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Amori aristotelic

Nel documento Simone Porzio (pagine 37-64)

Agostino Nifo dedicò alla filosofia d’amore vari trattati in latino, tutti concepiti alla corte di Ferrante Sanseverino negli anni della sua vecchiaia; questi scritti senili, il De pulchro, il De amore, ma anche il De re aulica furono però le opere del Sessano ad ottenere maggior fortuna e a ricevere più attenzioni nei secoli successivi103.

In particolare nel De pulchro e nel De amore, talmente legati da poter essere considerati un’unica opera, Nifo intendeva colmare con il sensismo peripatetico le insufficienze della tradizione ficiniana, colpevole di svilire il ruolo della bellezza fisica e delle percezioni sensibili nella genesi d’amore. Lo sconcertante incipit del De pulchro che dimostrava l’an sit della bellezza a partire dalla descrizione particolareggiata del corpo di Giovanna d’Aragona mirava appunto a ristabilire la funzione del bello esteriore in relazione alla nascita dell’amore104. Mantenendosi in ogni caso sulla scia dell’Ippia maggiore

di cui approvava alcune posizioni definitorie105, Nifo non spezzava l’usuale

reciprocità platonica di bello e amore, ma la “secolarizzava”. Infatti affermava che

non enim de pulchro quispiam dicere poterit nisi de ipso amore dixerit quippe cum amor et pulchrum, ut inquit Socrates, correlativa sint quorum eadem est scientia106.

103 In particolare il De re aulica (Neapoli, 1534) per quanto mirato a descrivere il perfetto cortigiano, presentava alcune estese parentesi sull’amore. Queste erano dettate dalla passione per Phausina, l’ancella alla quale l’opera è espressamente dedicata e della quale Nifo si era invaghito, suscitando un certo clamore, ormai in età avanzata. A favorire invece la diffusione del De pulchro e del De amore fu invece G. Naudè che li ripubblicò in Francia nel 1645 (in Augustini Niphi Opuscola moralia et politica, cit., pp. 209-450). Sulla fortuna delle opere di Nifo cfr. B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari, 1952, pp. 101-110. 104 Per il De pulchro e il De amore considero la prima edizione, Romae, 1531. Sulla bellezza di Giovanna il passo è a ff. Vv-VIv.

105 Ad esempio accoglie le confutazioni di Socrate sul bello come utile e come convenienza. Cfr. ivi, f. VIIIr.

Al contempo respingeva però l’opinione platonica per la quale

quamvis corpora quaedam speciosa dicamus, non tamen sunt ex ipsa sui natura speciosa, siquidem corpus hominis unum atque idem hodie formusum, cras autem casu aliquo foedatum deforme cernitur, quasi aliud sit esse corpus, aliud esse formosum107.

Il Sessano tentava comunque di fissare un fragile concordismo fra questo bello corporeo e il bello spirituale sul quale insisteva Platone, asserendo che poteva essere ritenuta spirituale la prima impressione che il bello esercita su di noi quando – agli albori dell’innamoramento – ancora non si è diffusa e localizzata nel corpo. Evidente qui la volontà di Nifo di non rigettare il platonismo, forse per timore di scivolare in un materialismo epicureo, ma nonostante questo sforzo il filosofo insiste sempre sulla sfera proprie fisica dell’amore:

Verum, ut amor aequivoce dicitur de amore qui est affectus appetitus sensitivi et de amore qui est affectus appetitus intellettivi, ita quoque pulchrum aequivoce dicetur de sensibilibus et insensibilibus pulchris: ita ut quedadmodum amor est proprie is qui est affectus sensitivi appetitus, qui vero intellectivi methaphorice, ita pulchrum proprie erit quod sensibus subiacet, quod vero est insensibile, methaphorice108.

Stabilendo così un nesso fra appetito, bellezza fisica ed amore, Nifo nega la possibilità di un amore intellettuale puro che scaturisca da una fruizione della

pulchritudo esteriore:

nullus frui pulchro in his potest, nisi appetitu Veneris, si fruitio sit quies in voluptifico iucundoque sibi eousque quousque id videre atque audire delectat et eius absentia fuerit dolorifica, nam, siquis quiescit in aliquo pulchro iucundo, sibique voluptifico, cuius postea absentia dolet, atque tristatur, hic in cupidinem amorem prolapsus habetur. Hoc pacto nec

107 Ivi, f. Xr. 108 Ivi, f. XVIr.

pater filiis pulchris, nec sanctus puellis frui poterit sine Veneris desiderio, nisi fortasse divino miraculo id fieret109.

