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L’albero entra in scena nel canto XXXII: Dante ha terminato la sua confessione al cospetto

di Beatrice, ha attraversato il Letè condotto da Matelda, che ve l’ha immerso completamente, ha contemplato gli occhi della sua donna ed è stato invitato a seguire le figure della lunga processione, che si sono rimesse in cammino dopo essersi fermate, nel canto XXIX. Percorsa una distanza pari a tre volte il tiro di una freccia, Beatrice scende dal

carro: nel silenzio della selva risuona il mormorio della processione, che nomina il primo uomo, «Adamo»;

…poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata più quanto più è sù, fora da l’Indi ne’ boschi lor per altezza ammirata.

(Purg. XXXII 38-42)

Il corteo si raduna intorno a una pianta spoglia, priva del tutto di fogliame e di qualsiasi fiore. La sua chioma è tanto più larga quanto diventa più alta, e sarebbe ammirata anche dagli abitanti dell’India, che pure abitano una terra i cui boschi godono di piante smisuratamente grandi, secondo l’autorità di Virgilio (Georg. II 122-4). L’albero era stato

precedentemente annunciato a Dante, più in basso lungo la montagna del Purgatorio: nella cornice dei golosi infatti, al seguito di Forese, Dante aveva visto un albero questa volta rigoglioso di foglie e frutti, coi rami tendenti verso l’alto, così che i peccatori della gola, in

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atteggiamento supplichevole ai suoi piedi, possono vedere l’oggetto che alimenta il loro desiderio senza però poterne godere:

…parvermi i rami gravidi e vivaci d’un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci.

Vidi gente sott’esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e ’l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde.

Poi si partì sì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

«Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso».

(Purg. XXIV 103-117)

Appressatisi Dante e i suoi accompagnatori all’albero, una voce li avverte di non sostare presso di esso: si tratta infatti di una pianta derivata dall’albero che Eva assaggiò nell’Eden, e che si trova «più su», lungo il percorso del pellegrino.

È ovviamente un indizio importante per la comprensione dell’albero apparso nel canto

XXXII: come ogni elemento dello spettacolo cui assiste Dante nell’Eden, esso ha un alto

valore simbolico. Dentro l’allegoria figurale del poema, si inseriscono improvvisamente, e per uno spazio testuale limitato, dei personaggi e degli elementi che sembrano non avere dimensione storica né dimensione figurale, ma una valenza unicamente simbolica, come puri segni astratti e sintetici della storia del mondo, nella quale si inserisce la storia personale di ciascun uomo (come quella dell’uomo Dante).

I lettori della Commedia hanno tentato di assegnare all’albero un significato letterale, essendo l’unico elemento non legato all’apparire momentaneo della processione, ma fisso nel paesaggio edenico. Giustificata dal testo l’idea che l’albero riguardi il peccato di Adamo,

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sappiamo che gli alberi del Paradiso Terrestre su cui si sofferma la Genesi sono due, e non uno solo. Dice infatti la Genesi:

Plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis a principio in quo posuit hominem quem formaverat. Produxitque Dominus Deus de humo omne lignum pulchrum visu et ad vescendum suave lignum etiam vitae in medio paradisi lignumque scientiae boni et mali. […] Tulit ergo Dominus Deus hominem et posuit eum in paradiso voluptatis ut operaretur et custodiret illum. Praecepitque ei dicens «ex omni ligno paradisi comede; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas in quocumque enim die comederis ex eo morte morieris».36

Effettivamente gli alberi ricordati nella Scrittura sono l’albero della vita da un lato, e l’albero della conoscenza del bene e del male dall’altro. Il divieto di mangiare i frutti vale solo per il secondo, mentre del primo si specifica la posizione «in medio paradisi».

Una sovrapposizione e forse confusione fra i due alberi (ma già a livello di interpretazione della Scrittura) è riscontrabile, fra i primi commentatori, in Iacomo della Lana, nell’Anonimo Lombardo e nell’Anonimo Fiorentino, per i quali l’albero attorno a cui si muove la processione è l’albero della vita, e sarebbe questo l’albero il cui frutto fu proibito all’uomo.37 I tre commentatori dunque (al di là delle possibili influenze reciproche)

mostrano di intendere i due alberi della Bibbia come uno solo, e privilegiano il nome di

lignum vitae. Commentando il passo purgatoriale, Domenico Consoli accennava al fatto che

può sorgere il dubbio che l’albero robusto richiami il lignum vitae; e segnalando che i medievali non di rado accomunavano i due alberi (intenzionalmente o meno), ricorda quindi l’esegesi di Alberto Magno all’Apocalisse, per cui il lignum vitae troverebbe compimento sia nella

