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Dalla parte dei teolog

Nel documento Simone Porzio (pagine 126-149)

Il “De celibatu”

A Fiorentino – che non ne aveva trovata neanche una copia – pareva strano che un’opera dal titolo così promettente come il De celibatu fosse andata perduta ed effettivamente, pochi anni dopo la morte dello storico calabrese, Amenduni portò alla luce un esemplare di questo libello stampato da Sultzbach nel 1537337. Il De celibatu non è altro che uno scritto di occasione,

composto da Porzio per celebrare l’ottenimento dell’arcivescovato da parte del rettore dell’università di Napoli338, ma questo non impedisce al libello di

presentare almeno in nuce spunti di interesse soprattutto in considerazione dello svolgimento della speculazione etico-teologica del filosofo. La scelta del tema – il celibato dei sacerdoti – per il trattato indirizzato a Tommaso Caracciolo richiama inevitabilmente la discussione analoga che in anni di poco precedenti aveva impostato Erasmo, anche se il filosofo napoletano non evoca in modo esplicito e non fa assolutamente sue le avanzate posizioni dell’olandese. Infatti nonostante che in apertura, attraverso gli esempi degli egizi e l’auctoritas di Esiodo, Porzio affermi che in generale «non modo humanis institutis sed naturalibus legibus multis usum fuit execrandum celibatum esse»339, una volta enunciata la prospettiva del cristianesimo opta

però per una soluzione di assoluto rigorismo che è stata sensatamente posta in relazione con il Consilium de emendanda ecclesia elaborato – fra gli altri – da Contarini, Pole e Fregoso proprio nel 1537340. Il filosofo non si scosta poi da

san Paolo quando constata che in generale il matrimonio sia ex conditione valido remedium alla concupiscenza, ma abolisce il valore di una simile considerazione quando si cerchi di applicarla al prete cristiano che si muove

337 Cfr. Fiorentino, Simone Porzio, in Studi e ritratti, cit., p. 121; G. Amenduni, Dell’ufficio del

bibliotecario: appunti, Napoli, 1879, p. 10.

338 Cfr. supra n. 21.

339 Porzio, De celibatu, cit., s. i. p., cap. III.

340 L’accostamento – esteso ai casi di Giustiniani, Quirini e Pico – è proposto da Vasoli, Tra

in una sfera superiore rispetto all’uomo comune. Mentre il paradigma di vita

politicus si deve fra le altre cose indirizzare anche alla procreazione dei figli,

quello spiritualis scelto dai sacerdoti deve infatti assolutamente improntarsi alla castità e alla purezza. La netta distinzione fra modelli di vita – evidente portato aristotelico-averroista – sulla quale Porzio ritornerà nell’An homo viene qui funzionalmente piegata all’individuazione dello stato ecclesiastico come vertice della perfezione umana: di qui scaturisce l’accorata supplica ai pontefici affinché una simile condizione privilegiata non venga contaminata dall’immunditia furnicationum:

Vobis dico Romani Pontifices si tantum scelus, tanta immunditia in ecclesiam Dei introducetis quoniam irritum fecistis Dei praeceptum vivo spiritu tradditum cavete ne in christianos cudatur haec faba, prope enim est vindicta quoniam contempsistis munditiae domus meae, quae est domus orationis et vis fecistis domum fornicationum341.

E’ del resto l’esempio dello stesso divino maestro, di Gesù Cristo, a suggerire una condotta di assoluta purezza che garantisce agli eunuchi per scelta il regno dei cieli. Appunto questo è il tema sul quale Porzio imbastisce pagine dense di citazioni bibliche:

Illa quae Christus fecit, exemplo suo voluit nos facere, et haec erat sua praecipua voluntas, sed suo exemplo castitatem persuasit, ergo aperte voluit nos illam in aliquo vitae genere servare, frustra enim magister et dominum exemplum dedisset, nisi alicui observandum exequendum censuisset [...]342.

L’esaltazione dei benefici del celibato richiama tuttavia non solamente motivi evangelici e decreti conciliari, ma anche due temi che Porzio ricava dalle discussioni a lui contemporanee: l’imminente approssimarsi della

consummatio temporis, che renderebbe inutile la riproduzione carnale

invitando piuttosto a fini più alti, e soprattutto la polemica contro i luterani.