Dove è notevole l’appello al miracolo divino per la continenza dei padri e dei santi di fronte alla potenza dell’appetito del bello, peraltro sulla scorta delle testimonianze dei Padri della Chiesa. Se la presenza del pulchrum distrugge l’essenza dell’amor spiritualis, si deve concludere che l’oggetto di un simile sentimento non abbia l’attributo della bellezza: lo stesso Dio non è quindi bello.

Si capisce bene a questo punto che l’amore di cui parla Nifo è un sentimento puramente umano, appunto perché fondato su di una definizione aristotelica di bello concepibile solo per l’uomo110, ma soprattutto una passione

esclusivamente dell’anima sensitiva che riscatta la sfera percettiva dalla bassa ferinità cui l’aveva costretta Ficino, poiché al contrario una fruizione perfetta dell’oggetto amato si può dare solo attraverso tutti i cinque sensi:

Nos vero arbitramur pulchrae puellae fruitionem cui nihil humani desiderii deest, perfectam esse non posse nisi anima quae rapta est ab ipsius puellae pulchritudine, […] per eos omnes sensus ea fruatur per quot omnis praeparatio agnoscitur, quoniam, ut diximus superius, per olfactum, gustum et tactum in ea cognoscit rationes pulchri: per olfactum enim suavitas in odore, per gustum autem dulcedo in labellis, lingua et ore, per tactum vero lenitas carnis percipitur quas muta animalia in suis foeminis nequaquam sentiunt111.

109 Nifo, De amore, cit., f. LXIIr. Nifo si fonda evidentemente su di una testimonianza di San Gerolamo, riportata in seguito in un’opera quanto meno eclettica di B. Di Falco, in assenza di qualsiasi background speculativo. Cfr. B. Di Falco, Trattato di amore, In Napoli, 1538, s. n. p.: «San Geronimo più casto di tutti dicea a i suoi monaci solum cum sola non sedeas in secreto absque arbitro et teste, nec sub eodem tecto cum muliere manseris, nec in praeterita castitate confidas, quia nec tu Sansone fortior, nec Salomone sapientior».

110 Si tratta della proporzionalità delle parti di cui parla Aristotele nella Metafisica (1078 a35- b6) e che si riscontra solo nell’uomo e non in Dio e negli angeli, che sono corpi semplici, né nel mondo, che è composto di parti sferiche.

L’esaltazione dell’amore fisico non implica tuttavia per Nifo la liquidazione di Ficino, il quale «vero amplificans ea, quae Plato de amore tradidit, partim allegorizando, partim addendo multa de amore non imperite compilavit», e neanche delle opinioni di Socrate nel Simposio («licet vera sint, tamen paucissima»)112. Ecco perchè nonostante l’evidente matrice sensista, la

definizione di amore fornita dal Sessano rimanda inevitabilmente agli schemi del platonismo:

Est enim affectus residens in appetitu sensitivo quo animus noster inclinatur, allicitur, rapiturque ad veri pulchri sensualem fruitionem per omnes sensus quibus pulchri species fertur ad animam, ut in eo pulchro atque ex eo pulchrum generemus ad nostri perpetuam conservationem113.

In conclusione dell’opera Nifo sente però anche il bisogno di ridimensionare in una prospettiva del tutto platonico-cristiana il suo amore troppo figlio del senso e per il quale Croce aveva parlato addirittura di sex appeal114,

introducendo ed esaltando la nozione ascetica di verissima philautia la quale – alla base di ogni sentimento di amore – è propria di chi «odit animam suam in hoc mundo» e quindi «in vitam aeternam custodiet eam»115. E proprio a

questa pia philautia si sarebbe avvicinato moltissimo anche Aristotele grazie al

lumen naturae, quando affermava sempre nella Nicomachea che i sentimenti di

amicizia che si provano verso chi ci sta accanto e con i quali si definiscono le

112 Nifo, De amore, cit. , f. Lr. 113 Ivi, f. LXVIIr.

114 Croce, Poeti e scrittori, cit. , p. 105.

115 Nifo, De amore, cit., f. CLIIIr. Una valorizzazione in chiave cristiano-neoplatonica della

philautia si trova anche in Ficino, El libro de amore, a cura di S. Niccoli, Firenze, 1987, pp. 55-56. Ma nel sottolineare la natura cristiana di questa verissima philautia, Nifo ha Mario Equicola e la sua philautia introspettiva come obiettivi polemici (peraltro esplicitamente confutata ff. 114v-115v). Su questo aspetto cfr. E. Musacchio, The role of senses in Mario Equicola’s philosophy of love, in Eros and Anteros: the medical traditions of love in the Renaissance, ed. by D. A. Beecher, M. Ciavolella, Ottawa, 1993, pp. 87-101.

amicizie, sembrano procedere da ciò che proviamo verso noi stessi116.

