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3. Dal simbolismo al simbolo in senso stretto: norme

3.13 Abbigliamento confessionale e suoi limiti

Accanto al riconoscimento della piena libertà di indossare qualsiasi abbigliamento religioso, l’ordinamento pone anche dei limiti alla suddetta libertà: ciò accade quando un diritto costituzionalmente garantito si trovi a confliggere con un diritto garantito anch’esso da norme di rango costituzionale. Una limitazione all’esercizio di un diritto può essere stabilita solo se risulta ragionevole, proporzionata e necessaria a garantire l’esercizio dell’opposto diritto.

Nel nostro ordinamento possono essere individuate quattro diverse categorie di atti che di fatto limitano l’esercizio della libertà di vestire secondo i precetti della propria confessione di appartenenza.

Nella prima categoria rientrano atti amministrativi e normativi che impongono un determinato abbigliamento al fine di garantire l’igiene e la sanità pubblica182.

La tutela dell’igiene e la sanità pubblica giustificano quella limitazione di indossare l’abbigliamento imposto da norma confessionali: in tal caso però la limitazione deve essere circoscritta e limitata all’esercizio dell’attività lavorativa.

182 La norma cardine è rappresentata dall’art. 42 del D. P. R. n. 327 del 1980 che obbliga il personale addetto alla produzione, preparazione, manipolazione e vendita di sostanze alimentari ad indossare tute o sopravventi di colore chiaro, nonché idonei copricapo che contengono la capigliatura.

P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Ed. Il Mulino, Bologna, 1984.

Alla seconda categoria appartengono quegli atti amministrativi e normativi che impongono un determinato abbigliamento al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità personale (ad esempio, uso di caschi o cinture di sicurezza).

Per quanto riguarda quei provvedimenti dettati al fine di garantire la sicurezza stradale, la Corte Costituzionale con sentenza 16 maggio del 1994, n. 180, ha affermato che: «appare conforme al dettato costituzionale, che considera la salute dell’individuo anche interesse della società, che il legislatore nel suo apprezzamento prescriva certi comportamenti e ne sanzioni l’inosservanza allo scopo di ridurre il più possibile le pregiudizievoli conseguenze degli incidenti stradali», anche qualora tali comportamenti possano limitare la libertà di abbigliamento degli individui.

Vengono poi in rilievo provvedimenti volti a garantire la sicurezza e l'incolumità sul luogo di lavoro: secondo la giurisprudenza della Cassazione (Sez. lav. 19 aprile 2003, n. 6377) essi sono diretti non solo a tutelare il lavoratore dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche quelli ascrivibili alla sua imperizia, negligenza ed imprudenza.

L'art. 2087183 c. c. impone l' obbligo al datore di lavoro di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che si rendono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratori; questo obbligo peraltro trova la sua fonte negli artt. 32184 e 41185 Cost.

E' pienamente compatibile con il dettato della Carta Costituzionale l'obbligo che grava sul datore di lavoro, di imporre al lavoratore l'uso di abbigliamento protettivo e di vigilare affinché quest'ultimo sia utilizzato186.

183 Art. 2087 c. c. «L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

184 Art. 32 Cost., «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

185 Art. 41 Cost., «L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

186 In considerazione del disposto dell'art. 41 Cost. e dell'art. 2087 c. c., l'imposizione di un determinato vestiario da parte del datore di lavoro può sacrificare la libertà di abbigliamento del prestatore solo quando l'esercizio del diritto di indossare l'abbigliamento religioso che si preferisca possa comportare un concreto pregiudizio all'attività produttiva. Quando il datore di lavoro può ottenere senza grave sacrificio i risultati di efficienza e di continuità dall'attività produttiva semplicemente attraverso una scelta organizzativa o produttiva diversa, l'eventuale prescrizione limitativa della libertà religiosa del prestatore dovrà considerarsi arbitraria.

P. LILLO, Diritti fondamentali e libertà della persona, Ed. Giappichelli, Torino, 2001, p. 123 ss.

Per contro il lavoratore ha l'obbligo di osservare la disposizioni antinfortunistiche predisposte dal datore di lavoro, la cui violazione determina conseguenze civili e penali.

Vi è inoltre un ulteriore gruppo di leggi ed atti amministrativi che impongono l'uso di un abbigliamento qualificato a determinati dipendenti pubblici e cioè a militari, corpi di pubblica sicurezza, magistrati, nell'esercizio delle loro funzioni.

I destinatari di tali norme godono di specifici poteri amministrativi e di una particolare tutela penale contro le offese ad essi diretti: si tratta di norme che possono annoverarsi nell’alveo della tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione.

La necessità di un abbigliamento particolarmente qualificato per soggetti dotati di determinati poteri autoritativi costituisce anche una garanzia contro limitazioni arbitrarie dell’esercizio delle libertà costituzionali, dal momento che il titolare di tali libertà dovrebbe facilmente individuare, attraverso l’uniforme, i soggetti legittimati dall’ordinamento a disporre le limitazioni suddette.

Nella quarta ed ultima categoria sono ricomprese quelle norme che vietano l’utilizzo di determinati indumenti per motivi di sicurezza pubblica.

Tra questi provvedimenti vi è l’art. 85, I co., Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 che stabilisce il divieto di comparire mascherati in pubblico: esso vieta l’utilizzo di qualunque indumento idoneo a precludere il riconoscimento del soggetto. La norma in esame non costituisce una compressione del diritto di indossare l’hijab imposto dal Corano, dal momento che tale indumento, lasciando scoperto il volto della donna, non ne preclude la possibilità di riconoscimento187.

Una norma che invece potrebbe costituire una limitazione all’uso di abbigliamento imposto da prescrizioni religiose è rappresentata dall’art. 289, V co., del R. D. 6 maggio, n. 635, la quale stabilisce che la fotografia da apporre sulla carta d’identità deve mostrare il titolare senza cappello e a mezzo busto.

Ad oggi, tuttavia, il V comma dell’art. 289 sopra richiamato sembra soggetto ad un’interpretazione restrittiva che ha consentito di apporre sulla carta di identità una fotografia che mostri il titolare a capo coperto, quando ciò sia imposto da norme religiose purché i tratti del viso siano ben visibili.

La Circolare del Ministero dell’Interno 15 marzo 1995, n. 4, dispone infatti che la copertura del capo imposta da motivi religiosi

187 CARMIGNANI CARIDI, Libertà di abbigliamento e velo islamico, in S.

FERRARI (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna, p. 223 ss.

«non può essere equiparata all’uso del cappello», dal momento che il velo o il turbante «sono parte degli indumenti abitualmente portati e che concorreranno nel loro insieme a identificare chi li porta»188.

188 www.interno.it

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