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A proposito di fisica

Nel documento Simone Porzio (pagine 173-200)

Ritenuto a lungo perduto, il libello De fato nacque come complemento ad un corso sul secondo libro della Fisica che Porzio aveva tenuto a Napoli prima del 1543, anno nel quale egli stesso ne parla come di un’opera conclusa444.

L’occasione dello scritto erano appunto state alcune questioni sul problema del fato che avevano sollevato alcuni suoi giovani allievi:

Aristoteles 2° libro naturalis auscultationis de casu, et fortuna disputavit ut physico expedit ex in universali, haec cum interpretabamur, quaerebant nostri studiosi iuvenes, quid Aristoteles de fato senserit, cum pauca de his ab expositionibus habeamus, iccirco ut ipsis satisfacerem, rem ipsam licet difficilem disputandam duxi, quae videlicet filosophi peripatetici senserint de fato, fortunijs ac infortunijs haec tamen quaestio non modo inter peripateticos disputatur [...]445.

Effettivamente le riflessioni che Aristotele aveva dedicato al problema del caso e della necessità all’interno del mondo naturale lasciavano abbastanza margine per essere ulteriormente interrogate in modo da capire se la provvidenza o un fato integrale potessero trovare spazio all’interno del cosmo dello Stagirita. Sarà pertanto questa l’indagine di Porzio, il quale non mancherà di porre a confronto la posizione di Aristotele con quelle di altri pensatori e astrologi. Tuttavia il napoletano imposterà la quaestio dedicando un particolare interesse a mostrare come il fato non costituisca per i filosofi un problema tanto arduo, quanto per i teologi il concetto di prescienza divina446. E’ dunque su di un duplice binario che sarà condotto il trattato, con

la precisa strategia di evidenziare l’efficienza e l’economia delle categorie filosofiche e al contempo le astruserie a cui invece porta l’impossibile connubio di fede e aristotelismo rappresentato dalla teologia tomista.

444 Cfr. cap I.

445 Porzio, De fato, cit. , f. 75r.

446 Ibidem: «Ego vero in re tam difficili quid Aristoteles senserit, ac quae ex suis dictis sequantur, declarabo, monstrabimus etiam in Theologia Dei praescientia posita, difficultates esse maiores quam sint inter philosophos, posito fato».

La necessità di trovare una risposta adeguata ai molteplici casi – anche quelli più fortuiti – che appaiono nel mondo naturale ha spinto in generale gli uomini alla ricerca di una causa che rendesse conto di questi diversi fenomeni:

Huius rei aliam causam natura praestantiorem esse coniectant, quam Theologi providentiam, Astrologi conspirationem quaecumque stellarum, metaphysici causarum nexum, et necessarium ordinem, physicique naturam, impetumque innatum appellarunt447.

Platone, la prima auctoritas presa in considerazione, rappresenta entità fatali sotto diversi nomi nelle sue opere. In generale la sua posizione si può riassumere sostenendo un fatalismo moderato dall’azione della volontà, poiché infatti la dimensione propriamente deterministica è quella «in naturalibus quae consilio non aguntur»448. Il complesso rapporto tra fato e

provvidenza genera però non poche difficoltà all’opinio platonica, alle quali inutilmente Calcidio cerca di portare rimedio449. Se da un lato Platone è

costretto a escludere l’intervento di fatto e provvidenza sull’azione delle intelligenze celesti – che si muovono soltanto nella sfera dell’eternità e quindi di un perenne presente – non riesce tuttavia ad evitare che la loro influenza sugli eventi terreni – che pure si distendono al futuro – non produca contraddizioni:

Verum Plato multa fato, plurima natura ac potestate nostra evenire fatetur. Quare aut concedendum est, non esse omnium providentiam (quod non cohaerent cum praedictis) aut omnium esse eventum necessarium450.

L’alternativa tra libertà e empietà compare pertanto nell’orizzonte platonico come accadrà in quello degli Stoici. Restringere i confini del potere

447 Ivi, f. 75v. 448 Ibidem. 449 Ivi, f. 76r. 450 Ivi, f. 76v.

provvidenziale equivale infatti a rifuggire un cosmo fatalista, ma anche ad indebolire la posizione divina e Platone cerca insomma di salvare la libertà senza averne i presupposti. Una posizione in grande misura dipendente da quella di Platone è ovviamente quella di Plotino, che però arricchisce la sua opinione con un maggiore accento sull’immateriale insistendo sul rapporto tra anima e fato. E’ l’anima l’elemento che pone l’uomo supra fatum, così come il corpo – che è in fato – assecondando i sensi lo può condurre sub fatum. A meno che pertanto non abbia il sopravvento la dimensione corporale, l’anima si sottrae insomma al fato proprio perché corpore absoluta:

Verum virtutem liberam esse, et ad animam spectare, tam humana, quam divina iura docent. Hinc liquido constat, animam non astringi necessitate, quondam et si cunctae causae conveniant, tamen anima, cum sit una ex causis, habet liberam potestatem retinetque electionem agendi quodlibet451.