L’amore secondo Nifo, per quanto ombra del senso e spirituale solo secundum

quid, trova così infine un compimento necessario nella trascendenza che

coinvolge ed innalza lo stesso Aristotele.

Accadeva spesso che gli aristotelici rinascimentali si dedicassero a temi che erano rimasti pressoché esclusi dall’enciclopedia dello Stagirita. Benché infatti certi argomenti non fossero stati trattati direttamente da Aristotele, o fossero stati da lui accennati in modo insufficiente, si poteva in ogni caso ricostruire quale fosse il suo pensiero partendo dai principi generali del filosofare peripatetico. Un simile intento aveva ad esempio mosso Pomponazzi a negare

in via Aristotelis l’esistenza dei demoni: impresa certamente ardua capire cosa

Aristotele pensasse di questo problema, affermava il Peretto, ma pure degna di essere tentata117.

La filosofia d’amore rientra dunque in questo genere di argomenti, ma si badi bene, rappresenta un caso sui generis. Il tema dell’amore, oltre a non rientrare esplicitamente in nessun scritto del corpus aristotelicum, era infatti uno dei nodi principali del neoplatonismo di matrice ficiniana. Estranea alle università, e per giunta spesso affrontata in volgare, la filosofia d’amore non presentava caratteri esterni che la riallacciassero alla tradizione peripatetica. Del resto Aristotele sull’amore aveva lasciato pochissime righe, sparse soprattutto nell’Etica nicomachea, e in realtà riferite per lo più all’amicizia o all’amore omosessuale118. A patto di fondarsi solo sui passi dello Stagirita

pareva quindi quasi impossibile trarne spunti per una compiuta filosofia

116 Aristotele, Etica nicomachea, 1166 a 1-2.

117 P. Pomponazzi, Gli incantesimi, a cura di C. Innocenti, Firenze, 1997, p. 7: «Perciò per i peripatetici rimane un grande problema [...]; infatti avendo Aristotele discusso poco o per niente di queste cose, è arduo voler capire che cosa pensasse. [...] affronterò tuttavia un pericolo tanto grande».

118 Ad esempio Aristotele, Etica nicomachea, 1159b 12-17; 1166b 32; 1167a 8; scarsa la bibliografia sull’amore in Aristotele, qualche accenno in A. W. Price, Love and friendship in Plato and Aristotle, Oxford, 1990, pp. 103-130; 236-250, che si dedica però specialmente all’amicizia.

d’amore, a meno di non andare oltre il contesto delle parole di Aristotele: questo aveva fatto lo stesso Nifo affermando ad esempio l’equivalenza di amore e amicizia («Aristoteles, qui sub nomine amicitiae de ipso amore diligentissime egit, differt enim amor ab amicitia in paucis»)119. A simili

forzature di Aristotele non erano del resto estranei gli stessi neoplatonici, che integrando lo Stagirita all’interno della prisca philosophia, potevano mutuare temi del libro sull’amicizia della Nicomachea anche per i loro trattati: in questo senso aveva lavorato Ficino, così avrebbe fatto Patrizi nell’Amorosa filosofia e nel Delfino120. Ma se l’Aristotele manipolato costituiva un semplice

arricchimento per gli scritti d’amore dei neoplatonici, per un peripatetico come Nifo era – come si è visto – un debole nucleo che seppur mescolato ad una decisa impronta sensista restava bisognoso di un puntello esterno almeno per il vocabolario e le definizioni generali. Il conseguente appello obbligato al neoplatonismo dava così origine a sincretismi curiosi per un trattato di matrice aristotelica, ma tipici della produzione del Sessano: come nel libello sull’anima aveva concluso per la sua immortalità secundum Aristotelem facendo largo uso di moduli ficiniani121, così nel De pulchro et amore

l’esaltazione della bellezza fisica e il parallelo riscatto dei sensi non solo si vestono di espressioni e formule neoplatoniche, ma piegano infine ad una esigenza soprasensibile. Scegliendo il sincretismo Nifo diviene dunque cantore di un’ambigua voluptas terrena che necessita però della Venere celeste come di un suo irrinunciabile correlato122.

