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Un sensato armistizio: l’An homo bonus, vel malus volens

Nel documento Simone Porzio (pagine 149-173)

fiat

Un ulteriore aspetto dell’esegesi porziana di Aristotele e, soprattutto, una nuova testimonianza sulle sue propensioni eterodosse è rappresentata dall’An homo bonus, vel malus volens fiat, tradotto in volgare da Gelli sotto il titolo di Se l’huomo diventa buono o cattivo volontariamente.

Nel quadro generale dell’opera i protagonisti principali risultano essere l’irriducibile ambiguità della natura umana, composta in modo unitario di senso e intelletto, la gerarchia del cosmo e dell’uomo, una sostanziale palinodia della dignitas hominis del primo Rinascimento. Tutti questi elementi confluiscono in una elegante contaminazione di temi aristotelici e religioso- eterodossi eloquentemente sintetizzata nel concetto cristianizzante di Dio che traspare dall’opera, concezione che certo non ricorda il motore immobile di altri scritti porziani di stretta osservanza peripatetica come il De fato o il De

mente humana: si vedrà come ciò accada in base a precisi convincimenti e

strategie, basti per ora ricordare che gli affascinanti esiti di questa combinazione tutt’altro che omogenea sono favoriti dalla propensione che Porzio ha sempre mostrato per il soggetto centrale del trattato, vale a dire l’arbitrio umano, interesse ben noto ai suoi compagni d’Accademia, tanto che Tullia d’Aragona addirittura mette in bocca al Varchi simili parole:

Io vi confesserò la verità. Io non lo intendo bene [se è più potente l’amore che viene dal destino o quello che viene dalla propria facoltà elettiva]; e, oltra questo, veggo che bisognarebbe entrare nel fato e nella predestinazione, le quali sono cose non meno lunghe e difficili che pericolose. E pertanto io giudicherei che fosse ben fatto che noi rimettessimo questa questione in tempo che ci si ritrovasse il non meno graziosissimo che eccellentissimo signor Porzio, al quale, per la profondità e varietà delle scienze che sono in lui, in questo e in altri dubbi sarà agevole di potervi securamente sodisfare. E, se oggi stato ci fosse, come alle volte è usato di venirci, a me averebbe tolta la fatica del dire, e, senza fatica di sé, di tutte le vostre dubitazioni vi averebbe data resoluzione398.

398 Tullia d’Aragona, Della infinità di amore in Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, Bari, 1912, p. 241. L’attestazione di stima da parte del Varchi nei confronti di Porzio

Una simile asserzione documenta l’interesse precoce di Porzio per l’argomento, considerando che il dialogo di Tullia fu dato alle stampe nel 1547, ben quattro anni prima della pubblicazione dell’An homo, ed è confermata in ogni caso dalla ricchezza di scritti con i quali il filosofo napoletano affrontò il tema della volontà umana, riuscendo a svolgerlo ogni volta con accenti, sfondi e paradigmi sempre diversi. In opere distanti almeno dieci anni come il De fato e il De rerum naturalium principiis399 l’uomo con la

sua libertà trova una difficile collocazione all’interno di una realtà naturale concepita come un meccanismo di causalità celeste e casualità materiale; al centro dell’ancora perduto De arbitrio humano400 e appunto dell’ An homo bonus vel malus volens fiat è la riflessione morale sui limiti interiori

dell’autonomia umana e sui suoi risvolti etico-salvifici: anche in base a simili considerazioni è già possibile cogliere in Porzio uno scollamento tra etica e fisica, il sostanziale disinteresse per la ricerca di una coerenza interna e sistematica al filosofare aristotelico, che aveva al contrario contraddistinto – e con declinazioni spesso drammatiche – la produzione di Pomponazzi.

L’An homo si apre con una breve introduzione di dedica a Lelio Torelli, l’influente giurista segretario di Cosimo401, all’attenzione del quale viene

sottoposta una questione peripatetica che il volgo non potrebbe comprendere:

an homo sponte sua, ac volens malus bonus malusve fiat, nullis scilicet praecedentibus causis, quae illum ad bene maleve operandum impellant […]402.

che emerge dal brano pare escludere il significato antivarchiano della sua collaborazione con Gelli, proposto in forma dubitativa da Vasoli, Tra Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Valdès, cit. , p. 586.

399 Cfr. infra, cap. VIII.

400 Notizie sul contenuto di questo libello per adesso perduto ci vengono da precise allusioni fornite proprio dall’An homo, cit., dove viene ricordato più volte alle pp. 9, 41, 58, 62.

