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La riflessione pedagogica sul genere: dall’uguaglianza alla differenza

Nel documento L'UDi di Palermo e il progetto (pagine 89-93)

Capitolo 2. La violenza maschile sulle donne: la differenza sessuale come

2.3. Genere ed educazione

2.3.1. La riflessione pedagogica sul genere: dall’uguaglianza alla differenza

A partire dagli anni Settanta, in campo pedagogico si inizia a riflettere sul rapporto tra educazione e genere in quanto si avvertiva ormai come necessario approfondire i motivi della diversa educazione che bambini e bambine ricevevano fin da piccoli (Brambilla 2013). È in questo periodo che Elena Giannini Belotti (1976) pubblica la sua ricerca, ‘Dalla parte delle bambine’, in cui analizza il vasto sistema di credenze, stereotipi e comportamenti che vengono messi in atto dalle madri stesse nei confronti di figli, a partire dai primi vagiti dei neonati, e che variano in base al sesso del bambino. Perfino l’allattamento al seno veniva gestito in maniera diverso: se si trattava di un maschio, le mamme tendevano a lasciarlo attaccato al seno fino a che non era lui stesso a stancarsi; nel caso delle bambine invece, le madri cercavano di ridurre al minimo le poppate (Giannini Belotti 1976). Si rende quindi evidente, in quegli anni, che le discriminazioni tra uomini e donne si originano fin dall’infanzia, in maniera più o meno consapevole.

Silvia Leonelli (2013) nel definire cosa si intende oggi per Pedagogia di genere, ne delinea le tappe che, a partire dagli anni Settanta, hanno portato questa disciplina ad evolversi. Infatti, oggi la Pedagogia di genere ha un “carattere propositivo” e cioè punta a rivedere continuamente i “condizionamenti di genere” per “promuovere una riflessione in grado di anticipare le emergenze e le nuove questioni che si vanno prospettando nelle scuole, nei servizi, ecc.”

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(pag. 4), in modo da correggere alla base l’immagine stereotipata di bambini e bambine. Ma non è sempre stato così.

Le riflessioni pedagogiche vengono influenzate dalle teorizzazioni dei movimenti femministi, seguendo, in particolare, un’evoluzione simile a quella dei gender studies: dagli studi sull’uguaglianza, passando per quelli della differenza fino a quelli attuali. Era già da diverso tempo che si rifletteva sul fatto che la società occidentale aveva reso un sesso inferiore all’altro:

“Quando E. Gianini Belotti scriveva Dalla parte delle bambine in Italia il diritto di voto per le donne aveva già vent’anni (1946); da una decina d’anni era obbligatoria l’istruzione fino al livello della scuola media anche per le ragazze (1962). Soffiava il vento del femminismo: dal punto di vista culturale, da dieci anni era tradotto Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir (nel 1961, era uscito nel 1949), quasi nello stesso periodo era stato pubblicato. La mistica della femminilità di Betty Friedan (1963), volumi che mostravano i meccanismi attraverso i quali la società occidentale riusciva a rendere un sesso inferiore all’altro. Dal punto di vista sociale, si andavano inaugurando i primi asili nido comunali realizzati in concorso con lo Stato (1971) a riprova che, per le donne, lavorare fuori di casa era un’esperienza diffusa e/o desiderata; dal punto di vista legislativo, dopo la legge sul divorzio del 1970, in Italia si preparava il relativo referendum e si discuteva su ciò che diventerà il nuovo Diritto di famiglia di lì a breve (1975). La contraccezione chimica era teoricamente possibile (dal 1956), ma in Italia la sua pubblicizzazione rimaneva un reato fino al 1971” (Leonelli 2013, pag. 4-5).

Va precisato però, che la periodizzazione, tra studi pedagogici e sociologici o filosofici, è sfalsata di un decennio circa (Leonelli 2013). Agli studi pedagogici sulla differenza verrà dedicato il paragrafo successivo. Rispetto alla pedagogia dell’uguaglianza, questa si fonda sull’idea della parità con l’uomo e segue, a livello storico, le teorizzazioni del femminismo di prima ondata in cui si faceva leva proprio sul rivendicare la parità tra uomini e donne sul piano politico, sociale e dei diritti (Vedi cap. 1). Sartori (2009) precisa che il motivo per cui le

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donne, in quel periodo, scelsero di non dare particolare peso alla questione della “specificità biologica funzionale delle donne” fu per “uscire da un ghetto in cui erano da secoli relegate”: la priorità era quella di ottenere un posto nella società, e l’unico modo era quello di far leva sulla parità.