Respingendo una reale azione del cielo – semmai segno e non certamente causa degli eventi futuri – sui casi terreni, Plotino conclude per la libertà dell’anima umana sebbene realisticamente riconosca che

habet nihilominus haud pauca impedimenta, nempe organorum ineptiam, daemonum illusionem ac vehementissimum cogitationis motum. Unde hebetudo, oblivio, stoliditas, furorque nascitur: quae omnia rationem a vera sapientia praecipitant452.

Per un pensatore come Porzio fermamente convinto dell’inscindibilità dell’intelletto dal corpo la soluzione “pelagiana” di Plotino non può però risultare soddisfacente:

Et quamvis intellectio sit facultas non organica, tamen, ut alias declaravimus, nequit esse sine corpore, et licet nulla actio corporea cum intellectione communicet, nihilominus indiget

451 Ivi, f. 77r. 452 Ivi, f. 77v.

anima sensu corporeque, ad intellectionem producendam : quod nihil sit apud intellectum, quod prius non fuerit in sensu453.

Plotino non viene respinto quindi per una contraddizione interna al suo pensiero, ma perché la sua posizione non si armonizza con l’interpretazione porziana di Aristotele. In modo non dissimile viene respinta l’interpretazione successiva, del tutto opposta a quella plotiniana: quella di Crisippo e degli Stoici. Secondo Crisippo il fato «est series causarum quae evitari non potest» pertanto assolutamente coincidente con l’inevitabile volontà di Dio, la provvidenza. Numerosi esempi testimoniano dell’efficacia della posizione stoica – in primo luogo il moto dei corpi naturali – mentre però si ripropone la tragica predilezione per un universale determinismo provvidenzialistico di fronte all’impossibile ammissione di un Dio debole: il fatalismo per gli stoici rappresenta così un’opzione che permette di evitare l’empietà. E’ poi facile per loro argomentare che la volontà viene determinata dall’intelletto, il quale al contrario, è necessariamente determinato: «voluntas vero est comes intellectus, perinde ut umbra corporis, […] ergo necessaria est». Lo stoicismo in questo modo radicalizza al massimo il legame fra l’aspetto spirituale e corporeo dell’uomo, insistendo proprio su ciò che Plotino mirava a scindere454. Ugualmente la materia, che costituirebbe tradizionalmente

l’aspetto contingente della realtà, resta determinata nella sua attività pure quando si trova a produrre monstra: il casuale e il raro vengono perciò cancellati, mentre ogni effetto acquista una natura per se definita.

Porzio a questo punto ripudia un compromesso tra stoicismo e Aristotele, come quello che Pomponazzi aveva strategicamente impiegato nel suo De

fato455. Lo Stagirita porziano è al contrario uno dei più strenui avversari della

453 Ibidem.

454 Su questo punto è evidente la diversa traccia esegetica sulla quale lavora Porzio a proposito dello stoicismo fra De fato e An homo, insistendo qui su di un radicale fatalismo e nell’opera fiorentina su di un’etica dai contenuti pelagiani. Cfr. cap. VII.

455 P. Pomponazzi, Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, edidit R. Lemay, Lucani, 1957.

posizione determinista (in ampia compagnia del resto, quella di Platone e «fere omnes Philosophi») e sono proprio i testi aristotelici come il De

interpretatione e la Metaphysica a costituire il cardine dell’argomentazione

antifatalista. Alle prove filosofiche si aggiunge il fatto che l’esistenza di una rigida catena causale contravverrebbe a quella che è la nostra esperienza quotidiana, esplicata nei classici esempi dei cani di Licurgo e del fisiognomico Zopiro. Volendo trovare un’etichetta per le regolarità del mondo, si dovrà piuttosto parlare di consuetudine, natura, ma non piegarsi ad un dominio esteriore. Così, poco sotto, anche la posizione degli astrologi viene infine velocemente liquidata come «non digna filosophis» in base all’evidente difformità e irregolarità di comportamento proprie della materia456.