401 Su Lelio Torelli cfr. fra gli altri E. Fasano Guarini, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze, 1973,

passim. Va segnalato che lo stesso Torelli era in cordiali rapporti di amicizia con Marcantonio Flaminio, grande animatore dell’Ecclesia viterbensis, nonché coautore e diffusore del Beneficio di Cristo. Cfr. M. Flaminio, Lettere, cit., pp. 188-189.

Vale a dire:

an probi improbique naturae quidam propensione, ac imbecillitate aut ignorantia efficiamur, nulla adhuc adhibita deliberatione403.

Per quanto la formulazione porziana del problema sia più elaborata e complessa, si tratta sostanzialmente della questione dell’effettiva libertà della scelta umana che porta aristotelicamente parlando alla formazione di un abito virtuoso o vizioso. E’ infatti in dubbio se la deliberazione che precede la scelta abbia bastevole forza nel rendere un uomo buono o cattivo a dispetto delle propensioni individuali, oppure siano solo queste inclinazioni innate e difficilissime da vincere che inducono ad una natura piuttosto che ad un’altra. Favorire la seconda soluzione avrebbe però gravissime conseguenze sulla vita civile e sulla stessa ricerca filosofica. Se infatti i legislatori sono in primo luogo interessati al libero volere dei cittadini che governano per garantire l’osservanza delle leggi, i filosofi vedrebbero negata l’indipendenza dell’anima dal corpo qualora gli atti umani fossero guidati dall’involontarietà e non dalla deliberazione:

Et tanto hercle infoeliciores existimandi sunt, quanto animi infoelicitas quam corporis maior est censenda, nam nihil profecto divinum, nihil sincerum, in nobis fuerit: neque mens nostra impermista sed corpori mancipata putabitur, quod philosophorum fere omnium consensu maxime execratur404.

Ma le vittime più illustri di questa credenza che abolisce la deliberazione umana sarebbero senza dubbio i teologi, che tanto si sforzano di migliorare i nostri costumi e le nostre anime:

402 Porzio, An homo, cit., p. 3. 403 Ibidem.

Adhaec irrita fuerit Orthodoxorum fides: inutiliter quoque theologi sanctissimi, studium, diligentiam, omnem denique mentem suam adhibuerint, ut animum ac voluntatem nostram purgarent, dum Deum rite colendum, omnes animi affectiones ac perturbationes e medio tollendas esse persuadent405.

Il riferimento agli scopi dei teologi giunge quindi a coronamento di un climax di categorie (legislatori e filosofi, come visto) colpite dall’annullamento della possibilità di scelta dell’uomo. Questa allusione ai teologi apre tuttavia la porta a molte ambiguità, che prescindono stavolta dall’abituale fastidio che Porzio dimostra per le velleità filosofiche della Scolastica: ad attirare l’attenzione sulla scivolosità del riferimento è infatti il trattamento che gli riserva Gelli nell’introduzione che precede il suo volgarizzamento, dove omette appunto qualsiasi menzione riguardante i teologi. Nella lettera che il letterato fiorentino indirizza a sua volta a Francesco Torelli, figlio di Lelio, viene semmai sviluppato il tema dei legislatori e dei filosofi, evidenziando peraltro l’importanza della traduzione in volgare come saggio dell’attività dell’Accademia fiorentina406, e ponendo come motivo originario dell’opera la

necessità di rispondere in modo efficace alla rinnovata diffusione delle teorie fataliste di un certo Siro, probabilmente quel Bardesane che un’auctoritas come Eusebio aveva fatto bersaglio delle più violente invettive nel settimo libro della Preparazione evangelica, quello dedicato alla libertà dell’arbitrio407.

405 Ibidem.

406 «Havendo nuovamente scritto Latino, lo Eccellentissimo filosofo M. Portio Napoletano, a la Magnificenza di M. Lelio vostro padre, una opera dotta, utile et bella, et desiderando io di tanta sua utilità, far participe maggior numero di huomini, […] l’ho tradotta in questa lingua […] a ristrignere per gli Accademici nostri almeno, se non per gli altri, le cose della lingua Toscana, et tornare particolarmente la Fiorentina, quel suo più puro essere, che oggi si può, et a quelle determinazioni, le quali più si vedranno piacere, a l’universale giuditio di essi Accademici, rispetto a la troppa licentia che ci usano dentro, una gran parte de gli scrittori Italiani, et nostri […]». Porzio, Se l’huomo, cit., pp.7-8.