119 Anche se l’amore è un genere più ampio: «Amor in sola amatione consistens. At amicitia semper componitur ex amatione et redamatione, amamus enim inanimata, quorum non est amicitia, non enim ab eis redamari possumus, deinde amor fusior est ipsa amicitia», cfr. Nifo, De amore, cit. , f. ILv.

120 Per l’integrazione in Ficino di temi aristotelici cfr. F. Purnell Jr., The Theme of Philosophic

Concord and the Sources of Ficino's Platonism, in AA. VV. , Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, Studi e documenti, II, a cura di G. C. Garfagnini, Firenze, 1986, pp. 397-416.

121 A. Nifo, De immortalitate anime libellus, Venetiis, 1518. Si tratta della risposta a Pomponazzi che fu “commissionata” a Nifo da Flandino e molto apprezzata da Leone X.

122 Nifo apprezzava del resto gli scritti di Ficino, pur riconoscendo che forzavano talvolta la lettera dello stesso Platone: «Ficinus vero amplificans ea, quae Plato de amore tradidit,

D’altro canto si sarebbe potuta preferire al sincretismo un’alternativa di origine medievale, vale a dire una dottrina d’amore che affondando le sue radici nella tradizione medico-fisiologica meglio si armonizzava con il sensismo peripatetico, senza bisogno di compromessi. Se l’amore platonico significava l’accordo di volontà e intelletto e mirava col rigetto della materia e dei sensi ad assimilare l’uomo a Dio e in generale al bene esse, questa soluzione “aristotelizzante” non vedeva nulla di divino nel sentimento, anzi lo credeva in grado di trasformare l’uomo in una bestia priva di ragione senza che fosse possibile opporgli una reale resistenza123. Si trattava in ultima

analisi del semplice amore carnale scisso da ogni controcanto trascendente, quel furore bestiale che secondo Ficino – sulla scorta del Simposio – era peggiore di qualunque altra cosa124.

Questo filone interpretativo, che da Ippocrate arrivava ad Avicenna e ad Averroè fino ad essere sintetizzato nella canzone Donna me prega di Guido Cavalcanti, riduceva così l’amore ad una passione dell’anima sensitiva, ad una vera e propria malattia del corpo e della mente capace di portare l’uomo alla follia e alla perdita della razionalità125. Del resto lo stesso Aristotele –

partim allegorizando, partim addendo multa de amore non imperite compilavit». Cfr. Nifo, De amore, cit., f. Lr.

123 Vale la pena di ricordare che l’immediata percezione dei testi platonici sull’amore – come appunto in particolare il Simposio – da parte degli uomini del Rinascimento non fu immediatamente positiva, e che anzi personaggi come Bruni, per non parlare ovviamente di Giorgio Trapezunzio, guardarono con sospetto all’esaltazione di amori che parevano contro natura in quanto omosessuali, senza coglierne quindi la specificità spirituale: insomma, anche il sublime amore platonico di Ficino è il risultato di una faticosa ruminazione. Cfr. sul tema J. Kraye, The Transformation of Platonic Love in the Italian Renaissance, in Platonism and the English Imagination, ed. A. Baldwin and S. Hutton, Cambridge, 1994, pp. 76-85---

124 Ficino, El libro de amore, cit., p. 210: «Ma che può essere peggio che questo, che lo huomo per tale furore diventa bestia?». Lo stesso Aristotele, in uno dei pochi passi che dedica all’eros, afferma comunque che l’amore è qualcosa che nascendo dal corpo finisce per influenzare anche la mente, dottrina che si armonizza perfettamente con quella cavalcantiana.

125 L’edizione di riferimento è quella presentata in G. Cavalcanti, Rime, a cura di M. Ciccuto, introduzione di M. Corti, Milano, 1978, pp. 116-122. In Donna mi prega, Guido Cavalcanti –

sempre nell’Etica nicomachea – aveva fissato la sfera sessuale come uno dei domini dell’incontinenza menzionando tra le cause delle alterazioni del corpo e della mente appunto le brame di Afrodite, mentre nel contesto neutro e generale del De anima aveva mostrato come la ragione dovesse spesso sottomettersi alle esigenze dell’appetito irrazionale126. Un simile sforzo

