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Prima di concludere il nostro percorso attraverso i canti del Paradiso Terrestre, o forse per tirare definitivamente le fila di un pur provvisorio discorso interpretativo, vorrei compiere un ultimo passo.

Abbiamo trascurato in queste righe, per motivi di spazio e di misura, la prosecuzione della rappresentazione che si sviluppa sotto gli occhi meravigliati di Dante pellegrino.

237 Sul significato simbolico di Beatrice in questi canti si è soffermato molto Lino Pertile, che in un passaggio del suo discorso scrive: «Mano a mano che si procede, si apre il ventaglio dell’allegoria [della figura di Beatrice] e si moltiplicano le possibili soluzioni. Rimane tuttavia immutato il nucleo centrale da cui tutte le soluzioni s’irradiano: il mistero delle nozze mistiche, l’incontro dell’umano con il divino» (L. Pertile, La

puttana e il gigante, cit., p. 63). Mi trova meno d’accordo, a motivo delle indicazioni offerte fin qui, la riserva che

lo studioso ha riguardo le implicazioni cristologiche di Beatrice: «Beatrice non appare come “figura” di questa vicenda, ma come testimone di essa, cioè come ministra e sacerdotessa di Cristo, e quindi sua sponsa, anche poeticamente più vicina alla figura della Vergine che a quella di Cristo. Le invocazioni sono dirette a lei nella misura in cui in lei si incarna e per lei si trasmette la verità della rappresentazione» (p. 69).

238 È la teologia del XIII secolo ad approfondire l’idea generale che le virtù acquisite, benché non salvifiche, siano comunque preordinate alle virtù salvifiche ver e proprie e all’accoglimento della grazia di Dio (cfr. I. Bejczy, The cardinal virtues in the Middle Ages, cit., pp. 195-202, e Riccardo di Mediavilla, In II Sent., d. XXVII, a. 1, q. 3).

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Tuttavia, l’ipotesi che il nucleo della prima parte della scena sia la ricostituzione – seppur in nuove forme – della condizione che la iustitia originalis garantiva all’essere umano ci spinge, inevitabilmente, a considerare la radice della questione nella mancata conformità della volontà umana a quella divina.

Le basi per una concezione del genere sono rinvenibili nella teologia che abbiamo per molte vie percorso. L’innesto infatti delle innovazioni anselmiane su un terreno come quello delle Sententiae fermamente aderente e ancorato a un orizzonte agostiniano, spinse lentamente la teologia duecentesca, come abbiamo visto, a relegare la concupiscenza nell’ambito del materiale del peccato originale, attribuendo invece al formale (quindi al suo elemento propriamente costitutivo) la destituzione della volontà dalla rettitudine nella quale era stata originariamente creata. E questa è una tendenza che, prendendo le mosse da Alberto Magno, investe senza distinzioni scuola domenicana e scuola francescana. Tommaso ad esempio, domandandosi da parte sua Utrum originale peccatum sit concupiscentia, risponde così:

Respondeo dicendum, quod in quolibet peccato est invenire aliquid quasi formale, et aliquid quasi materiale. Si enim consideremus peccatum actuale, ipsa substantia actus deordinati materialiter in peccato se habet: sed deordinatio a fine, formale in peccato est, quia ex hoc rationem mali praecipue habet; unde dicitur, quod conversio ad bonum commutabile, est ibi sicut materiale, et aversio a bono incommutabili, est sicut formale: et hoc contigit ex hoc quod etiam in actu perfectio virtutis ex ordine ad finem est forma actus. Sicut autem peccatum actuale consistit in deordinatione actus, ita etiam peccatum originale consistit in deordinatione naturae.

