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Gli anni Settanta e i gruppi di autocoscienza

Nel documento L'UDi di Palermo e il progetto (pagine 41-46)

Capitolo 1. Il cammino di liberazione delle donne e la scoperta della differenza

1.3. La seconda metà del secolo e la presa di coscienza delle donne

1.3.2. Gli anni Settanta e i gruppi di autocoscienza

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ricoprire ruoli marginali come quello di segretarie, domestiche, o delegate a fare il caffè o le fotocopie (Evans 1979; Pojmann 2005). Si resero conto che la loro

“esperienza storica” era necessariamente diversa da quella maschile. Ad esempio, l’esperienza delle donne nella dimensione familiare era diversa da quella degli uomini “rispetto al lavoro domestico ed extradomestico, alla cura dei figli e degli anziani” (Lombardi 2006).

Questo portò molte donne a impegnarsi nella militanza all’interno dei movimenti; altre a scendere nelle piazze protestando contro un sistema da cui non si sentivano ascoltate; altre ancora crearono piccoli gruppi il cui centro erano proprio loro, le donne: fuori dai grandi schieramenti partitici o associazioni, nacquero spazi in cui potevano condividere le loro esperienze di vita, confrontarsi e dare una nuova consistenza all’identità femminile. Si comincia a prefigurare, qui, la ‘pratica dell’autocoscienza’. (Pojmann 2005;

Guerra 2008).

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maternità, la relazione con il corpo e la sessualità, il patriarcato, la dimensione del quotidiano, il lavoro domestico, le relazioni nella famiglia. Un processo di riscrittura della storia in cui il punto di vista diventa il femminile, il ‘partire da sé’. La critica al patriarcato e all’autoritarismo e l’ideale dell’uguaglianza spinsero le donne a cercare una propria soggettività diversa da quella maschile:

“Separatismo e presa di coscienza divennero così i due atti di origine del femminismo recente che assunsero, in quel contesto di mobilitazione collettiva, un significato politico intrecciandosi con la nascita dei gruppi e dei collettivi di sole donne e il femminismo declinò, in termini assolutamente specifici, alcune delle grandi questioni poste dai movimenti degli anni Sessanta” (Guerra 2008, pag. 53).

Lombardi parla anche di una nuova “centralità del quotidiano” che, secondo l’autrice, ha due punti di forza. Uno è la critica pratica alla divaricazione tra i temi politici del lavoro e del potere e quelli personali della sessualità e del corpo”. Con ciò si intende il ricongiungimento della sfera privata con quella pubblica “e donare loro lo stesso valore nella costruzione dell’esperienza”.

Queste sfere, infatti, come “corpo e mente, personale e politico” su cui si fonda l’ordine sociale, sono sempre state contrapposte (Lombardi 2006; Bertilotti, Scattigno 2005). Il secondo è quello che a che fare con la “pratica dell’autocoscienza” – diffusasi prima in America e poi in Europa (Seroni 1977;

Malagreca 2006) – e che parte dalla riflessione sul proprio corpo e sessualità, sull’esperienza della maternità, sull’esperienza dell’essere donna in generale, in una presa di coscienza di sé e della differenza dagli uomini. Era un tentativo di guardare più da vicino la relazione tra uomini e donne, tra donne, tra madri e figlie per creare un nuovo linguaggio (Casavecchia 2018). L’accento si sposta

“sulla dimensione culturale del problema donna, inteso come riacquisizione individuale di una coscienza di sé liberata dai condizionamenti di una “cultura degli uomini” (Seroni 1977, pag. 154). Secondo Lombardi (2006):

“Attraverso l'autocoscienza la casa diviene spazio politico, ambito di elaborazione collettiva e di crescita della soggettività, così anche gli altri luoghi di incontri

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collettivi (spazi autogestiti, convegni, incontri informali e anche vacanze trascorse insieme) concorrono a far coincidere la vita quotidiana con il luogo per eccellenza della "cultura delle donne". Ciò vale sia per i movimenti femministi che per il più ampio "movimento delle donne" formato da tutte coloro che, nei partiti, nei sindacati, nel mondo del lavoro, si impegnano per trasformare le relazioni di potere tra i generi”.

In questi anni si diffondono “il Manifesto del Gruppo DEMAU (1966), e quello di Rivolta Femminile (1970); la formazione dei gruppi di autocoscienza e collettivi in tutto il paese, da nord a sud, poco dopo la pubblicazione di Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi (1970); l’inizio di MLD (1971) […] e molto altro” (Di Cori 2012, pag. 7).

Rivolta Femminile viene fondato da Carla Lonzi. Questo gruppo riveste un’importanza particolare dell’esperienza femminista in Italia in quanto il primo a lavorare sul concetto di autocoscienza e sul processo di affermazione della soggettività femminile. Ad esso si deve anche la realizzazione di uno dei primi documenti del femminismo in Italia, il Manifesto di Rivolta. Pubblicato a luglio del ’70, proclamava che le donne non potevano essere definite in relazione agli uomini perché la loro esperienza è diversa e solo riconoscendo questa verità il genere femminile sarebbe stato finalmente libero. Di seguito alcuni stralci presi dal testo del Manifesto:

“Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storia alla famiglia e alla società. Unifichiamo le situazioni e gli episodi dell’esperienza storica femminista: in essa la donna si è manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale. […] Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità. […] Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”.

Secondo Malagreca (2006) questo è il momento in cui nasce il nuovo femminismo che fa leva sulla differenza e non più sul concetto di uguaglianza.