341 Porzio, De celibatu, cit., s. i. p. , cap. XIV. 342 Ivi, s. i. p., cap. VIII.

Al rifiuto del celibato dei preti proprio da parte della turba germanorum Porzio non oppone raffinate considerazioni teologiche, in quanto il problema non gli si propone sotto una simile luce, ma piuttosto un invito a non provocare inutili disgregazioni nel mondo cristiano guidato dal papa:

Oportetmagis obedire Deo quam hominibus, servire homini non propter Deum, sed propter mundum verum est. At servire homini propter Deum optimum est dixit Paulus, servite et honorate praepositis vestris, sive bonis, sive malis et recalcitretis ut in pontificem Luterani [...]343.

La curiosità del tema del libello si intreccia dunque con un’innegabile manifestazione da parte porziana di competenza teologica, alla quale manca tuttavia ancora un’impostazione nettamente decifrabile. Troppo generico l’attacco ai luterani, così come il richiamo ad una nuova disciplina ecclesiastica per quanto legato ai fermenti della corte di Paolo III: per comprendere la religiosità più profonda di Porzio si dovrà insomma attendere il suo commento al Pater Noster.

La preghiera del filosofo

Nel 1552 Simone Porzio pubblica, sempre per i tipi dello stampatore ducale Torrentino, la Forma orandi christianae enarratio. Trattandosi di un commento al Pater Noster esso appare a prima vista un’anomalia, una bizzarra curiosità all’interno della produzione di un autore così tanto a suo agio con l’esegesi di stampo materialista di testi aristotelici, ma altrettanto sorprendente è che questa Enarratio compaia l’anno dopo che Gelli ne aveva già pubblicato una versione in volgare: il Modo di orare christianamente. Proprio allo scopo di giustificare un simile intreccio e salvare le apparenze cronologiche era stato implicitamente proposto di attribuire a Gelli la sostanziale paternità del commento, stampato prima in volgare e poi in latino a nome di Porzio magari per dissipare gli eventuali sospetti che un’opera come il De mente humana

aveva proiettato sull’ortodossia del filosofo344. Per quanto non assurda una

simile soluzione lasciava tuttavia irrisolti numerosi tasselli: ad esempio, come spiegare gli innegabili e riconosciuti caratteri di ambiguità religiosa presenti nell’opera, con il tentativo di riaffermare un’integrale ortodossia345?

L’interrogativo era rimasto sospeso, in quanto la pista eterodossa spingeva ancora di più in direzione di Gelli, notoriamente partecipe dei fermenti religiosi che animavano la Toscana di Cosimo. Queste tendenze gelliane prendono ad esempio nei Capricci del bottaiola forma dell’anticlericalismo e di una conseguente simpatia per gli obiettivi della riforma luterana346. Il

principale corollario di una simile posizione era la coerente rivendicazione – particolarmente significativa da parte di un accademico – della possibilità di volgarizzare i libri sacri, per sottrarli all’avido e venale monopolio dei frati:

Dimmi: con che divozione, o con che animo lodano gli uomini Iddio, non intendendo quel che si dicono? Tu sai pur che il favellare delle putte e de’ pappagalli non si chiama favellare, ma imitazione di suono, solamente perché e’ non intendono quel che e’ si dicono […]. Come dirà lo idiota Amen sopra la bendizion vostra, se egli non intende quel che si dice347?

Quindi se le Scritture ci vengono tenute nascoste in una lingua che è intesa da pochi e ridotte a formule vuote, ciò accade per un preciso motivo:

Dall’avarizia de’ preti e de’frati, che, non bastando loro quella porzione delle decime che aveva ordinato loro Iddio per legge, a voler vivere tanto suntuosamente come e’ fanno, ce le tengono ascose, e ce le vendono a poco a poco, come si dice, a minuto, e in quel modo però che e’ vogliono, spaventando gli uomini con mille falsi minacci, i quali non suonan così nella

344 Fiorentino propose il nesso fra il libello e il De mente humana, cfr. Simone Porzio, in Studi e

ritratti, cit., pp. 145-146. Simoncelli invece giunge addirittura ad attribuire, sia pure in modo omissivo, la reale paternità e responsabilità dei contenuti dell’opera al solo Gelli, cfr. Simoncelli, Evangelismo italiano, cit., p. 365.

345 Sulla dubbia ortodossia dell’opera cfr. Simoncelli, Evangelismo italiano, cit., pp. 365 e sgg. ; Vasoli, Tra Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Valdès, cit. , p. 587 e sgg.; Caravale, L’orazione probita, Firenze, 2003, pp. 33-38.

346 Gelli, I capricci del bottaio, cit. , p. 231. 347 Ivi, pp. 219-220.

legge come egli interpretano […]. Ben lo disse San Tommaso d’Aquino, quando, essendogli detto da Papa Innocenzio, che aveva un monte di danari innanzi, e contavagli: tu vedi, Tomaso, la Chiesa non può più dire come ella diceva anticamente, argentum et aurum non est mihi; egli rispose: né anche surge et ambula348.

