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S Ì SI CONSERVA IL SEME D ’ OGNE GIUSTO » L A SATISFACTIO COMPIUTA DA C RISTO

La domanda successiva che la nostra indagine rivolge al testo riguarda inevitabilmente il gesto compiuto dal grifone, indubbiamente figura di Cristo95 e fin qui trainante il carro della

Chiesa, una volta ricevuta la lode del corteo, per non discindere col becco l’albero, perché contravvenire causerebbe un movimento errato del ventre:

Io senti’ mormorare a tutti «Adamo»; poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata più quanto più è sù, fora da l’Indi ne’ boschi lor per altezza ammirata.

«Beato se’, grifon, che non discindi col becco d’esto legno dolce al gusto, poscia che mal si torce il ventre quindi».

Così dintorno a l’albero robusto gridaron li altri; e l’animal binato:

95 Sull’identificazione fra Cristo e il grifone, con una disamina sulla cristologia nel poema dantesco, vedi S. Cristaldi, «Per dissimilia». Saggio sul Grifone dantesco, in Studi in onore di Giorgio Petrocchi, num. mon. di “Atti e memorie dell’Accademia dell’Arcadia”, s. 3a, vol. IX (1988-1989), 1, pp. 57-94. Di diverso avviso la nota interpretazione di Peter Armour, che legge nell’albero dell’Eden lo Ius divinum, mentre identifica il grifone con l’allegoria dell’Impero romano, divenuto con Cristo strumento della provvidenza divina: la natura del leone rappresenterebbe il legame dell’Impero con la legge umana, la natura dell’aquila rappresenterebbe invece il legame con la legge e la giustizia divine (cfr. P. Armour, Dante’s Griffin And The History of The World. A Study of

85 «Sì si conserva il seme d’ogne giusto».

E vòlto al temo ch’elli avea tirato, trasselo al piè de la vedova frasca, e quel di lei a lei lasciò legato.

(Purg. XXXII 37-51)

Ricevuta la lode, il grifone pronuncia una sentenza dal significato oscuro, quindi, afferrato il timone del carro, lo conduce ai piedi della pianta spoglia, e ve lo lega, lasciando intendere che il legno del timone è lo stesso legno dell’albero attorno cui è giunta la processione.

Al gesto del grifone consegue immediatamente un fatto sorprendente: la pianta fiorisce di nuovi fiori, come fanno le piante sulla terra in primavera alla luce del sole giunto nella costellazione dell’Ariete; e le fronde e i fiori che appaiono hanno un colore a metà fra il colore delle rose e quello delle viole, cioè il colore della porpora:

Come le nostre piante, quando casca giù la gran luce mischiata con quella che raggia dietro a la celeste lasca,

turgide fansi, e poi si rinovella di suo color ciascuna, pria che ’l sole giunga li suoi corsier sotto altra stella;

men che di rose e più che di vïole colore aprendo, s’innovò la pianta, che prima avea le ramora sì sole.

(Purg. XXXII 52-60)

A questo punto, il corteo intona un inno celestiale che Dante comincia ad ascoltare prima di addormentarsi al suo suono.

La critica ha qui riconosciuto unanimemente la redenzione operata da Cristo nei confronti dell’uomo: la pianta, quale che sia il suo significato specifico, essendo comunque espressione del peccato di Adamo che l’ha dispogliata, viene restaurata dal sacrificio di Cristo che, in obbedienza e in conformità alla volontà divina col suo sacrificio (richiamato

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evidentemente dalla porpora delle fronde),96 ha rispettato la pianta e l’ha fatta rifiorire.97

Ora, è comunemente accettata l’ipotesi che questo gesto permetta di ricondurre l’umanità decaduta alla sua primigenia innocenza. Intendendo così la vicenda, tuttavia, si rende necessario concedere almeno che questo sia solamente uno stadio intermedio verso la beatitudine finale, tra l’altro passaggio fondamentale non per tutte le anime, ma solo per quelle purgatoriali.98 Questo chiarirebbe innanzitutto la differenza fra le terre beate degli

antichi, “ricercate” come felicità perduta e impossibile ma desiderata meta di ritorno, e il Paradiso Terrestre della tradizione cristiana, collocato fuori del tempo ma comunque da superarsi nel tragitto verso la beatitudine celeste. La storia dunque sarebbe tesa ad un ritorno circolare allo stato iniziale, prima – in ogni caso – di slanciarsi verso la felicità eterna – ma questa volta fuori del tempo.

