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Provando a ripercorrere e sintetizzare i passi fatti fino adesso, vediamo che Dante per prima cosa, purgata la facoltà del libero arbitrio, si addentra nella «selva antica», scoprendo un paesaggio, una natura nei quali gli elementi si rapportano l’un l’altro in armonia, o meglio, assecondano volentieri la volontà divina che ha istituito quel luogo a principio. Ai suoi occhi appare una donna, Matelda, il cui nome verrà svelato solo più avanti, e simbolo dell’essere umano nella condizione di iustitia originalis posseduta dai protoparenti. Dante si trova la strada sbarrata da un fiume, e l’ardente suo desiderio di unirsi con la donna che incarna lo status innocentiae perduto dal genere umano è pari all’odio per il corso d’acqua. Ma l’ostacolo è occasione proficua per ricordare la tragica vicenda di Serse re di Persia, «ancora freno a tutti orgogli umani» (Purg. XXVIII 72). Non è destino del pellegrino possedere la

giustizia originale nella modalità con cui essa venne donata all’alba dell’umanità: Dio ha prestabilito un’altra strada: e prevaricare questo impedimento costituirebbe il ricadere nella

superbia che caratterizzò il peccato di Adamo ed Eva. Siamo in un’ottica del tutto nuova

rispetto a quella dell’antico pensiero classico, ed esplicitata anche da Virgilio dramatis persona, che pur nell’inattuabilità tendeva in qualche modo a un ritorno allo stato di felicità primigenio confusamente intuito.

Interpellata da Dante, Matelda svela a Dante gli «intendimenti» dei «sembianti» da lui osservati, spiegando la radice del luogo in cui si trova: esso fu stabilito da Dio come luogo per l’essere umano, in attesa di trasportare quest’ultimo allo stato di beatitudine eterna.

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Dante comincia a comprendere ciò che vede, e ciò che ha perduto: «là dove ubidia la terra e ’l cielo» (Purg. XXIX 25), dove cioè la natura era di esempio all’uomo che avrebbe dovuto

armonizzare la propria volontà con quella divina, Eva «non sofferse» di sottomettersi al monito divino.

Giungiamo quindi, con l’apparire della processione, alle soglie dell’incontro con Beatrice. È oramai indubbio che l’incontro fra Dante e Beatrice nel Paradiso Terrestre stia a rappresentare «una “microstoria” vera che rispecchia quella dei due sacri sposi del Cantico [dei Cantici]» cioè sia analogia di quella misteriosa unione fra Sposo e Sposa che nel libro “salomonico” viene dipinta con tratti profondamente erotici e carnali, e che l’esegesi cristiana ha alternativamente letto come unione fra l’anima umana e il Verbo divino, come vincolo fra Cristo e la sua Chiesa, e anche come legame che con l’Incarnazione si instaura fra Dio e la Vergine Maria.248 Ma potremmo osservare che, come la seconda faccia di una

stessa medaglia, il dialogo fra Beatrice e Dante fa emergere una seconda e doppia analogia: quella fra l’esperienza di Dante e la vicenda del primo uomo, Adamo, da un lato, e quella fra la storia particolare di Dante e la storia di ogni essere umano;249 con la precisazione che,

per quel che viene descritto e raccontato, si può dire che la prima sia inglobata nella seconda, o – in altri termini – che nella Redenzione dal peccato, in qualche modo, ogni uomo ripercorre e supera la vicenda e la colpa di Adamo.

Così, il filo che viene drammaticamente teso fra la storia del primo uomo e Dante, annodato in particolare nel momento della confessio di fronte a Beatrice trova, nell’immediato superamento del fiume Letè, l’esemplificazione allegorica dell’altro avvenimento storico che di questo legame è causa e fattore unificante: la Redenzione compiuta da Cristo con la sua Incarnazione e la sua Passione, raffigurata nell’atto con cui il grifone aggancia il carro su cui avanza Beatrice alla «pianta dispogliata», facendola fiorire nuovamente. Come specificherà la donna beata poco oltre, l’albero nel suo valore storico evidentemente è la pianta della conoscenza del bene e del male di cui i protoparenti presero il frutto, ma moralmente va inteso come la «giustizia di Dio». Questo tuttavia non nel senso dell’eterna e immutabile giustizia divina, quanto nel senso della iustitia originalis consegnata in dono ad Adamo ed Eva e alla natura umana tota, e da essa perduta con la prima