36 Gen. II 8-17. Il De Genesi ad litteram di Agostino, un esempio di possibile fonte del testo biblico per Dante, riporta queste parole: «Plantavit ergo Deus paradisum in deliciis [hoc est enim in Eden] ad orientem, et posuit ibi hominem quem finxerat. […] et sumpsit Dominus Deus hominem quem fecit, et posuit eum in paradiso, ut operaretur et custodiret. Et praecepit Dominus Deus Adae, dicens: Ab omni lingo quod est in paradise esca edes; de lingo autem cognoscendi bonum et malum, non manducabiti de illo. Quo die autem ederitis ab eo, morte moriemini» [PL 34, coll. 374-379].

37 «E intende questa pianta l’autore l’arbore della vita, del quale fu contradiato a’ primi parenti lo mangiare del suo frutto; la qual pianta, com’è detto, hae a significare per allegorìa la obbedienzia» (Iacomo della Lana, commento a Purg. XXXII 38-42); «et per istam plantam inteligit lignum vite, de quo contra preceptum dei

Aadam gustavit» (Anonymus Lombardus, commento a Purg. XXXII 38-39); «Per questa pianta intende

l’Auttore l’árbore della vita, il quale fu vietato alli primi parenti il mangiare del frutto, la qual pianta, com’è detto, hae a significare l’obbedienza» (Commento alla Divina Commedia d’anonimo fiorentino del secolo XIV, ora per la prima volta stampato, a cura di P. Fanfani, Bologna, Gaetano Romagnoli, commento a Purg. XXXII 38-39, p. 516).

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persona di Cristo che nella sua croce.38 L’ambiguità è segnalata anche da un’altra fonte più

volte riportata dalla critica, la leggenda per cui Seth avrebbe portato fuori dal Paradiso Terrestre un pezzo dell’albero della conoscenza del bene e del male, per piantarlo sulla tomba del padre (e da questo deriverebbe il legno della croce).39

In generale tuttavia, il resto della critica è uniformemente d’accordo nell’identificare l’albero edenico del poema con il lignum scientiae boni et mali;40 ed effettivamente, mettendo

insieme tutti i suggerimenti disseminati in questa zona del poema, non mi sembra ci sia in realtà possibilità di dubitare, né che Dante possa alludere all’albero della vita, né che faccia confusione fra i due: nei versi già scorsi della cornice dei golosi, si specifica che «legno è più sù che fu morso da Eva»; dopo la visione, invece, Beatrice afferma che Dio «solo a l’uso suo la creò santa [la pianta]»; continua poi dicendo che «per morder quella, in pena e in disio / cinquemilia anni e più l’anima prima / bramò colui che ’l morso in sé punio» (Purg.

XXXIII 60-63). Nessun dubbio dunque che si tratti dell’albero della conoscenza del bene e

del male, il cui frutto era stato proibito all’uomo. È interessante notare che Dante, oltre a ignorare l’albero della vita, tralasci anche di porre alcun accento riguardo alla natura della pianta come legato alla scientia boni et mali.

Più complicato è identificare il significato figurale o comunque simbolico dell’albero visto e rappresentato da Dante. E intorno a questo problema effettivamente la critica ha molto dibattuto, giungendo a posizioni più o meno variegate.

Nei primi secoli di commento alla Commedia, la soluzione più in voga e diffusa era quella che vedeva nella pianta dispogliata il correlativo dell’obbedienza dell’uomo, richiestagli da Dio e dai protoparenti tradita con il peccato originale:

I lettori medievali (e ci sembra tesi attendibile) videro nell’albero l’analogo figurativo dell’ubbidienza, la quale si confà col principio della giustizia divina, dal momento che questa

38 D. Consoli, Il canto XXXII del Purgatorio, in Nuove letture dantesche tenute nella Casa di Dante in Roma, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 207-233: p. 221, n. 2.

39 Cfr. A. Mussafia, Sulla leggenda del legno della croce: studio, in “Rendiconti delle tornate della classe filos.-storica dell’imp. academia delle scienze”, 63, 1869, pp. 165-216.