ermeneutico-combinatorio sui testi aristotelici portava quindi ad una piena

lettore di Avicenna e Averroè – definiva questa insania provocata dall’amore addirittura morte, morte che veniva in primo luogo intesa in senso morale – sulla falsariga di Averroè – ma che poteva anche essere interpretata in senso fisico. Proprio la dottrina averroista della felicità intellettuale insieme agli scritti medici di Avicenna rappresentavano il riferimento principale per la comprensione di Donna me prega. Per quanto a secoli di distanza Ficino e il Verino Secondo avessero cercato di recuperare anche Cavalcanti all’interno di una cornice platonizzante (Ficino, El libro de amore, cit., pp. 137-8; M. Equicola, Libro de natura de amore, In Venetia, 1525, p. 279; F. Verino, Lezzioni d’amore, ed. by J. Colaneri, Muenchen, 1973), già la glossa medievale del medico Dino del Garbo a Donna me prega aveva dimostrato la schietta ispirazione materialista dell’amico di Dante, accentuando la definizione di amore in chiave di morte corporale («Et hoc modo intelligitur hoc de ista passioneque dicitur amor: que passio propter vehementem eius impressionem iam alterat corpus alteratione non naturali: unde iam quod in ipso dicatur egrotare pateat et auctores medicine, qui de egritudinis et de eorum curis determinant, tractant de hac passione et modum etiam curationis suae». Cfr. G. Favati, La glossa latina di Dino del Garbo a “Donna me prega” del Cavalcanti, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XXI, 1952, p. 98). Il materialismo di Cavalcanti non sarebbe sfuggito del resto ad altri, come al pio Paolo del Rosso, cavaliere di Malta, che nel 1568 componeva un commento alla canzone Donna me prega marchiando come vizioso il suo autore e concludendo che l’unico vero amore – tale perché in grado di elevare a Dio la nostra essenza spirituale – era quello descritto nel Simposio platonico (cfr. P. Del Rosso, Comento sopra la canzone di Guido Cavalcanti, in Fiorenza, 1568). Ma simili accuse erano già apparse ne Il Petrarcha col commento di M. Sebastiano Fausto da Longiano, con rimario et epiteti in ordine d'alphabeto nuovamente stampato, Vinegia, 1532, c. 242v, dove l’amore descritto dal poeta fiorentino era assimilato polemicamente con la Venere Pandemia. Fondamentale ancora oggi per la comprensione della difficilissima poesia cavalcantiana è la lettura che ne dà B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Bari, 1949, pp. 119-120. Utile anche J. C. Nelson, Renaissance theory of love. The context of Giordano Bruno’s Eroici Furori, New York, 1958, pp. 34-44, per ricostruire alcuni episodi della fortuna rinascimentale della canzone.

accettazione del paradigma medicale sull’amore da parte della tradizione peripatetica, a prescindere da qualsivoglia infiltrazione esterna.

Poiché l’averroismo e in generale ogni radicalismo filosofico di Nifo erano stati prematuramente seppelliti negli anni padovani dalle imposizioni del vescovo Barozzi127, il Sessano si guarda bene nel suo trattato dal conferire

particolare enfasi al paradigma dell’amore-malattia. Pur avendo presente la tradizione medica sull’insania d’amore della quale tratta nel De amore in riferimento alla cupido, e per quanto affermi come Cavalcanti che l’amore è una passione dell’anima sensitiva, Nifo stabilisce infatti che esso non si converte in malattia se non in particolari circostanze («amor aliquando in aliquibus adeo accrevit, ut transierit in morbum»): senza contare che pure questi casi al Sessano preme deprecare le dolorose degenerazioni di Cupido non tanto per lo sconvolgimento psico-fisico che determinano facendo perdere all’uomo la propria eccellenza razionale, quanto soprattutto per la riprovazione di matrice evangelica che colpisce qui perdite amat128.

Quando invece toccò al suo allievo Simone Porzio, di pagare un tributo alla corte salernitana, quello di comporre a sua volta un trattato d’amore, il paradigma prescelto fu decisamente quello medicale. Indubbiamente sostenuto dalla cornice prescelta, quella di un commentario petrarchesco che favoriva la riproposizione del cavalcantiano binomio di poesia ed aegritudo

amoris129, il giovane professore bandì al contrario di Nifo ogni possibile

concessione al platonismo ficiniano.

127 Cfr. B. Nardi, Studi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, 1958.

128 Nifo, De amore, cit., ff. LIr e LXr. Neanche la disperata passione senile per la sedicenne Phausina assume nel De re aulica le sembianze di un’autentica malattia: non è infatti la mutevole cupido, ma l’onesto e moderato erum «semper hilaris ac iucundus» ad unire il filosofo alla fanciulla. Cfr. Nifo, De re aulica, cit., cap. XII, s.i.p.

Nel documento Simone Porzio (pagine 37-64)

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