive in maniera molto forte la dialettica organizzati/organizzabili, coglibile a sua volta soprattutto nella dialettica organizzazione esterna/interna.
L’ultima dimensione di specificità dell’organizzazione sindacale è data dalla peculiare situazione in cui si trovano i soggetti operanti nelle strutture organizzative.
L’organizzazione sindacale è sottoposta alle regole contenute nello statuto e, quindi, l’elezione dei dirigenti è rimessa al voto dei lavoratori, in applicazione dei principi di democrazia che governano l’attività dell’organizzazione sindacale.
Nell’ambito di tali principi generali, tuttavia, è dato cogliere una notevole differenza tra organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Infatti, nelle organizzazioni imprenditoriali vi è una netta distinzione tra ceto dirigente legittimato dal voto e apparato burocratico, mentre, in quelle di lavoratori è lo stesso ceto burocratico (il sindacalista di mestiere) a concorrere alle cariche elettive mediante la partecipazione alla contesa elettorale. La democrazia sindacale, quindi, è rimessa a meccanismi elettorali, con la selezione meritocratica della professionalità e tale modello ha potuto funzionare perché l’organizzazione sindacale ha tenuto saldi i legami con il mondo del lavoro, favorendo una certa continuità nel passaggio dalla militanza alla burocrazia e alle cariche; il paradosso di tale modello è dato dalla non professionalizzazione e burocratizazione della rappresentanza sindacale di base, legittimata esclusivamente in base al meccanismo elettorale.
Ma la specificità dell’organizzazione sindacale si coglie bene anche nella necessarietà della dialettica interorganizzativa, che si desume dal comma IV dell’art. 39 Cost. il
quale – come è noto – presuppone un regime sindacale di tipo pluralistico, ovvero sia la possibilità che nel nostro ordinamento giuridico coesistano concorrenzialmente una molteplicità di organizzazioni.
Il pluralismo sindacale, a differenza di quello economico, politico e religioso, presuppone tuttavia non solo la concorrenza, che è insita nello stesso concetto di pluralismo, ma anche la necessità di una cooperazione interorganizzativa.
Tale aspetto, in assenza di specifiche norme regolatrici e di attenzione da parte della dottrina, risulta allo stato sostanzialmente inesplorato.
La problematica della cooperazione interoganizzativa è stata avvertita soltanto in sede costituente, allorquando il legislatore, nel comma finale dell’art. 39 Cost., ha previsto un procedimento di registrazione che implica, non solo la cooperazione tra le diverse organizzazioni sindacali registrate, ma anche un meccanismo di composizione dei conflitti interorganizzativi mediante la ripartizione del potere rappresentativo in proporzione al numero degli iscritti. Nella pratica tale meccanismo si traduce nell’adozione del principio proporzionale; infatti, al tavolo delle trattative ogni sindacato conta in proporzione ai propri iscritti.
Così facendo, da un lato, si autorizza ciascun sindacato a rivendicare la par condicio al tavolo negoziale (a discapito della reale capacità rappresentativa) , rendendo possibile ammettere alle trattative tutte le organizzazioni sindacali che pretendono di rappresentare l’intero o una parte degli interessi non rappresentati e, dall’altro, si legittima l’adozione del principio dell’unanimità che presuppone l’inesistenza di contrasti tra quanti partecipano alle trattative.
Proprio in ciò sta la ragione del fallimento di tale modello. Il sistema così delineato ha funzionato fintantoché, nonostante la concorrenza tra le tre maggiori centrali sindacali, di fatto si è sempre verificata una convergenza di vedute tra di esse; mentre è entrato in crisi in questi ultimi tempi in cui si è verificata una frammentazione della rappresentanza.
Tale problema non è risolvibile attraverso il ricorso al criterio legislativo dei sindacati maggiormente rappresentativi, poichè tale criterio è selettivo rispetto a chi rappresentativo non è, ma non in grado di risolvere le controversie tra sindacati egualmente maggiormente rappresentativi.
L’unico elemento che può supplire al vuoto legislativo sta, dunque, nell’effettività, criterio idoneo a paralizzare la decisione di non firmare il contratto collettivo.
Si comprende allora perché la garanzia della libertà sindacale si accompagna alla previsione di procedure ed istituti regolatori del pluralismo; l’organizzazione sindacale,
a differenza di qualsiasi altra, ha la necessità di dialogare poiché la soddisfazione degli interessi di coloro che appartengono ad una data organizzazione sindacale deve necessariamente confrontarsi con quella degli interessi che appartegono alle altre organizzazioni sindacali.