Il periodo degli studi sull’uguaglianza, secondo Leonelli, è da circoscrivere agli anni che vanno dai Settanta fino ai Novanta, in cui si registra un incremento della presenza femminile nelle scuole, fino ad arrivare, negli anni Ottanta, alla parità di iscritti alle scuole superiori (Ulivieri 2001): “La parola d’ordine è, dunque, uguaglianza: di accesso, di esperienze, di diritti tra bambine e bambini” (Leonelli 2013, pag. 7). Questo è un periodo che permette alle donne di accedere ad uno spettro più ampio di professioni e contrare alcune discriminazioni che impregnavano determinati contesti sociali (Leonelli 2013).

A partire però proprio dagli anni Ottanta, questa “logica dell’uguaglianza”

inizia a essere messa in discussione: si inizia cioè a sottolineare che, in questo modo, non si faceva altro che rafforzare l’idea patriarcale del modello maschile a cui doversi equiparare, omologandosi quindi al genere maschile (Dioguardi 2017):

“Sino all’avvento del neofemminismo ambiguità e doppiezza dei portati formativi delle esperienze e degli immaginari di genere sono questioni che ogni donna tenta in linea di massima di risolvere per proprio conto e che solo successivamente diventeranno per molte – ma non certo per tutte – oggetto di una profonda disamina. Si dovranno infatti attendere gli anni del movimento studentesco ma, soprattutto, quelli successivi della seconda ondata del femminismo per registrare in una parte della società civile importanti tracce di una trasformazione politico- culturale che, una decade più tardi, verrà in qualche misura registrata anche dal contesto scolastico, in quella che verrà definita la pedagogia della differenza”

(Brambilla 2013, pag. 40)

Simonetta Ulivieri spiega che furono proprio le donne che avevano vissuto questo momento storico a costituire il corpo docenti italiano qualche anno

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dopo, mettendo in pratica nuove metodologie educative che si rifanno proprio alla pedagogia della differenza. Queste insegnanti, che dal punto di vista teorico si appoggiavano sul femminismo della differenza, a proporre spazi in cui ridefinire il femminile attraverso un linguaggio che valorizzi la diversità e dando centralità alla figura dell’insegnante donna che diventa portatrice di modelli nuovi di “femminilità e di insegnamento”.

Daniela Dioguardi (2017) – che fa parte di questa generazione di donne – in un saggio che intitola ‘Le parole del femminismo’, sottolinea di come a partire dagli anni Settanta, le femministe iniziano a volersi distaccare dal modello dell’uguaglianza perché risultava ormai troppo stretto per loro: “le emancipate vivono con malessere la scissione tra l'essere omologata agli uomini, nel pubblico, e il restare tradizionalmente donna-moglie-madre, femminile, nel privato poiché i criteri di giudizio e i valori rimangono quelli maschili” (pag.

143). Il concetto di omologazione è ripreso da Pasinati (2017) che spiega i motivi che spinsero le donne a prendere le distanze da sistema dell’uguaglianza e delle pari opportunità e in cui la differenza era vista come uno “svantaggio o una discriminazione da rimuovere”, ostacoli all’accesso delle donne a determinati campi o mestieri. Ma quest’ottica di omologazione, appunto, è descritta dall’autrice come negativa perché non mette in discussione la “misura maschile dei valori”. In questo modo, il processo formativo proposto a ragazzi e ragazze risulterebbe coincidere con quello maschile ma ciò provocherebbe un deficit nell’azione educativa che “non è in grado di promuovere un’effettiva crescita autonoma né per il soggetto femminile, né per quello maschile, che resta incapace di assumere coscienza della propria parzialità” (pag. 148).

Cosa fare dunque, per prendere le distanze da questi concetti? Dioguardi (2017) propone di puntare ad un “femminismo radicale” che affermi la differenza. Ma in quel contesto era complicato difendere la differenza come valore positivo.

Dioguardi racconta che a metà degli anni Noventa - periodo in cui era

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insegnante a Palermo - in occasione di un progetto che coinvolgeva più istituti superiori, sottopose ai suoi studenti un questionario in cui si chiedeva di spiegare cosa intendessero per differenza sessuale. Il risultato fu che ragazze, in maggioranza, risposero che riguardava la “sottomissione femminile”.

Prendere le distanze dal modello dell’uguaglianza significava quindi voler creare dei propri modelli di riferimento che valorizzino le differenze, anche in ambito pedagogico. Era davvero la strada più giusta quella della parità? Se parità significa insegnare alle bambine che possono essere come i maschi, è vera parità?

Nel documento L'UDi di Palermo e il progetto (pagine 89-93)