Ad esempio, Giancarlo Mazzacurati – nell’avvicinarsi criticamente all’episodio che va in scena nell’Eden – delinea una struttura segnata dall’opposizione fra miti della reintegrazione «come modelli di un ritorno all’innocenza edenica», e i simboli del male

storico. Mazzacurati vorrebbe identificare in questo modo «la struttura centrale del suo [di

Dante] sistema ideologico, cioè la sua tipica aspirazione ad un archetipo primo e immutabile, ad una condizione statica, remota o futura, delle cose: ricerca che nel suo codice si identifica con la pace, con l’Eden».99 Per altro verso, Gianni Oliva è dapprima

acuto nel sottolineare che «i contatti degli albori del Cristianesimo con la tradizione ebrea avevano fatto sì che la nuova “filosofia” ereditasse la concezione dell’eternità non opposta al tempo, ma come dilatazione all’infinito di esso, stabilendo tra l’una e l’altro solo una “differenza quantitativa”»; ma subito dopo aggiunge, continuando il commento al canto: «L’esperimento della primigenia condizione, della vita rinnovata, il confronto tra

96 E. Bertin, Canto XXXII. Dalla Genesi all’Apocalisse, cit., richiama opportunamente il celebre inno di Venanzio Fortunato, il Vexilla regis prodeunt, come ipotesto che ci porta a «scorgere nel colore dei fiori danteschi sia la passione cruenta di Gesù, sia la sua dignità regale, di cui la croce, imporporata dal sngue, è l’emblema più alto», e a rafforzare il paolino legame Adamo-Cristo (p. 963). Ma è necessario ricordare anche la lettura di Prandi riguardo ai colori delle viole e delle rose, che riporta passi della Vitis mystica dello Pseudo- Bernardo, e che interpreta dunque la fioritura dell’Eden, oltre il viola dell’umiltà del sacrificio di Cristo ma prima del rosso della carità celestiale, un momento-soglia verso la beatitudine, e verso la comprensione della crocifissione nel suo valore escatologico (cfr. S. Prandi, Il diletto legno, cit., pp. 106-107).

97 «Secondo una tradizione esegetica che rimonta ad Ireneo e Tertulliano, il rinverdire dell’albero secco rappresenta, lo ripetiamo, la trasformazione dell’albero della conoscenza del bene e del male, causa della caduta, nell’albero della vita, trasformazione resa possibile soltanto dal sacrificio di Cristo» (Ivi, p. 105). Potremmo legare questa lettura al percorso delle presenti pagine dicendo che quello esposto da Prandi è il livello letterale dell’evento e della rappresentazione, mentre l’identificazione della pianta con la iustitia originalis si colloca sul piano allegorico-morale, come tra l’altro sembra indicare Beatrice con il suo «moralmente». 98 Cfr. F. Santi, La natura dal punto di vista di Matelda (Purg. XXVIII), in La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 137-155: pp. 149-150.

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l’immobilità meta-storica e la storia, provocano l’inesorabile ricordo della felicità smarrita, a tal punto che tutte le linee della nostalgia purgatoriale convergono in quel sommesso mormorio venato di accorato rammarico del nome di colui che gettò l’umanità nell’abisso del peccato», Adamo.100

Mi sembra che una concezione come quella espressa dai passi citati non tenga conto del fatto che, già a partire da Agostino lettore di san Paolo, il giardino dell’Eden era collocato in una prospettiva temporale, tappa iniziale di uno sviluppo che prevedeva – nel piano di Dio – la traslazione dell’essere umano dalla temporalità all’eternità:101

Il riferimento al primo uomo [nell’Epistola ai Romani] non significa che Paolo si dimostri interessato alla condizione iniziale dell’uomo, quasi fosse un paradiso perduto da riconquistare. Adamo è solo “la figura di chi doveva venire” (Rm 5,14), cioè Cristo, e ne è una figura al contrario, nel senso che “come mediante la colpa di uno solo si ebbe su tutti gli uomini la condanna, così anche mediante la giustificazione di uno solo si ha su tutti gli uomini la giustificazione di vita” (Rm 5,18). Tuttavia il dono (hárisma) di Dio sopravanza di molto la colpa umana (Rm 5,15), e la redenzione in Cristo non è perciò intesa come recupero di una dimensione protologica, ossia di un ritorno all’Adamo primitivo. Si tratta piuttosto di un’irruzione escatologica, “l’ultimo Adamo”, come Paolo ha già spiegato nella prima Lettera ai Corinzi (15, 45-49), parlando della resurrezione finale in cui il corpo corruttibile rivestirà l’incorruttibilità, portando l’immagine dell’uomo celeste, il Cristo “pneumatico”.102