407 Eusebio di Cesarea, Preparatio evangelica, hrsg. K. Mras, Berlin, 1954-1956. L’opera, che alla’epoca aveva una notevole diffusione, era ben nota a Porzio che l’utilizza pure nel De fato. Il suo amico Seripando scriveva a Flaminio il 31 luglio 1539: «Ringrazio il Signor mio che

C’è un’altra piccola quanto importante omissione di Gelli che pare lecito ricondurre a un disegno prudenziale: nella chiusa della traduzione manca infatti la dichiarazione che per raggiungere le soluzioni appena esposte si è fatto ricorso solo ai «Peripateticorum placitis», «nulla habita ratione nostrorum Theologorum», presente invece nell’originale408. Autocensura che

proprio come la precedente parrebbe altrimenti gratuita a meno di non porla in relazione con l’anno di composizione dell’An homo, il 1551, lo stesso nel quale ebbe luogo il lacerante autodafè cui Cosimo costrinse molti illustri cittadini di tendenza eterodossa409. La scomparsa della matrice – anche –

religiosa dell’opera a esclusivo favore di quella politica, nonché il cassare dalla versione in volgare le allusioni ai teologi, poste da Porzio in positio

princeps nel testo latino – in apertura e nel finale – spingerebbero a pensare

che Gelli non ritenesse prudente parlare anche solo in modo allusivo di teologia mentre a Firenze si facevano le prime prove di Inquisizione, visto che un riferimento vagamente ambiguo poteva attirare l’attenzione dei censori ecclesiastici su di un’opera più complessa di quanto non sembrasse, al punto di concludersi nell’esaltazione della dottrina aristotelica, ma soprattutto del beneficio offertoci dal sacrificio di Cristo, il quale appare come l’esclusivo risanatore del nostro arbitrio: ecco quindi giustificato l’interesse dell’accademico nel mimetizzare quelli che potevano apparire corpi estranei in un trattato che si dichiarava pure filosofico.

Lo schema dell’opera è tuttavia tradizionale, anche se la rituale rassegna delle opinioni delle sectae viene ridotta al minimo da Porzio: la soluzione

habbiamo un libro simile a quello di Eusebio de preparatione evangelica» (ms. XIII AA 63, Biblioteca Nazionale, Napoli, f. 128v).

408 Porzio, An homo, cit. , p. 67; Se l’huomo, cit. , p. 140. Lo segnala Fiorentino, Simone Porzio, in

Studi e ritratti, cit., p. 136.

409 Sui fatti del 1551-1552 cfr. G. Bertoli, Luterani e anabattisti processati a Firenze nel 1552, in «Archivio storico italiano», CLIV, 1996, pp. 59-122; S. Caponetto, La riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, 1997², pp. 353 e sgg.

aristotelica che il filosofo si propone di offrire si oppone infatti alle sole dottrine stoica e platonica.

Parlare di stoicismo e arbitrio dell’uomo potrebbe far prevedere una posizione dove tutto è regolato dal destino e l’uomo non ha alcun merito nella costruzione della sua natura: del resto è proprio la concezione fatalista attribuita convenzionalmente a Crisippo che Porzio prende di mira nel De fato e nel De rerum naturalium principiis. In questo diverso contesto – etico- teologico e non fisico – l’aspetto della dottrina stoica che Porzio privilegia è invece tutt’altro: ritenendo realizzabile l’obiettivo dell’atarassia, gli stoici confidano infatti che l’uomo possa da solo liberarsi dalle passioni, vale a dire dai turbamenti che il corpo trasmette all’anima, rendendosi così libero e in sostanza divino. Su questo aspetto in qualche modo alternativo alla dottrina del fato, giocava del resto la tradizionale opposizione tra la realistica etica peripatetica e la sovraumana morale stoica, nucleo di una querelle che aveva diviso già Gerolamo ed Agostino410. Per quanto ancora tra Quattro e

Cinquecento l’atarassia stoica fosse stata ammirata da molti pensatori – si pensi a Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini e poi fino a Erasmo – essa aveva tuttavia finito per manifestare anche agli occhi di costoro la propria inconsistenza pratica411. Neanche Porzio si fida di questa eredità crisippea che

descrive un uomo in grado di ripudiare una parte di sé, solo con le sue forze e senza l’eventuale aiuto esterno di una divinità. Infatti l’apatia-atarassia ― obiettivo del modello stoico ― rivela al filosofo le sue ricadute terribili sulla comunità umana, fino a configurarsi come una vera e propria eresia, quella pelagiana:

Quam haeresin olim Pelagius sequutus, putavit nos tum virtutes, tum summum bonum, et quod Latini quidam meritorium vocant, nostra facultate consequi posse. Quod si gratia

410 Cfr. L. Casini, Aristotelianism and Anti-Stoicism in Juan Vives’s Conception of the Emotions, in

Moral philosophy on the threshold of modernity, eds. J. Kraye, R. Saarinen, Dordrecht, 2005, pp. 283-305.