40 Al tempo stesso, da più parti è stata richiamata – sempre per quanto concerne il significato letterale – una possibile reminiscenza dell’albero visto in sogno da Nabucodonosor: «ecce arbor in medio terrae et altitudo eius nimia magna arbor et fortis et proceritas eius contingens caelum aspectus illius erat usque ad terminos universae terrae folia eius pulcherrima et fructus eius nimius et esca universorum in ea subter eam habitabant animalia et bestiae et in ramis eius conversabantur volucres caeli et ex ea vescebatur omnis caro». (Dn. IV 7-9). Il primo a riportare l’allegazione sembra essere Bernardino Daniello.

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impone sottomissione ai propri decreti, e viene offesa e privata dei suoi frutti dalla tracotanza degli uomini, a cominciare dal fallo di Adamo.41

Ricordiamo ad esempio Pietro Alighieri, il quale sembra essere uno fra coloro che inaugurano la detta linea interpretativa, allegando il passo-chiave della lettera di san Paolo ai Filippesi: «Christus, cum Deus esset, se exinanivit in formam servi et factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis» (Fil. II 6-8). Lo seguono, nel leggere l’albero come obbedienza, le Chiose Vernon, l’Anonimo Fiorentino, Giovanni da Serravalle, fino al

Landino, al Vellutello, a Trifon Gabriele, al Daniello e – in ultimo – al Tommaseo.

A partire da Baldassarre Lombardi, si è imposta una seconda linea interpretativa, che ha visto nell’albero a cui il grifone lega il carro della Chiesa il simbolo (per non usare il più impegnativo “figura”) dell’Impero (idea già indicata, senza apparente fortuna, da Benvenuto). La monarchia universale infatti, nelle parole del Lombardi che riprende il pensiero dantesco, è preposta da Dio a garanzia della pace universale ed è posta a Roma quasi a protezione della Sede Apostolica di san Pietro. Da qui l’atto dell’animal binato a significare l’esistenza dell’Impero in pro della Chiesa. E da qui, sempre secondo il Lombardi, il divieto fatto da Dio di staccare da esso dei frutti, come a conservazione dell’albero per l’unità del genere umano e la salvaguardia della Chiesa stessa. Il Lombardi cita anche il sogno di Nabucodonosor a sostegno dell’interpretazione proposta: nella Scrittura infatti Daniele rivela al governante babilonese che l’albero da lui sognato sta a significare il suo regno, che verrà distrutto e poi – secondo il volere di Dio – restaurato.

Uno dei più celebri seguaci del Lombardi – oltre a John Carroll – è stato sicuramente Scartazzini. Il commentatore italo-svizzero infatti, dopo aver passato in rassegna diverse ipotesi per il significato allegorico della pianta, scrive che, se nell’Eden è rappresentato lo stato di felicità dell’uomo, «ne segue di necessità che accanto al simbolo della Chiesa il Poeta, fedele al suo sistema, doveva introdurre nella gran visione anche il simbolo dell’impero»; l’aquila che piomba sul fusto successivamente starebbe invece a significare i singoli governanti che si susseguono sul soglio imperiale.42 A queste affermazioni segue poi

una lunga serie di motivi e ricostruzioni (francamente poco aderenti al testo dantesco, per

41 D. Consoli, Il canto XXXII del Purgatorio, cit. p. 218

42 La Divina Commedia di Dante Alighieri. Riveduta nel testo e commentata da G.A. Scartazzini, vol. II Il purgatorio, Leipzig, Brockhaus, 1875, ad loc., p. 732.

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la maggior parte) per cui l’Impero sarebbe il significato “nascosto” dell’albero dantesco. Qualche decennio più tardi, nel commento rivisto da Vandelli si afferma:

Noi stiamo con chi vede nella pianta figurato l’Impero (Imp. rom.), in quanto, più precisam., la pianta stessa simboleggia la legge o ius naturale, che (Mon. II, II, 4-5) è tutt’una cosa con la

divina voluntas, e di cui l’Impero è sulla terra l’espressione concreta e viva e insieme lo

strumento indispensabile, voluto da Dio, per la sua attuazione; la quale consiste nella giustizia. La pianta poi, in quanto è dispogliata, significherà che, prima di Cristo redentore, quell’autorità universale e la giustizia, causa il primo peccato (che, violazione della divina volontà, aveva rotta la concordia fra l’uomo e Dio), non potevano prosperare.43

Il terzo filone critico a proposito dell’interpretazione dell’albero si è posto sulla scia di Bruno Nardi: a partire infatti da un intervento del critico sul concetto dell’Impero in Dante,44 buona parte dei commentatori ha voluto identificare l’albero con la giustizia divina,

attenendosi strettamente alle parole di Beatrice, racchiuse in una terzina peraltro di significato non del tutto perspicuo:

«E se stati non fossero acqua d’Elsa li pensier vani intorno a la tua mente, e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,

per tante circostanze solamente la giustizia di Dio, ne l’interdetto, conosceresti a l’arbor moralmente».

