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In un recente articolo 221 Nicola Fosca ha rifiutato l’identificazione del momento

dell’immersione nel Lete con un passaggio qualsiasi del percorso “classico” della iustificatio, tanto meno con il Battesimo. Dirò subito che il presupposto su cui si fonda l’accurato studio è l’ipotesi della riconquista da parte delle anime, nell’Eden, dello stato di innocenza primitiva e della giustizia originaria. Questo escluderebbe sia l’identificazione dell’immersione con il Battesimo, dal momento che questo elimina solo responsabilità, mentre l’innocenza presuppone la cancellazione completa della colpa d’origine, cioè cancellazione del fomite,222 sia un possibile significato legato alla liturgia penitenziale:

L’immersione nel Lete rappresenta per alcuni studiosi la satisfactio operis (che a rigore esigerebbe una spontanea azione automortificatoria), mentre per altri (sempre in ambito sacramentale penitenziale) costituisce il momento dell’assoluzione: tutto questo risulta inaccettabile, se si pensa che effetto dell’immersione è la conquista della giustizia originale e

220 Si ricordi ad esempio il tentativo di ascesa al colle illuminato dal sole raccontato in Inf. I 13-30.

221 N. Fosca, Dante e Beatrice nell’Eden, in “L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca”, n.s., 33, 2009, pp. 45- 63.

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dell’innocenza, che eccede radicalmente tale ambito e – possiamo dire – l’ambito “terreno”. (p. 57).

Fra le ipotesi che il nostro discorso ha provato fino a qui a dimostrare, c’è come abbiamo visto quella per cui in realtà il pellegrino Dante non riconquista l’effettiva innocenza originaria, ma una condizione diversa che purtuttavia garantisce la stessa unione e immedesimazione fra volere umano e volere divino. Per questo, la tesi appena citata mi sembra basarsi su un assunto per lo meno dubbio, e per questo mi sembra che gli ambiti che Fosca esclude dal suo ragionamento siano almeno da riconsiderare.

Innanzitutto, per lo studioso la situazione all’altezza dell’Eden è che la meditazione sulle pene eterne (attuatasi nell’Inferno) ha condotto Dante alla giustificazione e a emendare la

culpa. Salendo il Purgatorio poi il pellegrino si è liberato delle reliquiae peccati (ossia la conversio ad bonum commutabile); ma non ha ancora curato al meglio la aversio a Deo, per cui non può

ancora far parte della Chiesa mistica, fatto che avviene accedendo all’Eucaristia, compimento di quel processo che il Battesimo aveva solo cominciato. E dal momento che non siamo più nella dimensione terrena, il medesimo ruolo dell’Eucaristia avrà qui l’immersione nel Lete. In realtà, sappiamo che la situazione a proposito del processus

iustificationis nella teologia duecentesca era piuttosto variegata, e che per esempio la struttura

classica del processo, istituita da Pietro di Poitiers e accettata sostanzialmente sia dalla scuola francescana che da quella domenicana, era scandita da quattro momenti in questo modo disposti:

1. l’infusione della grazia;

2. il movimento del libero arbitrio verso Dio, attraverso la fede;

3. il movimento del libero arbitrio contro i peccati (identificato spesso con la contritio); 4. la remissio dei peccati.

E sappiamo che Tommaso nella Summa tiene a specificare che il movimento del libero arbitrio verso Dio precede quello contro i peccati, in quanto il primo è causa movens del secondo.223

La configurazione del sistema della giustificazione non è dunque così rigido e monolitico come si potrebbe pensare. Quello che invece mi preme sottolineare è che tutta

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la scena edenica sembra proprio costruita attorno a un costante motivo liturgico, tanto dal punto di vista spirituale quanto dal punto di vista fisico-spaziale, come ha mirabilmente mostrato Marco Santagata,224 i cui studi mirano a identificare l’immersione nel Lete col

battesimo e l’attingere alle acque dell’Eunoè con la confermazione o cresima. Analogamente, Anna Pegoretti inanella una serie di simboli e immagini (dal gelso cardine della vicenda di Piramo e Tisbe, e annuncio della Croce di Cristo secondo Agostino, alla varia e molteplice simbologia della “pianta”) che con decisione ripresentano il saldo legame fra il peccato di Adamo e l’opera di Cristo, esplicitazione storica di una dimensione eterna di significato, e che vengono ricapitolati nella contingenza del rito liturgico-battesimale, passaggio cruciale per la vita di ogni credente.225