411 Su Erasmo cfr. Enchiridion militis christiani, in Ausgewählte Schriften, I, hrsg. von W. Welzig, Darmstadt, 1968, p. 12, dove torna la tradizionale opposizione tra stoici e peripatetici.

Christi accederet, per eam omnia fore faciliora: sine ea tamen posse nos ad coelestem gloriam evehi idque nostris viribus. Quod execratur Divus Paulus, exclamans Christum gratis mortuum esse […]412.

Ovviamente le virtù e il sommo bene cui mirano gli stoici e Pelagio appartengono a due costellazioni completamente diverse, ma i seguaci di Crisippo sono d’accordo con l’eretico del V secolo sul fatto che l’uomo possa conseguire esiti eccezionali senza ricorrere ad un soccorso superiore. La risposta a queste assimilabili posizioni è una sola, ed è Cristo. La grazia divina ha proprio il compito di guidare le nostre azioni per permetterci di conseguire il bene: se potessimo sostituirla unicamente con le nostre forze, non avrebbe più senso. Poiché al contrario l’uomo è essenzialmente debole, la grazia non è solo un aiuto accessorio che rende più agevole il cammino verso la virtù, ma un ausilio absolute necessario per raggiungerla. L’uomo non può diventare un dio, proprio perchè ha bisogno di Dio.

Il nesso che a questo punto trapela, suggerito invece dall’aristotelismo, è quello fra corporeità dell’uomo e grazia. L’ineliminabile dimensione materiale, veicolo delle passioni buone o cattive che siano, impone infatti all’uomo la sottomissione alla grazia divina per poter uscire indenne dai turbamenti che sconvolgono la sua anima. L’argomento paolino sulla necessità del sacrificio di Cristo è come catapultato in conclusione del paragrafo, in un contesto dove gli interlocutori erano stati fino a quel momento solo stoici e peripatetici. Ma questo Deus ex machina nel vero senso della parola proietta lo stoicismo in una dimensione che non è più quella filosofica, avendo così agio di respingerlo come eretico ed empio. Una strategia sleale, ma certo efficace.

L’altro avversario da sottoporre al vaglio di Aristotele è il platonismo. Nel

Menone Platone aveva affermato che le virtù non nascono in noi per natura,

né sono altresì insegnabili alla stregua di scienze, venendo infuse dai cieli per sorte divina. Non solo, la conclusione a cui giunge nelle Leggi per definire l’azione volontaria è ancora più recisa:

Vere itaque voluntaria ex Platonis decreto illa erunt nuncupanda, quae a recta ratione, nullo affectu aut ignoratione irretita, sed libera, non autem turbata electione fiunt413.

Questo significa che noi non siamo assolutamente padroni delle nostri azioni, che vizi e virtù non sono in nostro potere. Infatti la virtù si configura come un

munus Dei, mentre il vizio è un morbus involontario dovuto alla nebula con la

quale i sensi oscurano la ragione. Teologicamente parlando tutto ciò può essere tradotto in questi termini: se il fine, vale a dire farci buoni o cattivi, non rientra nella nostra potestà, allora anche il nostro primo moto sarà naturale e quindi determinato. In conclusione all’uomo non spetta alcuna libertà, e ciò rende impossibile un giudizio morale sulla sua azione.