Unde oportet quod ipsae vires deordinatae, vel deordinatio virium, sint sicut materiale in peccato originali; et ipsa deordinatio a fine siti bi sicut formale. Illa autem pars quae per se nata est coniungi fini, est ipsa voluntas, quae habet ordinem finis omnibus aliis partibus imponere; et ideo destitutio ipsius voluntatis ab illa rectitudine ad finem quam habuit in institutione naturae, in peccato originali formale est: et hoc est privatio originalis iustitiae.239

Identificando elemento formale ed elemento materiale tanto nel peccato attuale quanto nel peccato originale, Tommaso riconosce l’elemento formale nella deordinatio al fine, cioè nell’allontanamento dalla natura e nella aversio dal bene immutabile. Essendo la volontà la

239 Tommaso, In II Sent., d. XXX, q. 1, a. 3, sol. Cfr. Anche altrove: «carentia originalis iustitiae se habet ex parte voluntatis» (Id., De malo, q. 4, a. 2).

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parte dell’uomo destinata al congiungimento col fine (destinata anche a trascinarsi dietro tutte le altre facoltà), il formale del peccato originale e la privazione della giustizia originale risiede proprio nella destituzione della volontà dalla propria rettitudine.

Riccardo240 identifica la volontà come sede dell’elemento formale del peccato originale, e

questo lo conduce inoltre ad assegnare la connotazione di “colpa” solo a quegli atti che assecondano volontariamente il fomes della concupiscenza; e allo stesso tempo, discutendo del binomio concupiscentia-ignorantia che Ugo di San Vittore aveva individuato come essenza del peccato originale, Riccardo afferma – attingendo alla Summa Theologiae – che «concupiscentiae magis convenit ratio peccati, quam ignorantiae», poiché «sicut ordo animae in Deum magis residet penes appetitivam quam cognitivam, ita carentia huius ordinis sive ipsa deordinatio [come tale, caratteristica del peccato originale] magis est per appetitivam quam per cognitivam».241 Emerge nell’impostazione di queste parole «il primato

nella sfera morale assegnato – in un’ottica decisamente francescana – alla facoltà appetitiva (nel disordine così come nell’ordine)».242

Tendenza in Riccardo, ma secondo una tendenza propria di tutta la teologia occidentale: «intento di non identificare la concupiscenza costitutiva del peccato originale con l’impulso carnale, bensì con una generica propensione a commettere il male»243

Porre con chiarezza queste basi è di fondamentale importanza, perché ci permette di spalancare con decisione la strada interpretativa verso le due prosecuzioni della narrazione dantesca.

La prima riguarda i fatti che si svolgono nella mistica processione subito dopo il rinverdirsi della pianta. Beatrice apostrofa con queste parole il suo seguace:

«Però, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive».

(Purg. XXXII 103-105)

240 Riccardo, In II Sent., d. XXXI, a. 1, q. 2, 2 e ad 2m. 241 Ivi, d. XXX, a. 4, q. 1, ad 4m.

242 L. Cova, Peccato originale. Agostino e il Medioevo, cit., p. 194. 243 Id., Originale peccatum e concupiscentia, cit., p. 83.

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E Dante, obbedendo al comando (così come la natura dell’uomo purificato dal Battesimo lo spinge a obbedire e assecondare la grazia divina) e accettando così l’investitura profetica,244 si volge verso il carro.

Non scese mai con sì veloce moto foco di spessa nube, quando piove da quel confine che più va remoto,

com’io vidi calar l’uccel di Giove per l’alber giù, rompendo de la scorza, non che d’i fiori e de le foglie nove;

e ferì ’l carro di tutta sua forza; ond’el piegò come nave in fortuna, vinta da l’onda, or da poggia, or da orza.

Poscia vidi avventarsi ne la cuna del trïunfal veiculo una volpe

che d’ogne pasto buon parea digiuna; ma, riprendendo lei di laide colpe, la donna mia la volse in tanta futa quanto sofferser l’ossa sanza polpe.

Poscia per indi ond’era pria venuta, l’aguglia vidi scender giù ne l’arca del carro e lasciar lei di sé pennuta;

e qual esce di cuor che si rammarca, tal voce uscì del cielo e cotal disse: «O navicella mia, com’ mal se’ carca!».