A questo punto, colte le contraddizioni degli avversari di Aristotele, Porzio muove all’esposizione della dottrina dello Stagirita. Ci sarà da interrogarsi:

[...] primum de nomine fati, secundo an fatum sit natura, et quo pacto ab ipsa natura, et a fortuna, et a causa secernitur, tertio quo ad nos comparatur, quarto an hoc connexum verum sit, si Deus et corpora caelestia necessario agant, et omnia de necessitate evenire, et ultimo quomodo salvatur contingentia, et libertas in nostra voluntate457.

Non è dunque posta in questione la realtà del fato, ma principalmente la ripercussione della sua azione sulle vicende terrene, che coinvolge come primi attori Dio, il cielo, la nostra volontà. Molto accurata è al solito la definizione del termine:

Sumitur ergo fatum nomen diversa ut in diversis contemplatur series, et ordo, dicamus igitur quod tribus modis potest fatum considerari, uno formaliter et in se, ut nostris utamur vocabulis, et sic fatum est immutabilis universi status458.

456 Porzio, De fato, cit. , f. 79r. 457 Ivi, f. 79r.

É proprio dalla definizione, che rivendica i principi d’ordine sottesi al cosmo aristotelico, che Porzio ricava i presupposti per liquidare quei filosofi «qui dixerunt omnia casu evenire, et dixerunt infinitum dari»459. Il mondo per

Aristotele è infatti finito e limitato e così l’esistenza di una catena di cause permette di rintracciare un primo motore che armonizzi l’accadere dei moti, soggetti non più al caso bensì ad un determinato disegno. Se per gli altri filosofi, e segnatamente il riferimento pare riferirsi agli atomisti in genere, il fato non riesce a distinguersi dal caso e dalla fortuna e proprio queste due forze si innalzano a principi regolatori della realtà, «solus Aristoteles habet ponere fatum quia ponit terminum unum principium, et hoc ne sit confusio in universo»460. Altri argomenti possono d’altronde confermare la posizione

aristotelica, ma dopo aver ripetuto sulla scorta della Metaphysica che buono è il dominio di uno solo, Porzio attacca qualunque posizione che ammetta un minimo momento di disordine nella vicenda universale come la stessa cosmogonia del Timeo. Si può così concludere che formaliter il fato è «lex data rebus omnibus a Deo optimo maximo»461.

Resta tuttavia che il fato non agisce ugualmente su corpi diversi quali i

sublunaria, i lunaria e le stesse intelligentiae: non può infatti sfuggire che gli

elementi celesti partecipino effective alla struttura fatale che regola i corpi inferiori, vale a dire la natura. I diversi livelli ai quali si dispiegano le leggi fatali mostrano così come l’azione del primo motore non sia immediata, ma passi piuttosto attraverso gradi successivi. Anche a posteriori, muovendo dall’essenza dell’uomo, si può cogliere la consistenza di questa catena causale:

[…] moderni ponunt unum agens sine medio scilicet Deum, et contingit istis ut nullum ens habeat actionem propriam naturaliter, et cum entia non habuerint actiones proprias, non habebunt proprias essentias, actiones non diversantur nisi per essentias proprias, et ista

459 Ibidem. 460 Ibidem. 461 Ivi, f. 80r.

opinio est valde extranea a natura hominis, et qui recipiunt ista non habent cerebrum habilitatum universaliter ad bonum462.

Stabilito pertanto come Dio si relazioni agli effetti sublunari, resta da vedere se sia egli stesso inserito all’interno della catena causale. La sostanza divina è atto, quindi deve necessariamente causare senza per questo essere privata della propria libertà: sarebbe del resto assurdo applicare a Dio quello che noi comunemente intendiamo come libertà, vale a dire come indifferenza degli opposti. L’arco delle operazioni divine si estende secondo efficienza, finalità e forma, mediante un ordine che armonizza anche l’appetito delle intelligenze celesti. Esse non aspirano infatti ad assimilarsi a Dio, ma come un servo dal desiderio retto, vogliono adeguarsi non al loro padrone, ma all’ordine che egli impone. Tutto si presuppone nell’ordine dell’universo, al punto che se venisse a mancare un tassello, ogni cosa andrebbe cancellata: a maggior ragione se Dio non causasse il moto, «tunc omnia dextruerentur», poiché il primo motore si abbandonerebbe ad un ozio nocivo non comunicando all’intero universo tutta la sua bontà. Va in ogni caso approfondito il significato di questa azione mediata della prima causa, in rapporto alle intelligenze e alle cose caduche. Secondo gli antichi questo problema non sarebbe stato naturaliter risolvibile, «quoniam principia corruptibilium essent aeterna», ma Averroè aveva altresì evidenziato come sensibili siano i principi delle cose sensibili ed eterni i principi delle cose eterne, e così rompendo la continuità dell’universo aveva imposto la ricerca di una comunicazione fra le due sfere463. In base all’asserzione di Averroè, il primo motore non può unirsi