Inutile sottolineare che siamo agli antipodi della posizione stoica, che si appoggiava su di una sorta di onnipotenza umana, capace di superare se non addirittura di rimuovere l’aspetto materiale della sua natura attraverso un dominio incontrastato della ragione. Nella visione platonica al contrario l’aspetto materiale persiste ed inficia la consistenza dell’azione volontaria, che si dovrebbe sottomettere all’impensabile condizione di essere scevra da affetti che la irretiscono nell’ignoranza per essere veramente libera. Ciò accade in quanto riducendo il libero arbitrio nei ristretti ambiti della ragione, e facendo di essa la suprema guida della volontà, sarà sufficiente che la sfera sensoriale interferisca anche in minima misura con quella intellettiva per compromettere la bontà oggettiva delle sue deliberazioni. Il vizio in se è dunque eliminato, poiché la falsa conoscenza lo giustifica, ma nello stesso tempo la virtù è limitata all’apporto esterno di un primo moto naturale. Se gli stoici riuscivano a fuggire l’aspetto sensibile dell’uomo grazie alla forza dell’intelletto, i platonici gli soggiacciono in attesa della liberazione dal tetro carcere corporeo, senza che la ragione abbia la forza autonoma per emergere ed imporsi.

Si propone allora una duplice chiave di lettura nello sciogliere questo nodo che condanna diversamente la corporeità e la ragione: quella più immediata è fornita dall’aristotelismo, un paradigma filosofico in grado di riscattare il valore dell’ancipite natura umana, in ogni caso imprescindibilmente composta da intelletto e passioni, razionalità e materialità. Le soluzioni precedenti finivano infatti per privilegiare uno solo degli aspetti: l’ideale umano degli stoici è puramente intellettuale, un uomo privato della sua sfera passionale e del suo lato materiale; secondo i platonici invece, l’uomo ― per quanto brami la liberazione dal carcere corporale ― è annegato nella sensibilità che gli ottunde la ragione, costringendola a soccombere all’ignoranza. Quello che dunque accomuna le due posizioni è che entrambe, riconoscendo la prevalenza radicale di un solo aspetto, rinnegano la complessità dell’individuo umano. Per recuperarla non resta che ricorrere ad un “compromesso”. Infatti:

Nam cum homo natura nactus sit ambiguam, (idque si intellectum possibile atque animam ipsam minime corruptioni esse obnoxiam statuerimus: sin minus, quod fortasse Aristoteles sensit, aliter erit dicendum) anima quoque eius facultates habet partim communes cum brutis ac plantis, partim sibi propriam, qua caeteris animantibus praestat414.

Ritorna qui nuovamente la strategia dell’Aristotele mediatore, in quanto di fronte a due soluzioni opposte che non sono in grado di rendere conto della complessità di un oggetto e che finiscono per forzarlo unilateralmente, è solo la filosofia peripatetica ad offrire una risposta adeguata che tiene conto della realtà in modo non astratto. Per certi aspetti (le facoltà intellettuali) l’uomo supera gli altri esseri viventi, per altri (la soggezione alle passioni e ai bisogni fisici) è simile alle bestie e alle piante: è in base a questa considerazione fondamentale che Porzio può stabilire quale sia la virtù propriamente umana legata alla corporeità, ma anche alla parte razionale. Con accenti che riecheggiano l’Etica nicomachea, ma soprattutto la Politica, il filosofo conclude che l’azione propria dell’uomo è quella medietà che si attua nella vita civile,

della quale sia le passioni, sia la ragione che le regola sono componenti imprescindibili. Di fronte all’alternativa di potersi avvicinare agli dei o abbassare al rango delle bestie, l’uomo dovrà sicuramente scegliere il superiore grado contemplativo almeno come principio regolativo delle proprie azioni, ma poiché la medietà della virtù dimostra che non è necessario a tutti assurgere a questo supremo bene esse, sarà per intanto una meta sufficiente l’esse garantito da una giusta composizione di razionalità e passione415, propria di quella vita civile che gli stoici vorrebbero condannare

respingendo l’amore del giudice per la giustizia e quello del padre per i figli:

Praeterea si in iusta agente non adesset odium et amor iniustus esset, quare affectus non est e medio tollendus. Nam si iudex odio ut dici solet Vatiniano vitium non prosequeretur; aut virtutem ac aequalitatem non amaret tenere, iusta agere haud posset, sed modo huc, modo illuc inclinaret. Cum autem iudex debeat esse mensura iudicio contendentium, debet quidem, neque huius, neque illius partis causis parte favere, at in primis iniustitiam odisse, et aequitatem diligere. Ad haec, morte filii non affici, aut omnino non dolere, iuri repugnat naturali: at ius naturale semper rectum bonumque est, igitur carere omni dolore malum est416.

Sempre un esempio legato all’amore è significativo di come Porzio si impegni anche a rintuzzare la posizione platonica sull’involontarietà del vizio:

415 Analoga posizione era stata sostenuta da Pomponazzi, De immortalitate animae, cit., ma allo

Nel documento Simone Porzio (pagine 149-173)

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