(Purg. XXXII 109-129)

244 Nel canto XXXII c’è investitura profetica, che fa da parallelo con l’investitura del cielo delle stelle fisse: prova ne sono non solo i frequenti rimandi ad Ezechiele nei due episodi (cfr. per esempio Purg. XXIX

100sgg.), ma tre elementi in particolare:

«1. La designazione del viatore all’ufficio missionario chiama in causa sia nel cielo delle stelle fisse che nel paradiso terrestre gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, e in più Adamo, quantunque nel purgatorio solo nominalmente

2. Il conferimento del ministero profetico, venga da Beatrice o da San Pietro, è preceduto da una prova di abilitazione che la prima volta consiste nell’esame di coscienza, nella confessione e nel rito assolutorio dell’immersione nel Leté, la seconda nel “saggio” sulle virtù teologali e nella certificazione di lode da parte del vicario di Cristo.

3. Nell’un caso e nell’altro l’atto assegnativo consegue a una momentanea perdita della vista che il pellegrino subisce per fulgore divino» (M. Aversano, Il canto XXXII del Purgatorio, in Id., La quinta ruota. Studi sulla

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Non possiamo a questo punto sviscerare tutta la profondità lessicale, semantica e immaginifica di questa sequenza, né presumere di poterne esplorare adeguatamente l’allegoria. Ci è sufficiente tuttavia, seguendo le linee principali del commento critico a questo passo e gli aspetti pressochè comuni a tutte le interpretazioni, identificare nell’aquila che distrugge la pianta novella e nella volpe che si avventa sul carro, due avvenimenti storici (la donazione di Costantino? Le eresie?) che successivamente alla morte e resurrezione di Cristo hanno lacerato e mortalmente danneggiato i due pilastri su cui Dio, anche attraverso l’opera di Cristo, aveva edificato l’umanità redenta; e facendo questo hanno implicitamente danneggiato e distrutto anche la stessa natura umana ricostituita nella iustitia divina (a somiglianza della primitiva iustitia originalis) dalla gratia entrata nel mondo con l’Incarnazione. D’altra parte, Dante nella Monarchia dichiara esplicitamente che il Monarca deve reggere la totalità dell’umanità con la sua voluntas una, «domina et regulatrix omnium aliarum in unum».245

La seconda apertura concettuale riguarda lo svolgimento del viaggio oltre i limiti della terrestrialità alla sequela di Beatrice, attraverso i cieli e verso l’Empireo. Congiungere la figura dell’albero al centro della rappresentazione con l’armonizzazione della volontà umana con quella divina ci fa scorgere nel simbolo una sorta di annuncio del tema che verrà celebrato lungo tutto il Paradiso, e cioè proprio l’incontro fra due volontà, una ascendente, quella dell’uomo, e una discendente, quella di Dio. Non solo due volontà (intese come appetiti razionali), ma due vere e proprie dilezioni, due forme di amore, la prima dipendente dalla seconda, che si cercano e che nella libera risposta dell’uomo realizzano la corretta ordinatio della creazione verso il suo fine, e la conformità a quest’ultimo. Senza poterci addentrare – anche in questo caso – nei meandri della terza cantica, basterà ricordare che il tema viene espresso mirabilmente nelle parole di Piccarda nel III canto:

245 «[4] Constat igitur quod omne quod est bonum per hoc est bonum, quod in uno consistit.

Et cum concordia, in quantum huiusmodi, sit quoddam bonum, manifestum est ipsam consistere in aliquo uno tanquam in propria radice. [5] Que quidem radix apparebit si natura vel ratio concordie summatur. Est enim concordia uniformis motus plurium voluntatum; in qua quidem ratione apparet unitatem voluntatum, que per uniformem motum datur intelligi, concordie radicem esse vel ipsam concordiam. […] [8]. … sic arguatur: omnis concordia dependet ab unitate que est in voluntatibus; genus humanum optime se habens est quedam concordia (nam, sicut unus homo optime se habens et quantum ad animam et quantum ad corpus est concordia quedam, et similiter domus, civitas et regnum, sic totum genus humanum); ergo genus humanum optime se habens ab unitate que est in voluntatibus dependet. [9]. Sed hoc esse non potest nisi sit voluntas una, domina et regulatrix omnium aliarum in unum, cum mortalium voluntates propter blandas adolescentie delectationes indigeant directivo, ut in ultimis ad Nicomacum docet Phylosophus. Nec ista una potest esse, nisi sit princeps unus omnium, cuius voluntas domina et regulatrix aliarum omnium esse possit.