248 Cfr. L. Pertile, La puttana e il gigante, cit., pp. 23-42.

249 «Il tema autobiografico è innalzato sul piano esemplare della vita eterna, cosicché l’autore che dice ‘io’, parlando di sé, adombra il cristiano cui si riferisce il ‘noi’ sotteso alla Commedia fin dal verso iniziale, nel quale Dante associa al suo destino quello di tutti gli uomini del suo tempo e forse di ogni tempo» (G. Cavallini,

Canto XXX, in Lectura Dantis Neapolitana. Purgatorio, a cura di P. Giannantonio, Napoli, Loffredo, 1989, pp. 579-593: p. 580).

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trasgressione. Per comprendere quanto avviene nell’Eden dantesco sotto il velo dell’allegoria, e nella «narrazion buia» di Beatrice (secondo le sue stesse parole, Purg. XXXIII

46), è necessario attendere ancora un poco il prosieguo del poema, nella cantica successiva. Nel canto VII del Paradiso infatti, Beatrice illustrerà all’ormai celeste pellegrino il grande e

mirabile disegno divino, per cui la misericordia e la liberalità divine predisposero l’abbassamento di Cristo ad incarnarsi (e a morire) come strumento affinché il genere umano, la cui natura integra era stata menomata dal peccato di Adamo, fosse in grado di rilevarsi da sé.

Da questa concezione della natura umana discende l’ipotesi che attraverso la Grazia, in seguito alla restaurazione compiuta da Cristo, il genere umano pervenga a una condizione solo in parte riconducibile alla primordiale: Matelda infatti, dopo essere stata ardentemente desiderata da Dante, viene in qualche modo “superata” dall’arrivo di Beatrice. È stato evidenziato che una prospettiva che distingua ontologicamente e con decisione i due momenti storici ha corso il rischio, nello sviluppo della storia della teologia, di separare la creaturalità dall’uomo dalla sua relazione con Gesù Cristo, mentre la sintesi di Tommaso riporterebbe il discorso sull’assolutezza del piano divino proprio in Gesù Cristo (visione poi assunta dal magistero con il Concilio di Trento).250 Tuttavia non si può negare che

Dante non viva e non dimostri una accesa nostalgia dell’Eden (come dimostra il già ricordato desiderio smodato per Matelda di fronte all’ostacolo del rivo), nostalgia nutrita probabilmente anche dalla passione per la classicità, e mancanza di una piena comunione di volontà con Dio; tra l’altro, senza apparenti dilazioni (come nel pensiero di Bonaventura) fra la creazione e la concessione della grazia, o senza distinzioni – nello stato originario – fra natura e grazia: una visione teologicamente abbastanza originale, che abbiamo in parte ricondotto alla visione di Riccardo di Mediavilla (per il suo equilibrio) ma che è ampiamente nutrita di elementi classici, poetici e anche – per altro verso – appartenenti a una certa mistica cistercense e bernardiana. Questa nostalgia comunque viene infine superata e ribaltata dall’avvenimento dell’Incarnazione, la quale in certo modo porta anche a compimento la situazione adamitica dell’uomo. In questo modo la centralità della figura di Cristo non è ridimensionata ma solo riconfigurata.

Così, vediamo la pianta dell’essere umano nella condizione di iustitia venire rinnovellata, e il percorso del pellegrino divenire pronto per addentrarsi nelle profondità della volta

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celeste, fino all’Empireo, reggiungendo altezze che nemmeno la condizione primigenia di Adamo ed Eva potè raggiungere nella permanenza nell’Eden. È dovuta a questo la decisa correlazione spaziale fra Gerusalemme (luogo del sacrificio di Cristo e punto di partenza del viaggio dantesco), montagna del Purgatorio ed Eden, correlazione di cui si è parlato in apertura di capitolo: è uno stretto vincolo infatti quello che unisce la Caduta, la Redenzione e la seconda venuta di Cristo nella vita di ogni uomo, in attesa della fine della storia allorquando ogni uomo potrà godere della beatitudine celeste in possesso del proprio corpo glorioso. La storia non è un circolo, ma piuttosto una spirale, che nel momento in cui sembra ricongiungersi su se stessa con il punto di partenza e di origine compie invece un deciso passo in avanti o, meglio, in profondità. Leggiamo a questo proposito le parole di Stefano Prandi, riguardo alla strutturazione fisica e geografica del viaggio dantesco:

La strutturazione del viaggio dantesco si costituisce sulla base di un percorso a spirale attorno ad un asse, che ha come punto paradigmatico d’inizio la croce, come punto reale la selva, prosegue con due punti chiave – Lucifero e la «pianta dispogliata» dell’Eden (che, attraverso il riferimento al mistero della Passione, si fondano sulla commistione della simbologia dell’albero e di quella della croce), e si conclude al «centro» della rosa dei beati nella visione finale… […] [Il percorso del pellegrino] si costituisce come esatta antitesi di quello di Adamo, e comunque appare fortemente connotato, specialmente nelle prime due cantiche, dalla simbologia pasquale.251

E protagonista di questo percorso non è innanzitutto l’intelletto umano, ancora chiuso nella sua finitezza, ma la volontà, condotta già in questa vita a una possibile – per quanto misteriosa e non del tutto completa – unità con la volontà divina, per la quale «cotanto è giusto quanto a lei consuona» (Par. XIX 88).

251 S. Prandi, Il diletto legno, cit., pp. 115-116. Prandi richiama la data iniziale del viaggio, il Venerdì santo 8 aprile 1300, e il fatto che nei momenti decisivi del cammino viene evocato il rito battesimale, in cui il peccato originale e la redenzione da parte di Cristo, con il suo sacrificio, si trovano strettamente uniti.

160 CAPITOLO 3

PREDESTINAZIONE E GIUSTIZIA, GRAZIA E LIBERTÀ NELLA C

OMMEDIA

È risultato evidente dalla disamina del primo capitolo che un secondo ambito attorno cui si coagulano reiterate citazioni dalle Sententiae è la questione del rapporto fra predestinazione e grazia, da un lato, e merito individuale e libero arbitrio dall’altro. I luoghi lombardiani più frequentemente ricordati sono la distinzione XLI del I libro delle Sententiae e le distinzioni XXV e XXXII del III libro;1 i passi danteschi in occasione dei quali si rimanda al testo del Magister sono i canti XIX e XX del Paradiso, nel cielo di Giove, e il canto XXXII, pochi istanti

prima della visione finale.

Ed effettivamente, come nel caso del peccato originale, è giusto rilevare che i testi specialmente deputati a discutere l’annoso problema della predestinazione (e della grazia) erano proprio, nei secoli XII-XIV, i commenti alle Sententiae. Si tratta di un problema che

riguardo alla Commedia si riallaccia senza soluzione di continuità alle linee seguite nel capitolo precedente, e che – per il suo carattere fondante – va ad abbracciare, in qualche modo, l’interezza del poema.

Il discorso si svolgerà essenzialmente in due parti: la prima dedicata al commenti dei canti XIX e XX, e alla sorte dei pagani virtuosi; la seconda dedicata ai rapporti fra grazia e

libertà (e conseguentemente alla predestinazione) nella Commedia (a livello prima dottrinario e poi narrativo) e nella teologia del XIII secolo, cui il poema fa sempre e comunque

riferimento, per quanto in maniera assolutamente originale. Nella prima parte le Sententiae e i relativi commenti saranno chiamati in causa in misura minore, mentre svolgeranno un ruolo centrale nella seconda parte; quest’ultima si riannoderà, alla fine, anche alle conclusioni provvisorie della prima parte, completandole.

1 Cfr. ad es. B. Martinelli, La fede in Cristo. Dante e il problema della salvezza (Paradiso XIX), in Id., Dante. L’altro

viaggio, Pisa, Giardini, 2007, pp. 289-319: «[Dante] cerca di determinare – la forma è quella di una determinatio magistralis: è, infatti, l’aquila divina che parla – una delle questioni più dibattute tra il XIII e il XIV secolo, sulla scorta soprattutto del III libro, distinzione 25, delle Sententiae di Pietro Lombardo, la questione della salvezza di tutti coloro che sono vissuti senza peccato alla sola luce della legge naturale, ma ignorando la venuta di Cristo» (p. 291).

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