Sempre nei Capricci non mancano peraltro citazioni implicite del Beneficio di

Cristo non sfuggite agli interpreti più accorti, come l’insistenza

sull’opposizione figlio di amore/servo di timore, che ben si armonizzano con la sollecitazione ad un rapporto diretto con le Scritture mirato alla perfezione del cristiano, motivo tipico in particolare della spiritualità valdesiana, tanto diffusa tra i membri dell’Accademia fiorentina349. Insomma, i contenuti

sottilmente ambigui dell’Enarratio troverebbero riscontri nella spiritualità gelliana e potrebbero valere per confermargli la paternità del commento, pure a prescindere dall’occasione della sua stesura.

Si poneva tuttavia un nuovo problema accettando di assegnare l’opera a Gelli. Chi sarebbe infatti l’autore dello scolio al Vangelo di Giovanni che accompagna l’Enarratio, e non il Modo di orare? La sola versione latina del testo suggerirebbe Porzio piuttosto che Gelli, e a questo punto – considerando l’omogeneità di contenuti fra lo scholion e l’Enarratio diventerebbe lecito chiedersi quale competenza sarebbe mancata al filosofo per poter essere

348 Ivi, pp. 220-224.

349 Cfr. Firpo, Gli affreschi di Pontormo, cit., p. 187. Ha fatto in ogni caso bene V. Perrone Compagni, Cose di filosofia si possono dire in volgare. Il programma culturale di Giambattista Gelli, in Il volgare come lingua di cultura tra Trecento e Cinquecento. Atti del Convegno internazionale (Mantova, 18-20 ottobre 2001), a cura di A. Calzona - F. P. Fiore - A. Tenenti- C. Vasoli, Firenze, 2003, pp. 301-337, a sottolineare l’impossibilità di ridurre ed allineare sotto un’unica etichetta dottrinale l’inquieta e insoddisfatta personalità spirituale di Gelli. In particolare la studiosa ha mostrato una visione del peccato originale assai più drammatica in Valdés che in Gelli: fatto è indubbiamente vero, anche se è bene ricordare che il mistico spagnolo riteneva che col peccato di Adamo il nostro arbitrio fosse rimasto ferito e non del tutto distrutto. Cfr. ad esempio la disputa sul tema, fulcro della corrispondenza tra Seripando e il valdesiano Flaminio pubblicata in Jedin, Girolamo Seripando. Sein Leben und Denken im Geisteskampf des 16 Jahrhunderts, II, cit., pp. 468-488.

anche il vero, originario e unico autore del commento al Pater Noster. Innegabile, seppur meno evidente, è del resto una certa tendenza eterodossa anche nello stesso Porzio. Nel corso delle prime lezioni che tenne a Pisa tra il 1545 e il 1546 ad esempio, il professore alternava ad impeccabili excursus di storia ecclesiastica, commenti personali non altrettanto fondati sul dogma:

Est alia auctoritas primo ethicorum ubi quaerit Aristoteles contra Solonem qui dicebat ante obitum neminem beatum, dicit Aristoteles quomodo est verum hoc autem enim mors facit beatum vel post mortem est beatus et probat quod nullo modo stat sententia Solonis, secundo quaerit an infortunia nepotum vel amicorum post mortem removeant aliquid felicitatis ut vixit quis secundum virtutes morales habuitque intellectum speculativum moritur in hac felicitate post mortem filii ludunt bona a la taverna dove è la vita eterna, dicit Aristoteles an felix ille aliquid perdat felicitatis? Ex hoc quidam dominus meus cardinalis multum faciebat hanc autoritatem, o domine Simon dicebat iste, cur Aristoteles hoc movet nisi aliquid nostri esset post cineres? Ultimo quod solutio ad hoc dicendum cogit et solvit quod aliquid ponunt infelici non tamen tantum quod mutent felicem in infelicem vel contra ista solutio dicebat ille presupponit aliquid esse in nobis post mortem unde Cicero dicit saepe si mortuis est aliquid sensus; domini, ego rideo quoniam religio nostra non invenit locum in Scriptura an detur purgatorium, ut patet enim quod sancta ecclesia tenet350.

E ai dubbi sull’esistenza del Purgatorio, ogni menzione del quale mancherebbe appunto nelle Scritture, si aggiunge la ferma opposizione ai digiuni quaresimali giudicata addirittura contro natura in base al libro del

Genesi:

Nos sumus finis omnium, ne dum artificialium ut dicit ibi Aristoteles sed etiam secundum essentiam omnia subiecisti sub pedibus eius, quel dire io non voglio mangiare la carne la quaresima, sei una bestia propter hominem facta sunt omnia unde posuit nomina omnibus351.