Un’idea centrale nel sistema di pensiero della teologia cristiana, dalla patristica alla scolastica, e che Dante stesso rimanda alla mente del lettore con le parole di Matelda: «questo loco / [Dio] diede per arr’ a lui [l’uomo] d’etterna pace» (Purg. XXVIII 92-93). Il

luogo in cui Dante si trova era semplice caparra della pace futura ed eterna, tanto che esso è specificamente descritto come «alta selva vòta» (Purg. XXXII 31): che le anime purgatoriali lo

attraversano come semplice luogo di passaggio, ed è altamente probabile che le anime destinate direttamente al Paradiso dopo la morte non vi transitino neppure. Dunque meno mèta d’arrivo di un possibile ritorno, e piuttosto, ormai, tappa transitoria da superarsi definitivamente in direzione della beatitudine celeste.103 Quello che vorrei sottolineare qui,

100 G. Oliva, Lo spettacolo dell’Eden, cit., p. 435-437.

101 Cfr. anche le parole di Pietro Lombardo, Lib. Sent. II, d. XXII, c. 6. 102 L. Cova, Peccato originale, cit., pp. 27-28.

103 È quanto ha scritto anche François Livi a proposito del nostro episodio: «Lieu de transition entre le purgatoire (appelé à disparaître à la fin des temps) et la gloire du Paradis, récapitulation d’une histoire

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in sintesi, è che, se la critica ha sempre riconosciuto che il Paradiso Terrestre non è che uno stadio, un momento, evenenzialmente circoscritto nel poema, verso il Paradiso vero e proprio, mi sembra che non sempre si sottolinei con la giusta precisione il sentimento con cui l’occhio del teologo medievale osservava la dimora dei suoi antenati.

Per prima cosa, la concezione temporale che il pensiero cristiano ereditava dalla cultura ebraica non permetteva di immaginare la storia come un ripetersi costante e immutabile di cicli e situazioni, ma permetteva di sfuggire alla logica dell’eterno ritorno scoprendo il tempo come un magma di numerosi cicli (naturali e storici, annuali e mensili) inseriti però in una progressione affatto lineare;104 e anche su questa base si giustifica la possibilità di una

allegoria figurale storica, per cui Dante riconosce nella vicenda dei primi parenti, in qualche modo, la propria stessa vicenda, e allo stesso tempo diventa paradigma di ogni esistenza umana, prima e dopo di lui. Quello cioè che era il sistema delle letture spirituali della Bibbia assume qui dei tratti in qualche modo inediti, se pensiamo che il pellegrino – per volere

humaine qui trouve dans le Rédemptor son alpha e son oméga, le Paradis terrestre est le lieu d’élection pour une telle révélation. Détruit par le péché originel, rétabli par le Christ dans sa beauté, l’Éden résume, par ses rites, l’histoire tourmentée de l’humanité. Il est logique que l’ultime apocalypse, la dernière révélation sur l’avenir de l’homme viator, sur l’organisation juste la vie de la cité, parvienne de ce lieu où la notion de temps a encore un sens» (F. Livi, De la purification au Paradis Terrestre. Regards sur le “Purgatoire” de Dante, in De Florence à

Venise. Études en l’honneur de Christian Bec, a cura di F. Livi e C. Ossola, Paris, PUPS - Presses de l’Université

Paris-Sorbonne, 2006, pp. 41-62: p. 56). Alla medesima sottolineatura giunge anche K. Foster, The Two Dantes

and Other Studies, London, Darton Longman and Todd, 1977: «There is nothing ultimate about the Earthly