Inoltre, compaiono qui alcune delle parole chiavi che in questi anni sono il

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perno della riflessione sulle donne: l’accusa al patriarcato e all’oblio a cui ha condannato le donne e la loro storia, facendo invece prevalere una narrazione tutta al maschile in cui gli uomini usano sé stessi come punto di riferimento universale. Le donne di Rivolta Femminile dicono chiaramente che vogliono mettere un punto a questa situazione e ridisegnare la loro immagine per contrapporla a quella inventata dagli uomini: “verginità, castità, fedeltà, non sono virtù: ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia”.

Il Movimento di liberazione della donna (MDL) ammette fra i suoi aderenti anche uomini. Nel documento costitutivo si propone di informare sui mezzi anticoncezionali anche nelle scuole e ottenere la loro distribuzione gratuita, liberalizzare e legalizzare l’aborto, eliminare nelle scuole i programmi differenziati fra i sessi (educazione domestica e tecnica), socializzare i servizi che gravano sulle spalle delle donne sotto forma di lavoro domestico, creazione di asili-nido. Questo gruppo, come altre con lui, si occupò di portare avanti un’altra causa centrale negli anni Settanta: la lotta per il diritto all’aborto e, più in generale, sugli aspetti fisici e psicologici legati al corpo femminile. Molte donne scesero numerose nelle piazze, organizzando cortei, manifestazioni e azioni di disobbedienza civile in cui dichiaravano che la libertà di decidere sul proprio corpo venisse riconosciuta (Guerra 2008).

Altri gruppi degni di nota furono: il gruppo Lotta Femminista che si formò a Padova nel 1970, incentrandosi sullo sfruttamento della donna nel capitalismo;

all’Università di Trento, invece, Il cerchio spezzato, che riuniva donne che interagivo con i gruppi di studenti; ancora a Milano nacque lo spazio chiamato Via Cherubini di un gruppo di autocoscienza tra i più importanti del femminismo italiano (Guerra 2008); il Centro di Informazione Sterilizzazione e Aborto (CISA) per iniziativa di Adele Faccio.

In questo clima riformatore, in cui si lavorava per ridefinire l’immagine e il ruolo della donna in una società che stava progredendo velocemente, la pratica dell’autocoscienza e dei piccoli gruppi consentiva alle donne di creare uno

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spazio di ascolto che fosse solo loro. Non si limitarono però a confrontarsi tra loro. Da questo dialogo scaturì la consapevolezza che l’esperienza femminile non solo era diversa da quella maschile, ma andava anche raccontata affinché tutte le donne si rendessero conto di essere più di un sottogruppo, trattate per secoli al pari di una minoranza. In linea con l’idea di una riscrittura della storia al femminile iniziarono a diffondersi riviste femministe e centri di assistenza per le donne, teatri, consultori autogestiti, radio libere e case editrici.

Gradualmente anche il sistema normativo si ammodernò, approvando leggi che riducevano le disuguaglianze: fu approvata la legge di parità sul lavoro (l.

903/1977); con la legge 194/1981 fu legalizzata l’interruzione della gravidanza; il diritto di famiglia fu riformato abolendo il diritto d’onore e le norme penali sull’adulterio (l.151/1975); inoltre, nel ‘75, fu approvata la legge sui consultori familiari (Sartori 2009).

Ma qual era il rapporto tra questi gruppi più piccoli e le più grandi e mature associazioni femminili italiane, l’UDI e il CIF? Secondo la Pojmann (2005), entrambe contribuirono a fornire ai gruppi femministi un esempio di come interagire tra loro e con i partiti politici, i sindacati e la Chiesa. Ma la divisione tra UDI e CIF e i gruppi più piccoli divenne più significativa verso la fine degli anni Settanta. Le due grandi associazioni sopravvissero ai cambiamenti di quegli anni, modificando le loro strutture interne e vennero influenzate dai nuovi gruppi. Entrambe si resero consapevoli che era necessario adattarsi alle novità nel rispetto della tradizione e dei valori che si erano formati nei decenni precedenti:

“Tutte le associazioni hanno un carattere storico e per perseguire il loro scopo devono adattarsi continuamente alle condizioni ambientali e culturali nella quali operano” (Miceli 1970).

L’avvento di questi nuovi gruppi era accolto generalmente come un segno di pluralismo e positivo dell’avanzamento della democrazia. Le donne del CIF e del l'UDI speravano che nuovi gruppi sociali e politici, in particolare quelli

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costituiti da giovani, potessero aprirsi alla possibilità di un dialogo e scambio in Italia (Pojmann 2005).

Rispetto al movimento studentesco si creò una frattura tra uomini e donne che presero le distanze da quell’esperienza. Ci si rese conto – e anche l’UDI e il CIF lo denunciarono – che, sia i lavoratori che gli studenti, non erano stati capaci di rendere la questione femminile un punto cruciale e da cui partire nei loro programmi. La presenza dominante dei capi maschi nei gruppi extra- parlamentari era la stessa di quella dei partiti, rendendo evidente la necessità di una presenza femminile più forte (Pojmann 2005).

Gli anni '70 sono quindi caratterizzati dal fiorire di movimenti femministi e femminili italiani che affermano la centralità del privato in una società dominata dall'autoritarismo patriarcale; a ciò si aggiunsero grandi mobilitazioni su temi specifici, come quello dell'aborto (Lombardi 2006). Nel decennio successivo, invece, si inizia a perdere la pratica dell’autocoscienze e dei piccoli gruppi e si approfondiscono “nuove prospettive teoriche approdando ad una consapevolezza della vita quotidiana come spazio del fare concreto, attraverso il quale perseguire un confronto attivo con il sociali” (Lombardi 2006).

Nel documento L'UDi di Palermo e il progetto (pagine 41-46)