In un’università come quella di Pisa, dove il lettore di logica era il minorita Giandomenico Melis – noto frate luterano – e dove altri professori

350 Porzio, Anima III, cit., f. 87v. 351 Ivi, f. 94v.

inclinavano decisamente verso l’eterodossia, simili asserzioni non dovevano risultare sconvolgenti e Porzio aveva del resto le spalle coperte dalla potente protezione di Cosimo352. Ma ancora un’altra lettera di Ugolino Grifoni a Pier

Francesco Riccio353, datata 30 aprile 1546, mentre riporta il resoconto di una

discussione conviviale alla quale partecipava lo stesso Porzio proprio sulle

352 Per quanto riguarda le indubbie libertà delle quali Porzio poteva giovarsi, basti ricordare che praticamente in contemporanea con le ora citate lezioni sull’anima, un berrettaio pisano era stato processato e condannato proprio per aver negato a sua volta l’esistenza del purgatorio: «Alla ventura di alcuni casi occorsi in questi giornj, che il più notabile è stato di uno berrettaio, il quale alla predica nella chiesa di Sancto Francesco publicamente come luterano contradisse al predicatore, circa il Purgatorio, et nel pulpito trovate lettere molto brutte. Di che essendosi querelato detto predicator al commissario, Sua Signoria fece prendere esso berrettaio, et questa mattina in publico fattoli dar della fune» (Lettera di U. Grifoni a P. Riccio, 28 aprile 1546, Fondo Mediceo del Principato, 1172, 2, 6, Archivio di Stato di Firenze). La stessa lettera di Grifoni insiste del resto anche sulla diffusione dell’eresia presso l’ateneo pisano, («Et qui in Pisa è un'altro prete che è in compagnia di Bernardo da Ricasoli, di Cola della Magona, et di alcuni altri, de' quali il Commissario (secondo mi ha detto), tiene un mal odor, et infectano questa città»), per combattere la quale non potevano essere presi tuttavia provvedimenti decisi come quello contro lo sventurato berrettaio, per evitare le altrimenti inevitabili ingerenze da parte di Paolo III. Il favorevole trattamento di cui godevano i docenti emerge anche dal dolore esibito dallo stesso Cosimo nel maggio del 1546 per la morte di Leonardo Giacchino, lettore di medicina presso l’università di Pisa, sebbene fosse «luteranissimo» (lettera di C. Pagni a P. Riccio, 16 maggio 1546, 1172, 2, 39). Su alcuni aspetti dell’eterodossia pisana cfr. R. Ristori, Benedetto Accolti. A proposito di un riformato toscano del Cinquecento, in «Rinascimento», 2, 1962, pp. 225-317; sui metodi usati in seguito per sorvegliare l’ortodossia dei docenti cfr. A. Prosperi, Anime in trappola. Confessione e censura all'Università di Pisa, in «Belfagor», LIV, 1999, pp. 257-287.

353 Lo stesso Riccio è del resto personaggio legato agli ambienti valdesiani, basta ricordare che il manoscritto del Beneficio di Cristo circolante a Firenze ― oggi Ms. Riccardiano 1785 ― era di sua proprietà. Oltre al testo del Fontanini il volume miscellaneo contiene ― fra gli altri ― anche scritti di Contarini, Flaminio e Benedetto da Locarno. Cfr. Simoncelli, Evangelismo italiano, cit., p. 346; C. Vasoli, Cultura e «mitologia» nel Principato. (Considerazioni sull’Accademia Fiorentina), in La cultura delle corti, Firenze, Le Lettere, 1980, pp. 159-189, in particolare p. 183; G. Fragnito, Un pratese alla corte di Cosimo I. Riflessioni e materiali per un profilo di Pier Francesco Riccio, in «Archivio storico pratese», LXII, 1986, pp. 31-84; Firpo, Gli affreschi di Pontormo, pp. 162-163.

infiltrazioni riformate all’Università di Pisa, si concludeva con un’eloquente facezia:

Et perché desinando meco il S. or Portio […] gli scappò una bella facetia che, confessandosi questa Pasqua da un frate, li domandò se credeva nella Trinità, et se teneva l’openione di Platone o d’Aristotile. Gli rispose credere in quella di suo padre, di sua madre ed anche dell’avolo, con la quale era nato et allevato, et così mantenere sino all’altra vita. Et che (se bene era filosofo) seguitava l’opinion prefata, mostratali dalla scrittura sacra, tanto che il padre l’hebbe in altro concepto di quello forse lo teneva. Io ridendo […] mossi a questo proposito la confession di Fra [sic] Ciappelletto354.