Paradise in the Comedy. […] The humanist ideal has become a phase through which Dante passes on to his true goal, the ‘trasumanr’ of Paradiso» (p. 197). Non mi sembra perciò plausibile una lettura del giardino dell’Eden, perlatro non suffragata da alcuna fonte, come la seguente: «Il Paradiso Terrestre era stato creato da Dio perché, senza sofferenza, l’uomo, da lui creato, vi vivesse la sua vita immortale. Era stato, questo di Dio, un atto di amore condizionato come si sa, da un divieto. Ma, ripensato alla luce del Nuovo Testamento, l’idea di un luogo di spirituale e materiale felicità appariva non facilmente armonizzabile, nel segno della coerenza, con quella dell’Inferno e, soprattutto, del Paradiso. Se Adamo avesse corrisposto al comando di Dio, se non avesse peccato e la vita dell’umanità nata da lui e da Eva si fosse svolta, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, in quel luogo, al quale estranee erano la sofferenza e la morte, non è azzardato dire che, come non ci sarebbe stato l’Inferno, così nemmeno il Paradiso ci sarebbe stato a rappresentare una più compiuta e perfetta felicità» (G. Sasso, Matelda nel suo contesto. Considerazioni e ipotesi, in “La Cultura. Rivista di filosofia letteratura e storia», 50, 2012, 3, pp. 363-442: p. 373).

È da considerare infine che nel XIII secolo la distinzione fra i due paradisi (terrestre e celeste) è

definitivamente risolta, non è più possibile fare confusione fra i due, e Dante risente sicuramente di questa sistematizzazione (Cfr. A. Ghisalberti, Le radici filosofiche e teologiche del Paradiso, in Il trittico di Cacciaguida. Lectura

Dantis Scaligera 2008-2009, a cura di E. Sandal, Roma-Padova, Antenore, 2011, pp. 169-186: pp. 173-174).

104 «Per il cristianesimo il tempo è reale poiché ha un senso: la redenzione. “Una linea diritta traccia il cammino dell’umanità dalla caduta iniziale fino alla redenzione finale. […]” [H.C. Puech, La Gnose et le temps, pp. 70ss.] Ma, a dispetto della reazione dei Padri della Chiesa, le teorie dei cicli e delle influenze astrali sul destino umano e sugli avvenimenti storici sono state accolte [nei primi secoli], almeno in parte, da altri Padri e scrittori ecclesiastici… […] In breve, il medioevo è dominato dalla concezione escatologica (nei suoi due momenti essenziali: la creazione e la fine del mondo), completata dalla teoria della ondulazione ciclica che spiega il ritorno periodico degli avvenimenti. Questo doppio dogma domina la speculazione fino al secolo

XVII, anche se parallelamente comincia a farsi luce una teoria del progresso lineare della storia. Nel medioevo i germi di questa teoria sono riconoscibili anche negli scritti di Alberto Magno e di san Tommaso, ma soprattutto nell’Evangelo eterno di Gioacchino da Fiore» (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (archetipi e ripetizione), Bologna, Borla, 1975, pp. 181-183).

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della provvidenza divina – è (e sarà) l’unico uomo cui da vivo è permesso di entrare nel Paradiso Terrestre e rivivere il dramma delle prime creature umane nel luogo da loro perso per sempre; con le parole di Giorgio Bàrberi-Squarotti:

Tutto ciò che Beatrice dice, ricostruendo la storia di Dante, è in funzione di tale rappresentazione esemplare dell’esperienza dell’uomo, fra grazia e tentazione intellettuale: e, allora, il fatto che la rappresentazione si svolga nel Paradiso terrestre e che così di frequente sia richiamata la colpa di Eva, che ha condotto l’umanità nello stato di degradazione e di corruzione rispetto all’innocenza e alla purezza originarie, risponde all’esemplare accusa a Dante e, attraverso Dante, a ciascun uomo, di aver riproposto i termini della colpa di origine, cercando la verità al di fuori della sola via che la garantisce e che è, come è noto dalla formula evangelica, Cristo. Lo sviamento di Dante ripete, in qualche misura, quello di Eva e di Adamo, così come Beatrice è funzione della grazia divina.105

Ma, in secondo luogo, l’avvenimento dell’Incarnazione e della Redenzione di Cristo, con tutte le sue conseguenze sull’esistenza dell’essere umano caduto, conduceva questi a sentirsi parte di una condizione e di una storia che si rivelavano essere ben di più dell’innocenza originaria dei suoi progenitori, e lo spingeva a osservare la condizione perduta con nostalgia, da un lato, e allo stesso tempo con la coscienza di qualcosa che, perduto, non era forse più necessario ritrovare in quanto tale, mentre l’attesa era tutta rivolta al futuro e a una – per quanto imperscrutabile – novità.