[10] Quod si omnes consequentie superiores vere sunt – quod sunt – necesse est ad optime se habere humanum genus esse in mundo monarcham, et per consequens monarchiam ad bene esse mundi» (Mon. I

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disiderate voi più alto loco

per più vedere e per più farvi amici?».

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta,

ch’arder parea d’amor nel primo foco: «Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne

sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. Se disïassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse,

e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’ è quel mare al qual tutto si move ciò ch’ella crïa o che natura face».

(Par. III 64-87) [corsivi miei]

Quello che ascoltiamo è un tripudio di desideri e disii, di voglie e volontà, di carità e piacere. A seguire questo exploit poetico e dottrinale, troveremo: nel canto V l’illustrazione della natura

del “movimento ascendente”, cioè l’origine della libertate della volontà umana (cfr. Par. V

22); nel canto VI la celebrazione dell’istituzione tramite cui «tutto ’l ciel volle / redur lo

mondo a suo modo sereno» (Par. VI 55-56), e unificare – come abbiamo visto – le volontà

umane fra loro; nel canto VII il glorioso moto discendente della volontà divina nella

contingenza storica, prima attraverso la creazione del mondo e dell’uomo, poi tramite l’Incarnazione e la satisfactio portata a termine da Cristo al posto dell’uomo. E, non troppo a

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latere, si ricordi che la prospettiva nel canto VII del Paradiso è quella della celebrazione di una

giusta vendetta a un’altrettanta giusta vendetta, portate entrambe a compimento proprio grazie e attraverso l’Impero. Del resto, sarà Adamo stesso a chiarire la questione a Dante, nel cielo delle Stelle Fisse:

«Or, figliuol mio, non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto essilio,

ma solamente il trapassar del segno».

(Par. XXVI 115-117)

Una spiegazione che, invero, può apparire troppo sintetica ai nostri occhi. Ma bisogna tener conto innanzitutto che la terza cantica nella sua totalità, e fino a questo punto, è dedita a dimostrare in che cosa consista «il non trapassar del segno»; in seconda battuta, non trascurabili sono le densità semantiche dei termini impiegati, dal gustar che tante sfumature diverse assume nel poema dantesco, alla rima senhal legno : segno, che per molti versi ci riporta al travalicamento di Ulisse,246 vero e proprio alter Dante del poema. E in ultimo,

ricongiungendo con un filo invisibile le espressioni che nel poema ricapitolano il travalicamento del peccato originale, vediamo che si tratta di termini assimilabili all’ambito della volontà. Abbiamo, per esempio, già rilevato la risonanza del termine soffrire, impiegato in senso limitativo della voluntas sia riguardo al peccato di Eva, la quale «là dove ubidia la terra e ’l cielo, / femmina, sola e pur testé formata, / non sofferse di star sotto alcun velo» (Purg. XXIX 22-27), sia riguardo all’errore di Adamo, in significativa congiunzione proprio

con «la virtù che vole» (Par. VII 25). In questo secondo caso ricordiamo poi la pregnanza

del consecutivo termine freno, simbolicamente presente nel già citato paragone con Serse nel Paradiso Terrestre, ma termine chiave anche a Purg. XVI 94, laddove è usato per indicare la

necessità di un re e di una legge per limitare l’errata inclinazione dell’amore umano. Alla luce di queste ricorrenze, il «trapassar del segno» come sostanza effettiva del peccato originale riluce di nuovi significati, potendo intravedere nel trapassar un atto di de-ordinatio della volontà al fine, volendo travalicare i limiti che permettono alla volontà stessa un pieno congiungimento con la corrispettiva volontà divina. Al contrario, per citare un esempio fra

246 Fra i primi a segnalare possibili contatti tematici fra il discorso di Adamo e Ulisse troviamo N. Borsellino, Notizie dell’Eden (Paradiso XXVI), in “Lettere Italiane”, 41, 1989, 3, pp. 321-333, discorso

approfondito, fra gli altri, in S. Valerio, Lingua, retorica e poetica nel canto XXVI del Paradiso, in “L’Alighieri.