direttamente con il mondo sublunare, segnato dalla corruttibilità dei suoi stessi primi principi. Il medio fra l’absolute eterno e l’absolute temporale sarà allora il cielo «secundum aliquid novum, secundum aliquid aeternum»464.

Sono a questo punto evidenti i limiti del modello teologico della creazione, che abbassa il divino ponendolo a diretto contatto col corruttibile e postula

462 Ivi, f. 81r. 463 Ivi, f. 84v. 464 Ivi, f. 85v.

l’inutilità dei corpi celesti, inaccettabile all’interno di un cosmo finalisticamente costruito. Per questo va mantenuta l’opera di mediazione del cielo, mentre si può invece affermare che Dio non crea, ma genera procedendo da lui una serie di cause seconde:

Deus non immediate agit ad effectum secundae causae, licet causa secunda dicatur agere in virtute primae causae, ergo id est quod in agendo non habet formam agendi in suo ordine, sed agit per actualem motum Dei, sicut serra agit, quia actualiter movetur, et isto modo dico quod tantum Deus attingeret effectum465.

Dio è il primo motore della generazione, tanto che l’effetto «non erit hominis, sed Dei tantum, nec ab instrumento denominabitur, sed a principali agente»466. Proprio la pervasività – per quanto mediata – dell’azione divina

sopra ogni effetto richiama il tema della libertà dell’arbitrio che in questo gioco di causazioni e di influenze, rischia infatti di restare stritolata nella serie causale. Per il momento Porzio non affronta il problema in riferimento al proprio sistema, ma fa scontrare la tradizione teologica con questa difficultas

magna. E così:

Ergo nullo modo libera esset voluntas, probatur quia vel est libera antequam actum producat respectu actus futuri, vel quando producit illum, vel quando illum produxit. Non antequam producat, quoniam si Deus non praecausat, ipsa non habet actum in potestate sua, quia ageret indipendenter, si praecausat oportet de necessitate ipsum causare aliter non esset essentialis ordo nec dum causat simili ratione, similiter nec potest quantum ad praeteritum, non enim est libertas, ergo nullo modo esset libera467.

Trovandosi però in chiusura della quaestio, Porzio non può esimersi dal fornire la propria soluzione ad una difficoltà che colpisce anche il pensiero aristotelico, ovvero conciliare l’azione di Dio e la libertà. Se con il rifiuto della dottrina della creazione non ha senso parlare di dipendenza diretta della

465 Ivi, f. 86r. 466 Ibidem. 467 Ivi, f. 86v.

creatura da Dio e se la materia apre varchi alla contingenza, il problema della ricaduta determinista della conoscenza divina è risolto brevemente, accettando una classica posizione di sapore boeziano-tomista:

Nego antecedens nullum futurum Deus scit nec praeteritum, nec praesens, sed scit quod est supra tempus, et est sua essentia, et nihil aliud obiective cognoscit [...]. Scientia Dei est causa rerum secundum ordinem entitativum, non omnia immediate468.

Dunque la gerarchia delle cose ha imposto un ordine celeste che va dal primo motore al mondo corruttibile passando attraverso i corpi celesti, senza che ciò comporti altresì compiacimenti astrologici, in precedenza già rifiutati. La speciale sottolineatura di un’assenza di azione diretta di Dio sulle creature, per quanto all’interno di una catena causale, allontana ulteriormente la minaccia determinista: si tratta di due mondi diversi, caratterizzati da nature diverse, che solo il cielo mette in comunicazione. Eppure resta da individuare in quale modo agiscano le sostanze separate.