Questo mi sembra l’animo con cui Dante scrive e racconta dell’Eden nella Commedia, e una tale possibilità sono sicuro giustifichi il sentimento di profonda tensione, di drammatica attesa, che percorre i versi e la narrazione di questi canti.106 Rimane aperta la

105 G. Bàrberi-Squarotti, Nel Paradiso terrestre: l’allegoria, cit., p. 211. E poco prima: «Il nome di Dante “di necessità qui [in questi canti] si registra” anche nel senso che ci troviamo di fronte a un exemplum che solo per

accidens riguarda l’autore del poema che si dispiega davanti al lettore, ma che va letto al di là dell’indicazione

personale e privata, nel suo valore di allegoria di ogni storia umana di salvezza dopo il disviamento del peccato» (p. 209).

106 A proposito del gesto del grifone, Peter Dronke riporta l’interpretazione del sogno di Nabucodonosor offerta da Riccardo di San Vittore nel De eruditione hominis interioris, pur ammettendo che non è facile stabilire se Dante l’abbia letta o meno: nonostante ciò, e malgrado sia una fonte di necessità esclusa dal percorso limitato di questo studio, essa propone una dinamica alquanto simile a quella appena proposta: «Sembra che qui il profeta mostri, sulla base di una visione mistica, come può avvenire che gli uomini virtuosi gradualmente vengano meno, e tramite certi gradi di detrimento cadano nelle profondità e, per mezzo della grazia visitante, a volte si elevino di nuovo al loro stato spirituale precedente, o piuttosto ad uno ancora più alto… Perché cos’altro significa il fatto che Nabucodonosor abbia ricevuto la visione mistica, l’abbia persa, e poi l’abbia nuovamente conosciuta più pienamente… se non che la grazia della contemplazione è per un certo

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diatriba sul valore allegorico e figurale del Paradiso Terrestre secondo Dante, che affronteremo però più avanti.

b. Paradiso VII

Poco sopra, abbiamo proposto l’identificazione dell’albero con la iustitia divina, sulle tracce che Dante ha lasciato nelle parole di Beatrice; iustitia Dei intesa però nel suo rapporto con il genere umano, e in quella particolare forma che è stata definita la iustitia originalis.

Queste le parole della donna beata, prima che ella proponga il legame fra l’albero e la giustizia:

«E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi.

Qualunque ruba quella o quella schianta, con bestemmia di fatto offende a Dio,

che solo a l’uso suo la creò santa.

Per morder quella, in pena e in disio cinquemilia anni e più l’anima prima bramò colui che ’l morso in sé punio».

(Purg. XXXIII 55-63) [corsivi miei]

Sono parole che aprono alla considerazione di un secondo ramo della dottrina cristiana medievale, dopo quello del peccato originale e ad esso legato intrinsecamente: si tratta del tema della satisfactio per il peccato dell’uomo operata da Cristo. La costruzione della base ideologica del problema si deve ad Anselmo di Canterbury nel suo Cur Deus Homo, mentre lo sviluppo sistematico della dottrina avviene sì a partire dal testo di Anselmo ma, ancora una volta, precipuamente nei commenti alle Sententiae lombardiane.

Al cuore del problema sta la constatazione che il peccato del primo uomo ha privato Dio di qualcosa che gli apparteneva (abbiamo visto Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura riprendere nei loro testi la privatio originalis iustitiae anselmiana), e per questo è necessario che l’uomo lo rifonda e lo ripaghi di quanto è stato sottratto. Le domande a cui i

tempo donata dalla divinità, per un certo tempo revocata, ed infine restaurata in forma più varia?» (citato in P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 102).

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teologi scolastici tentano di rispondere sono le seguenti: era necessaria una sofferenza volontaria come quella di Cristo per soddisfare il debito? La satisfactio poteva avvenire con la restituzione di un bene diverso da quello di cui Dio è stato dirubato, o era necessario restituire lo stesso bene in una forma rinnovata e “riparata”? I termini danteschi nelle tre terzine appena viste richiamano il lessico giuridico proprio della trattazione anselmiana e poi scolastica: dirubata, «che solo a l’uso suo la creò santa», punio.

In realtà, ciò che avviene in questi versi da parte di Beatrice è un semplice e diretto, per quanto non ancora perspicuo, svelamento delle immagini osservate come in una visione dal pellegrino. È forse il ruolo di gran parte dei fatti del Paradiso Terrestre, nei quali con una frequenza piuttosto alta ricorre il termine velo (con il denominale velare): su 26 occorrenze del termine e dei suoi derivati in tutto il poema, e su 14 occorrenze purgatoriali, 7 sono