È noto infine che l’evoluzione del concetto di iustificatio, nel corso dei secoli, ha assistito all’intreccio sempre più stretto coi sacramenta mortuorum, cioè battesimo e confessione. In questo percorso gioca un ruolo importante Pietro Lombardo, per due motivi. Da un lato, per la definizione di sacramento proposta nelle Sententiae che, escludendo la necessità di un elemento materiale dall’esterno perché il rito abbia compimento, permette alle soglie del

XIII secolo di includere la penitenza fra i sette sacramenti; dall’altro lato, offrendo nella

distinzione XVII del IV libro delle Sententiae, il campo di discussione per lo sviluppo

successivo della teoria della giustificazione.226 E se Fosca riprende le discussione dei dantisti

riguardo al momento, fra i diversi passaggi topici del canto XXXI, in cui collocare

l’adempimento della satisfactio operis, da parte mia vorrei accennare al fatto che, immediatamente dopo Anselmo e anche grazie a Pietro Lombardo, «by the early twelfth century the emphasis appears to have shifted from satisfaction to contrition, with increasing emphasis being placed upon the inner motivation of the penitent, rather than on his external achievements made as satisfacion for sin».227 Contritio che, come evidenzia

Fosca, i critici alternativamente identificano in Purg. XXXI 20-21 oppure in Purg. XXXI 85-87.

224 È noto il capitolo V del suo L’io e il mondo, cit., pp. 225-290, nel quale fra le altre cose il critico illustra il carattere sacramentale e battesimale dell’episodio edenico, e come i percorsi di Dante, di Matelda e della processione ricalchino i percorsi che compivano i catecumeni entrando prima nel battistero di San Giovanni, e dall’altra parte il clero, dalla cattedrale al battistero e ritorno.

225 Cfr. A. Pegoretti, Dal «lito diserto» al giardino. La costruzione del paesaggio nel Purgatorio di Dante, Bologna, Bononia University Press, 2007, pp. 101-134, in particolare le pp. 122-123. Vi si mostra come lungo l’asse portante del cosmo e del viaggio dantesco si incontrino una serie di simboli cruciali legati al nesso Colpa- Redenzione e all’immagine dell’albero/Croce, accostabile ora alla palma e ora al gelso, richiamato nell’Inferno dai colori dei volti di Satana e nei canti purgatoriali dai riferimenti al mito ovidiano di Piramo e Tisbe. Questi momenti del percorso hanno tutti una dimensione liturgico-battesimale.

226 A. McGrath, Iustitia Dei, cit., pp. 92-94. 227 Ivi, p. 95.

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Sicuramente, e in generale, possiamo sintetizzare affermando che le azioni del pellegrino riguardo ai due fiumi racchiudono e significano la vita sacramentale nel suo aspetto di Redenzione dell’uomo, e nel suo passaggio dallo stato di peccato allo stato di gratia, che poco prima Dante aveva visto allegoricamente raffigurato nel gesto del grifone accanto all’albero dispogliato.228

Una volta uscito dall’acqua, Dante è accolto da quattro fanciulle danzanti:

La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse.

«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi

le tre di là, che miran più profondo». Così cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi».

(Purg. XXXI 100-114)

L’identificazione delle «quattro belle» è abbastanza fuori discussione, soprattutto se letta in correlazione alle successive «tre di là»: si tratta delle quattro virtù cardinali, che conducono Dante verso le tre virtù teologali e Beatrice. Quello che è stato molto discusso è il messaggio che esprimono le loro parole al v. 106: «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo

228 Credo sia nel giusto Marietti, quando scrive: «Con ogni evidenza, quel rito concerne solo lui, il vivente, che non ha effettuato, come le anime della montagna, la conversione a Dio con la preghiera e la penitenza. La purificazione delle anime purganti si svolge senza mediazioni, per una specie di tacito contratto spirituale col quale misericordia e giustizia, le due facce di Dio, sono equamente soddisfatte. […] Questa originalità del Purgatorio dantesco si troverebbe annientata se le anime dovessero poi, come Dante personaggio, venir sottoposte al passaggio del Lete e dell’Enuoè sotto la guida di Matelda, e la cantica – come questo personaggio femminile – vi perderebbe gran parte della sua poesia. Niente nel testo autorizza del resto una tale interpretazione del compito di Matelda» (M. Marietti, Guida a Beatrice, in L’umana famiglia. Studi sul Paradiso, Roma, Aracne, 2010, pp. 33-52: p. 39).