I filosofi sostengono che i tre mezzi con i quali Dio agisce sul mondo inferiore sono motus, lumen, influentia. In realtà questa ultima modalità – la più potente della triade, nonché particolarmente valorizzata dai vituperati astrologi – non sembra sostenibile all’interno di una filosofia naturale. Attraverso l’azione diretta dell’influentia si tornerebbe infatti a sostenere un rapporto immediato di Dio col mondo inferiore finora dichiarato impossibile, mentre al contrario luce e moto troverebbero perfettamente posto all’interno del complesso cosmo aristotelico: il cielo quindi è «causa efficiens per motum et lumen»469.

Gli interpreti discutono però sul dominio della sua causazione, vale a dire se essa si estenda ai particolari o si limiti agli universali. Se Enrico di Gand assegnava la causalità efficiente del cielo ai soli particolari, il Napoletano argomenta che, al contrario, in universale il cielo «est causa effectiva, et propter suam efficientiam antiqui vocarunt Deum»470. Ugualmente sono

468 Ivi, f. 87v. 469 Ivi, f. 88v. 470 Ibidem.

sterili e non tutte «secundum Philosophi mentem» le distinzioni di Baconthorpe sulla causazione celeste, per spiegare la varietà degli effetti. Infatti si può molto più semplicemente concludere che

Coelum facit sua revolutione, ergo est facta conservat, quoniam si per suum recessum erat una dispositio nocens, per accessum inducit dispositionem iuvantem, et illa dispositio non est tanta in universali, quod dextrunt speciem, sed per illam alterationem conservat, quamvis in individuo hoc aliquando fallit, ratio est ut audies quoniam non intendit individuum, quomodo individua reducantur ad caelum videbitis471.

L’individuo è così escluso dalla cura regolata dai corpi superiori, che rivolgono infatti le loro attenzioni alla conservazione della specie.

Ecco pertanto costruito lo scheletro del cosmo: un primo motore, che è Dio, eterno e necessitato nella sua pur libera azione, un mondo sublunare soggetto a generazione e corruzione e, a mediare fra questi poli opposti, i corpi celesti che agiscono secondo universale. Svolte queste preliminari e intricate questioni, è finalmente possibile affrontare il cuore della questione: «an omnibus imponat necessitatem, seu an omnia sint sub fato secundum peripateticos»472.

Il fato è natura, cioè il principio del movimento, ma anche l’ordine delle cause naturali. Poiché il cielo è l’«author» dell’ordine naturale, allora il cielo stesso è il fato in pluribus. Il margine di intedeterminazione va lasciato infatti alla dialettica fra l’elemento fatale nell’individuo, cioè la forma, e quello contingente, vale a dire la materia assurta a prima attrice della libertà terrena. Se ex fato e ex formis sono espressioni equivalenti, la materia è allora ciò che emancipa in qualche modo l’individuo dall’ordine delle cose in quanto «causa nihil et infinitatis»473.

Sono dunque gli enti che seguono l’ordine naturale ut in pluribus ad essere soggetti al fato. A queste contingenza e libertà, tutte immerse nella natura

471 Ivi, f. 89r. 472 Ibidem. 473 Ivi, f. 89v.

delle cose, si aggiunge la specificità della condizione dell’uomo. Se ad api e rondini manca la cognizione intellettuale per eleggere le proprie azioni, e quindi non «exeunt ordinem totius speciei»474, diversa è l’attitudine umana

sebbene nel suo caso la determinazione dell’intelletto sulla volontà – potenza passiva disposta agli opposti – ponga in modo differente significativi impedimenti alla sua libertà. Porzio liquida tuttavia velocemente l’argomento, limitandosi a dire che la volontà non può opporsi all’oggetto che gli è presentato dall’intelletto sub ratione boni, a meno che non si sottragga a questa necessità attraverso la sospensione dell’atto. Ci troviamo quindi davanti ad una sorta di impasse, che rivela la peculiare ambiguità della condizione umana rispetto a quella degli altri enti.

Porzio si premura in ogni caso di ricordare fin da ora che secundum fidem la soluzione filosofica va scartata a favore dell’assoluta libertà dell’arbitrio, ma ritorna subito nei binari speculativi riaffermando che Dio non si cura dei singolari e che la sua azione si concretizza nell’ordine necessario dell’intero. Ciò che lega i singoli a Dio è una «similitudo communis omnibus», ma per il resto la divinità non provvede a loro, se non per quanto concerne la totalità della specie:

Dico quod individua, ut servant ordinem speciei sunt sub fato, ut nasci, vel post novem

Nel documento Simone Porzio (pagine 173-200)

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