(Purg. XXXIII 67-72)

Innanzitutto, fra i sostenitori dell’ipotesi di Nardi è sicuramente da segnalare Natalino Sapegno; quindi possiamo annoverare nella lista Carlo Steiner, il quale tuttavia riporta l’ipotesi in modo piuttosto generico45 («Ci sembra quindi di poter vedere nella pianta, con il

Nardi, il Sapegno e altri moderni, il simbolo della giustizia divina come essenza della volontà di Dio, sostanza della legge, fondamento dell’autorità: nel rispetto frondeggiava e

43 La Divina Commedia. Testo critico della Societa dantesca italiana riveduto, col commento scartazziniano, rifatto da G. Vandelli, Milano, Hoepli, 1929 (9° ed.), ad loc., p. 586.

44 B. Nardi, Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Id., Saggi di filosofia dantesca, cit., pp. 239- 305.

45 Fattore, questo, dato anche dall’essenzialità del commento generale dello Steiner, spesso a rischio di semplificazioni (P. Bocchia, Carlo Steiner, in Censimento dei commenti danteschi. 2, cit., pp. 415-417).

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fruttificava generosa di tutti i beni; Adamo offendendola la spogliò di ogni frutto, Cristo con la redenzione dell’uomo la renderà di nuovo feconda»),46 e a seguire Chimenz, Fallani,

Giacalone ed Emilio Pasquini e Antonio Quaglio. Inizialmente indeciso («Più grave è la perplessità che riguarda l’albero… […] Tra le troppe spiegazioni, due sono da prendere in seria considerazione: quella per cui l’albero rappresenta la giustizia divina, e l’obbedienza che essa impone, e l’altra che vede nella pianta un simbolo dell’Impero in quanto tale»), il commento Bosco-Reggio propende infine per la soluzione di Nardi, osservando come essa in ultima analisi non escluda l’ipotesi imperiale, per via dello stretto legame Impero-giustizia nel pensiero dantesco. Anche la Chiavacci opta per questa interpretazione, citando (come altri) la visione di Nabucodonosor, e riprendendo dal Torraca la possibile influenza della

Leggenda di Seth.

È possibile identificare anche una quarta linea, per quanto non omogenea, probabilmente poligenetica e comunque alquanto diversificata: quella che riconosce l’albero come simbolo del genere umano. Isidoro Del Lungo, ad esempio, scrive di un «Albero dell’umanità», posto a metà fra cielo e terra, con le radici legate ancora alla condizione umana nei due poli del bene e del male operati dagli esseri umani, e le fronde protese invece alla beatitudine eterna; e aggiunge: «all’Albero vedremo aver Cristo legato il Carro della sua Chiesa; e medesimamente, pure per istituzione divina, all’Albero e al Carro esser congiunte le sorti (qui allegorizzate insieme con quelle della Chiesa) dell’Impero romano universale». Ernesto Trucchi invece legge l’albero come segno dell’unità del genere umano, e riesce in questo modo ad inglobare anche la soluzione di Nardi: come infatti si conserva l’unità fra gli uomini? Solamente osservando la giustizia divina. Deviando da essa, Adamo ha fatto sì che l’essere umano fosse impossibilitato ad amare il prossimo convenientemente, e ha indirettamente causato la divisione del genere umano. Solo l’avvento di Cristo ha potuto ristabilire la concordia perduta, e far rifiorire l’albero immagine dell’unità degli uomini in obbedienza alla legge divina. Manfredi Porena parla semplicemente della condizione umana dopo il peccato d’Adamo, restaurata nella grazia dal Cristo; Mazzacurati invece così ha scritto:

[L’albero rappresenta la faccia ambivalente della natura]: è cioè la natura dell’uomo che la provvidenza creò immersa nella meta-storia e fusa perfettamente alla propria volontà, che la

46 C. Steiner, commento a Purg. XXXII 38-39, in D. Alighieri, La ‘Divina Commedia’, commentata da C. Steiner, Milano-Torino, Paravia, 1921, 3 voll. (con varie riedizioni).