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stelle». In primo luogo, perché ci chiediamo: si attua qui una equazione o piuttosto una correlazione che sa anche di distinzione relativa? In secondo luogo perché siamo risospinti, quasi naturalmente, a due terzine di inizio cantica, sulla spiaggia della montagna del Purgatorio:

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle

non viste mai fuor ch’a la prima gente. Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle: oh settentrïonal vedovo sito,

poi che privato se’ di mirar quelle!

(Purg. I 22-27)

Charles Singleton ha proposto a suo tempo229 l’identificazione delle quattro fanciulle con

le virtù cardinali infuse, cioè di quelle virtù che, caratteristiche della dimensione umana e inferiori alle teologali, sono informate anch’esse dalla carità in seguito alla venuta di Cristo. Esse sono perciò distinte dalle corrispettive virtù cardinali acquisite, che erano conosciute e perseguite anche dai pagani venuti prima di Cristo. Rimando alle pagine del critico americano per i passaggi attraverso cui giunge a questa soluzione: i primi e la seconda mi sembrano sostanzialmente ben fondati, e non necessitano di corollari. Quello su cui vorrei segnare un appunto è la conclusione cui Singleton arriva nel ricordare i versi del primo canto del Purgatorio, e la risposta al perché Dante rapporti il rimpianto del genere umano alle sole quattro virtù cardinali, e non rinnovi la sottolineatura allorchè, a Purg. VIII 85-93,

racconta della visione delle altre tre stelle, le virtù teologali. Dopo aver ricordato che l’esegesi antica (Ambrogio, Agostino…) identificava i biblici quattro fiumi dell’Eden con le quattro virtù cardinali, Singleton continua così:

Dante non ha fatto altro che trasformare in stelle i fiumi della Genesi. Ma ciò che importa rilevare non è tanto tale metamorfosi, quanto piuttosto che, una volta trovata nell’allegoria dei quattro fiumi dell’Eden la chiave per l’allegoria dantesca delle quattro stelle, siamo in grado di rispondere ad alcuni complessi problemi concernenti l’allegoria del poema. Perché, per esempio, il rimpianto si appunta sulla perdita di quattro stelle o di quattro virtù, e non

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sulla perdita di sette stelle e di tutte e sette le virtù? […] La risposta risulta chiara quando riconosciamo quale fu il modello di Dante per questo punto dell’allegoria, ed è una risposta che ci riporta dritti alla Genesi. I fiumi dell’Eden sono quattro, non sette: questo è quanto ci offre il testo sacro e qualsiasi allegoria deve partire dal fatto dichiarato dalla lettera. […] Nessuno ha mai negato che nell’Eden vi fossero anche le virtù teologali. Anzi, se ci si ponesse la domanda: «Adamo possedeva tutte e sette le virtù?», la risposta dovrebbe essere affermativa. Ma nell’interpretazione allegorica dell’Eden, si partì da quattro e non da sette fiumi. Era perciò inevitabile accentuare il fatto che le quattro virtù cardinali erano virtù caratteristiche dell’Eden e della condizione umana anteriore al peccato.230

Gabriele Muresu, discutendo l’ipotesi di Singleton sulle virtù infuse e acquisite, obietta che «dei distinguo appena formulati non c’è, nelle opere dantesche, alcuna traccia».231 (p.