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tanti, di re Salomone, il quale «fu re, che chiese senno / acciò che re sufficïente fosse» (Par.

XIII 95-96), cioè attenendosi entro i limiti assegnati dalla divina provvidenza, e per questo è

celebrato – quasi iperbolicamente, eppure giustamente nell’ambito che stiamo esplorando – come colui rispetto al quale «a veder tanto non surse il secondo» (Par. X 114). Un ultimo

appunto sull’incontro fra Dante e il primo padre, è volto a sottolineare una particolare lettura del momento precedente al dialogo di Dante con Adamo: il pellegrino infatti, terminato l’esame sulle tre virtù teologali, riacquista grazie a Beatrice la veduta che aveva persa cominciando l’esame sulla carità. Dopo l’accecamento compare alla vista di Dante Adamo sotto forma di quarto lume (Par. XXVI 81), oltre ai tre apostoli. Giovanni Getto, dal

presupposto che l’esame sulle tre virtù non è diretto solo a testare la conoscenza dottrinale di Dante, ma il suo consapevole possesso di esse, afferma che esso costituisce un ritorno alle condizioni originarie dell’uomo quale fu creato, archetipicamente, in Adamo:

Adamo rappresenta la pienezza della natura umana. Si realizza in tal modo, nel passaggio dalla prima alla seconda metà del canto, un incontro della pienezza della grazia fondata nelle tre virtù teologali e della pienezza della natura realizzata in Adamo. Si direbbe anzi che sia la pienezza della grazia a provocare la pienezza della natura, come scrive san Tommaso: «Cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat». L’esame vittorioso sulle virtù teologali assume il senso profondo di una specie di rinnovato battesimo, o se si vuole, di presa coscienza totale del proprio battesimo, della sua operante efficacia… […] E l’incontro con Adamo viene a significare come un ritrovamento, nella redenzione sovrannaturale partecipata dal battesimo, della originaria naturale dignità umana. E come nell’esame Dante prende coscienza della sovrannaturale realtà del battesimo e cioè del valore dell’uomo in regime di grazia, così nell’incontro con Adamo egli sembra rendersi conto della realtà dell’uomo in regime originario di natura. Dingità naturale del primo Adamo e dignità sovrannaturale del secondo Adamo…247

Getto ha intelligentemente individuato nell’incontro con il primo padre il dispiegarsi narrativo dei rapporti fra grazia, natura e sovranatura; ma a mio avviso la direzione dei versi danteschi è un’altra rispetto a quella prospettata dal critico torinese. A fronte di quanto detto fin qui, è più perspicuo individuare, nel centro del canto, la celebrazione definitiva dello stato dell’uomo in regime di grazia. Abbiamo visto che il battesimo non è inteso da

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Dante, probabilmente, in un mero senso di ritorno all’origine edenica; e inoltre, l’Adamo del poema non è più l’Adamo edenico, qualunque fosse la caratterizzazione e l’eccezionalità del suo stato primigenio, ma il peccatore salvato dal Limbo dalla discesa del Cristo dopo la passione. Così come l’ambiente non è più il giardino dell’Eden, ormai superato (argomento questo che sarà approfondito nel prossimo capitolo), ma è il paradiso vero e proprio, eterno e definitivo. Entrambi, sia il pellegrino che il primo uomo, sono ormai “trascinati” in un ordine ontologico nuovo, quello della grazia, e il possibile richiamo del mito di un’età dell’oro è definitivamente abbandonato e lasciato alle spalle. Il fatto che sia proprio Beatrice a illuminare di luce nuova gli occhi di Dante, permettendogli di vedere di nuovo, è un ulteriore indicazione che – anche in questo episodio – la figura di Beatrice coincide con la manifestazione storica della grazia, e con il ripresentarsi nella vita di Dante della grazia del Cristo.