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redenzione tentò di restaurare (per questo il grifone, cioè Cristo, non “discinde il legno” ma rappresenta anzi, per grazia, la possibilità di reintegrazione della natura umana in quella divina); ma è anche l’altra natura, quella della trasgressione, l’unità discinta che si degrada senza rimedio nel mondo.47

Nicola Fosca, recentemente, ha avuto buon gioco a unificare l’ipotesi di Nardi con quella risalente ai primi commenti dell’albero come immagine dell’obbedienza dell’uomo a Dio: citato Nardi infatti, così scrive:

Ciò che l’Apostolo chiama giustizia di Dio (Rom. X 3) si riferisce - spiega sant’Agostino - non alla giustizia «in virtù della quale è giusto Dio», ma alla giustizia «con cui egli ha giustificato noi, rendendoci giusti, da empi che eravamo» (Serm. CXXXI ix 9). Molte sono le interpretazioni alternative dell’albero (la Croce, la Chiesa, la Morale, ecc.), ma francamente poco plausibili; mentre l’idea (cara ai lettori medievali) che esso raffiguri l’obbedienza si adegua al principio della giustizia divina, che esige appunto completa e volontaria sottomissione, un’altra tesi fortemente sostenuta (almeno a partire dal Lombardi, che non fa cenno dell’antecedente riscontrabile presso il commento dell’Imolese) è quella che ritiene la pianta simbolo dell’Impero.48

Al di fuori delle quattro dette ipotesi interpretative, troviamo ancora il Poletto, che identifica l’albero con la volontà divina (quest’ultima fonte di ogni giustizia), oppure Daniele Mattalia, che volendo attenersi il più possibile al dettato biblico, collega la pianta alla «Sapienza sufficiente al conseguimento della perfezione nell’ordine tutto umano e temporale, ma insufficiente all’eterna salvazione senza la fecondatrice mediazione e integrazione della Chiesa», Chiesa che poggia a sua volta sulla redenzione operata dal grifone-Cristo.

Terminata la nostra rassegna – lunga ma necessaria – a proposito delle varie ipotesi critiche a proposito della ora quanto più misteriosa pianta dell’Eden, così centrale nel racconto dantesco, torniamo a Pietro Lombardo, il cui nome affiora nell’Ottimo commento. Nella Nota introduttiva al canto XXXII, l’Ottimo, volendo introdurre il lettore alla natura e

al significato dell’albero, cita un passo dalle Sententiae di Pietro Lombardo, traducendolo per esteso:

47 G. Mazzacurati, Purgatorio XXXII. Natura e storia, cit., p. 18.

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Il Maestro delle Sententie, libro secondo, distintione xvii, parlando del sopradecto albero, chiamato legno di vita, e <del>l’altro, chiamato legno di scientia di bene e di male, dice che elli è decto legno di vita, sí come dice Beda e Strabo, che divinitus prese questa virtù, che chiunque del suo fructo mangiasse, che ’l corpo suo si fermasse di stabile sanitade e perpetua soliditade, né discorresse per alcuna infermitade o d’etade debilezza in peggio, overo in cadimento. Il legno della scientia del bene e del male non ebbe questo nome da natura, ma dalla cagione della cosa poi seguitata. E però che quello albero non era reo, ma è decto legno di scienzia di bene e di male, però che dopo il divietamento sí dovea in quello trapassare il comandamento, perchè l’uomo imparasse che diferenza è tra il bene dell’ubbidenza e il male della disubidenza. Non dunque del fructo che ne nascesse, è posto il nome, ma del travalicamento seguitato. Conobbe l’uomo, prima ch’egli toccasse questo legno, bene e male: il bene per senno e per experienza, il male per senno solamente, lo quale, usurpato il legno vietato, per sperienza conobbe; e però che per la experienza del male imparòe la differenza ch’è intra ’l bene della obbidentia, e ’l male della disubbidentia. E neentemeno, se ‘ primi nostri parenti non avessero peccato contra il comandamento, sarebbe cosí chiamato, però che questo li averrebbe a chi ’l toccasse.49

Ecco a questo punto le parole di Pietro Lombardo:

De lignis paradisi, inter quae erat lignum vitae et lignum scientiae boni et mali. In hoc autem paradiso erant ligna diversi generis, inter quae unum erat quod vocatum est lignum vitae, alterum vero lignum scientiae boni et mali.50

È giusto innanzitutto notare che il Magister definisce con cura la distinzione fra i due