395). Dante vorrebbe piuttosto mettere in risalto «la disparità esistente tra la sostanziale perfezione con cui la virtù morale – infusa o acquisita che fosse – poteva essere praticata nella condizione edenica e le manchevolezze che, dopo il peccato originale, ineluttabilmente contrassegnano l’umano comportamento etico anche laddove esso cerchi di conformarsi ai più nobili principî».232

Mi sembra che le ipotesi, più che da contrapporre, siano da integrare l’una con l’altra. Da un lato, la disparità di trattamento riservata da Dante alle stelle-virtù (le cardinali e le teologali) non mi sembra solo riconducibile al sostrato biblico, operazione che ridurrebbe entro angusti spazi l’usuale, meticolosa precisione dantesca. Io credo piuttosto che, se il filone ipotetico imbastito finora possiede una qualche valenza, il rimpianto sia limitato proprio alle sole quattro virtù cardinali: sembra giusto osservare che dopo il peccato originale le quattro virtù cardinali non sono conosciute dall’uomo allo stesso modo che da Adamo ed Eva, cioè per natura,233 ma vengono anch’esse come le teologali donate

attraverso la grazia. Questo giustifica anche l’ovvia estensione del mai di Purg. I 24 agli

uomini dopo la venuta di Cristo, e si ricollocherebbe nell’ottica di quella condizione nuova per i redenti in Cristo, rispetto allo stato originario, di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti. È forse per questo, in fondo, che le ninfe sì associano se stesse alle stelle di

Purg. I, ma ne costituiscono in fondo una diversa manifestazione. Che bisogno ci sarebbe

230 Ivi, pp. 333-334.

231 G. Muresu, Una questione dantesca: le quattro stelle (Purgatorio I 22-27), in “Rassegna della letteratura italiana”, s. 9ª, 108, 2004, 2, pp. 381-400: p. 395.

232 Ivi, p. 396.

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stato di introdurre una diversa allegoria (o, se vogliamo, un diverso simbolo) delle virtù cardinali rispetto a quello già presentato in apertura di cantica? A favore di questa lettura gioca anche l’ipotesi, presentata sopra commentando Par. VII, di una concezione dantesca

della natura prelapsaria bonaventurianamente in sé integra e buona, e non soggetto la cui integrità viene dalla sola sovrapposizione dell’azione della grazia, secondo la visione tommasiana.

Dall’altro lato, mi sembra che la distinzione virtù infuse – virtù acquisite non si possa ignorare. All’epoca di Dante il dibattito attorno alle possibili nature delle virtù morali era sicuramente aperto e lungi dall’essere risolto definitivamente. Dopo secoli di gestazione intellettuale (a partire almeno da Ambrogio, Gerolamo e Agostino), erano stati i maestri parigini nel XII secolo, in particolare Pietro Lombardo e Pietro Cantore, a distinguere due

livelli: uno al quale collocare virtù non gratuite e possibili per ogni uomo, e uno al quale riconoscere le virtù che vengono dalla grazia.234 Si trattava del tentativo di costruire un

ponte fra civitas cristiana e antichità classica, riconoscendo una moralità naturale ai non cristiani e riconoscendo le virtù sia a livello della natura, regolanti la vita civile, che a livello della grazia. Dal XIII secolo le due tipologie di virtù cominciarono a dividersi decisamente,

identificandosi in virtù acquisite e virtù infuse, e la teologia cominciò a identificare, generalmente, tre livelli: virtù acquisite tout court, virtù acquisite e successivamente elevate dalla grazia, e virtù propriamente infuse. Il dibattito fra i maestri (in particolare, come al solito, francescani e domenicani), si incentrò su quali fra questi livelli riconoscere e ammettere nell’esperienza umana.235 Tommaso, e con lui buona parte della scuola

domenicana, si battè per considerare tutti e tre i livelli, discorrendo della necessità di possedere virtù morali con lo stesso oggetto materiale delle acquisite, ma ordinanti queste al fine soprannaturale (il fine proprio di ogni creatura umana), e quindi distinte in base all’oggetto formale.236 In risposta a Tommaso si schiereranno fra gli altri Enrico di Gand, il

quale riserva l’aggettivo infuse alle sole virtù teologali e ritiene che le virtù acquisite siano dirette al fine soprannaturale dalla carità, diventando solo in questo modo anche gratuite, e Duns Scoto, per il quale qualsiasi virtù diretta al bene è virtù perfetta: l’unica differenza con le virtù rivolte a Dio è il valore salvifico di queste ultime.

234 Cfr. I. Bejczy, The cardinal virtues in the Middle Ages. A study in moral thought from the fourth to the fourteenth century, Leiden, Brill, 2011, pp. 69-71 e 119ss.