Il contesto nonché l’opportunità di girare a Riccio l’aneddoto fanno qualcosa di più che ipotizzare eventuali deviazioni dottrinali di Porzio, magari proprio sul tema della Trinità: resta che a questo punto il filosofo non ha più bisogno di Gelli per segnare di ambiguità religiosa certi suoi scritti poiché essi nascerebbero già in un simile solco.

E’ quasi superfluo ripetere a questo punto che il filosofo e il letterato si muovono entrambi sullo sfondo dell’Accademia fiorentina, e di come la questione del volgare e la diffusione di dottrine eterodosse siano strettamente congiunte: seppur in altro ambito si è potuto infatti affermare che i devoti di Contarini e di Pole erano anche i devoti di Bembo355. In questo senso potrebbe

non essere allora così banale e convenzionale l’intento divulgativo che Gelli sottolinea spesso nell’introdurre le sue traduzioni in volgare, sperando che

354 La lettera di Ugolino Grifoni a Pier Riccio, Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato vol.1172, ins. 2, fol. 10, è stata pubblicata ― senza valorizzare la figura di Porzio ― da S. Caponetto, Aonio Paleario e la Riforma in Toscana, Torino, Claudiana, 1979, pp. 233-234. Da notare che Grifoni sbaglia a ricordare il nome del personaggio della celebre novella di Boccaccio (Decameron, I, 1), chiamando Fra Ciappelletto quello che in realtà è Ser Ciappelletto. 355 C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Id., Geografia e storia della

letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 227-254, in particolare p. 233. Cfr. anche Simoncelli, Evangelismo italiano, cit., pp. 282-329; S. Cavazza, Libri in volgare e propaganda eterodossa: Venezia 1543-1547, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, a cura di A. Prosperi e A. Biondi, Ferrara- Modena, 1987, pp. 9-28.

«ne tragga frutto, maggior numero di persone»356. Ciò che in sintesi

avverrebbe nella collaborazione fra Porzio e Gelli, sarebbe un felice incontro tra le esigenze accademiche di valorizzazione della nuova lingua e quelle religiose di propaganda evangelica, di cui il volgare è appunto veicolo. Ma al di là della collaborazione fra il filosofo e il letterato, va ribadito che il riconoscimento in Porzio di autonome inquietudini religiose e competenze teologiche impone di rivedere e definire una volta per tutte l’attribuzione del commento al Pater Noster, magari prestando fede a quanto affermato da Gelli nella dedica del Modo di orare: «Havendo scritto nuovamente […] M. Simone Portio Napoletano uno utile, et bello Trattato, […] mi è parso (oltre a lo esserne stato da lui, il quale può comandarmi per sua modestia pregato) tradurlo nella nostra lingua Fiorentina»357.

La scoperta presso la Biblioteca Nazionale di Napoli di un libello intitolato

Cristianae deprecationis interpretatio, un commento al Pater di qualità editoriale

decisamente scarsa, privo di qualsiasi indicazione sull’autore, sul tipografo e sull’anno di stampa dimostra infine che Gelli non mentiva – se non osando l’avverbio nuovamente358 – quando diceva di essere solo il traduttore di

un’opera composta da Porzio: un anonimo postillatore ha infatti vergato sul frontespizio dell’Interpretatio il nome di quello scrittore che voleva evidentemente tenersi nascosto: «Authore Simone Portio Neapolitano»359. Un

confronto diretto col testo rivela immediatamente la genuina paternità porziana, poiché l’Interpretatio altro non è che una versione originaria, meno raffinata nella forma e più diretta nel contenuto dell’Enarratio fiorentina, stampata a Napoli presso Sultzbach nel 1538, come si apprende dagli annali

356 Porzio, Modo di orare, pp. 7-8. 357 Ivi, p. 7.

358 “Nuovamente” viene infatti usato pure altrove da Gelli non col significato di “di nuovo”, che bene si sarebbe adeguato nel caso dell’Enarratio quale revisione dell’Interpretatio, ma nel senso di “ora”, “da poco”, “appositamente”, tipico del toscano (cfr. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, XI, Torino, 1981, p. 676). La forzatura del fiorentino consisterebbe dunque nel voler presentare come scritta integralmente di recente un’opera semplicemente riveduta e corretta.

del tipografo tedesco360. Oltre a quello napoletano, è stato per ora possibile

rinvenire solo un altro esemplare del libello, conservato a Roma e

Nel documento Simone Porzio (pagine 126-149)

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