235 Ivi, pp. 184-186.

236 Cfr. O. Lottin, Psychologie et morale aux XII et XIII siècles. 3: Problèmes de morale. 2, Louvain, Abbaye du Mont César; Gembloux, J. Duculot, 1949, pp. 460-469.

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Ora, credo che il presentarsi delle ninfe come qualcosa di esterno a Dante, conseguente alla sua immersione, e il loro essere colorate di purpureo analogicamente alla carità spinga abbastanza decisamente verso una loro interpretazione come virtù infuse. Ammetto che rimane aperta la soluzione di Enrico di Gand, immaginando che il colore rosso nasconda simbolicamente l’ordinamento soprannaturale operato sulle virtù acquisite dalla carità e ascoltando le parole che esse rivolgono al pellegrino: «pria che Beatrice discendesse al mondo, / fummo ordinate a lei per sue ancelle.» (Purg. XXXI 107-108). Non è mio intento

qui provare a decifrare le enigmatiche parole delle ninfe, e stabilire se il nome Beatrice richiami qui semplicemente la donna fiorentina duecentesca, o trascini con sé il ruolo di “grazia” o “carità divina” che ella pare ricoprire in questo segmento narrativo, e quindi se il

discendesse si riferisca alla venuta della Grazia con l’Incarnazione o alla nascita di Beatrice.

Quello che mi interessa sottolineare è la natura delle virtù qui presentate come infuse in seguito al rito dell’immersione nel Lete: natura che risalta tanto più se noi richiamiamo alla mente il fatto che nel primo canto del Purgatorio le quattro stelle si riflettono con chiarezza sul viso di Catone, quasi a identificare le virtù possedute dagli antichi pagani come semplice ma deciso riflesso delle virtù morali celestiali.

Lo schema potrebbe essere quindi questo:

- le quattro virtù cardinali furono possedute in modo perfetto, per natura, solo dalla «prima gente»: esse sono rappresentate dalle quattro stelle che rilucono sopra l’Eden;

- gli antichi possedettero un riflesso di queste virtù, come semplici virtù acquisite (vedremo più avanti il caso di Rifeo);

- con il Battesimo (o comunque con la liturgia sacramentale) il fedele, precipitato nel peccato originale come tutto il genere umano, può possedere le quattro virtù in maniera analoga ma comunque differente da Adamo ed Eva, cioè per grazia (insieme alle teologali) e non per natura: esse sono rappresentate dalle quattro ninfe.

Questa piccola sintesi apre delle interessanti prospettive sulla considerazione che Dante ha dell’umanità prima di Cristo, e del rapporto fra natura originaria, natura caduta e ruolo dell’Incarnazione e della Grazia. Ma si tratta di prospettive che vorrei esplorare nel capitolo successivo. Per ora basti evidenziare il significato del rito cui viene sottoposto il pellegrino, e il parallelo che si instaura fra questo e il gesto del grifone. Se il secondo infatti è radice del primo, e il primo è in qualche modo il “riaccadere” del secondo (come ha indicato Singleton, Beatrice rappresenterebbe il secondo adventum di Cristo); se il primo è l’archetipo, e il secondo il suo correlativo nella storia singolare di Dante; allora la rappresentazione

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cristiana del tempo è qui raffigurata nella sua più definitiva complessità: esso infatti non diventa solo lineare, ma assume piuttosto la forma di una spirale, un ripetersi di situazioni simili, aventi la stessa radice (l’Incarnazione e la Redenzione di Cristo) e tendenti al compimento finale del Giudizio universale. Beatrice allora (e tutto, nell’episodio in questione come nel poema, lascia intendere in questo senso) è segno e manifestazione della grazia, una sua vera e propria “incarnazione”, e questo è il messaggio che Dante – sotto veste poetica – ha voluto comunicare riguardo al suo amore per la donna fiorentina.237 Ad

essa le virtù cardinali acquisite sono preordinate, e una volta trasformate in (o sostituite da) virtù infuse nel loro congiungimento con la grazia divengono salvifiche, insieme alle tre virtù teologali:238

«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi

le tre di là, che miran più profondo».

(Purg. XXXI 106-111)