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3. Dal simbolismo al simbolo in senso stretto: norme

3.3 L’hijab e l’ordinamento francese

La Francia più degli altri Paesi ha dovuto confrontarsi con l’utilizzo dell’hijab islamico: in particolare si è posta la questione relativa alla compatibilità dell’adozione del velo da parte di alcune studentesse con il principio di laicità126 sancito dall’art. 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzioni di origini, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le credenze».

126 Sul principio di laicità nell’ordinamento francese: J.P. WILLAIME, La laicité francaise au miroir du foulard, Le suplement, n. 181, Julliet, 1922. ID. Laicité et religion en France, in G. DAVIE et D. HERVIEU-LEGER, Identités religieuses en Europe, La Découverte, Paris, 1996, Chapitre 5, 154-171; J. BOUBEROT, Laicité, Quel héritage? De 1789 à nos jours, Labor et Fides, Genéve, 1990; M. GAUCHET, La religion dans la démocratie. Parcours de la laicité, Gallimard, Paris, 1998; A.

FERRARI, Laicità, separazione e contratto nelle relazioni tra amministrazioni pubbliche e culti in Francia. Il paradigma scolastico, in Diritto pubblico, 1922, 2, pp. 525 ss.; L GOVERNATORI RENZONI, La separazione fra Stato e Chiesa in Francia e la tutela degli interessi religiosi, Ed. Giuffré, Milano, 1977; P. CAVANA, Interpretazioni della laicità. Esperienza francese ed esperienza italiana a confronto, Ed. Ave, Roma, 1988.

In nome del principio di laicità, nell’ottobre del 1989 il preside di una scuola media dispone che non può essere esibito nessun simbolo religioso o politico da parte degli allievi. Il problema riguarda la composizione di due interessi contrapposti: la stretta neutralità dello spazio pubblico e la libertà di coscienza dell’individuo. In virtù di tale disposizione, il 18 settembre vengono sospese dall’istituto tre allieve perché rifiutano di togliersi l’hijab durante le lezioni.

Successivamente alla diffusione di episodi simili in altre parti della Francia, il Ministro dell’Educazione nazionale dell’epoca, il socialista Lionel Jospin, chiede un parere al Conseil d’Etat sulla base dei dati normativi interni (in particolare i principi costituzionali, la legge del 1905 e quella recente del 10 luglio del 1989 di orientamento sull’educazione, che aveva riconosciuto agli alunni il diritto di espressione all’interno della scuola) in base ai quali la questione deve essere risolta attraverso il rispetto da un lato del pluralismo che caratterizza la scuola, dall’altro mostrando tolleranza verso le manifestazioni esteriori della fede delle studentesse. Il Consiglio di Stato si pronuncia il 27 novembre del 1989 affermando che «negli istituti scolastici l’uso (le port), da parte degli alunni, di segni attraverso i quali essi intendono manifestare la loro appartenenza a una religione non è di per sé incompatibile con il principio di laicità,

nella misura in cui costituisce esercizio della libertà di espressione e di manifestazione di credenze religiose».127

Viene così proibito l’uso di segni religiosi che per «loro natura» o per «le condizioni nelle quali siano portati individualmente o collettivamente, o per il loro carattere ostentato (ostentatoire) o rivendicativo costituirebbero un atto di pressione, di provocazione, di proselitismo o di propaganda; comporterebbero una lesione alla dignità o alla libertà dell’alunno o di altri membri della comunità scolastica; comprometterebbero gravemente la loro salute o sicurezza;

perturberebbero lo svolgimento delle attività di insegnamento e il ruolo educativo degli insegnanti; turberebbero l’ordine nell’istituto o il funzionamento del servizio pubblico»128.

Il parere poi rinvia ai regolamenti interni dei singoli istituti per la determinazione delle sue modalità applicative, precisando che le eventuali procedure disciplinari vengano affidate alla competenza dei direttori e dei capi d’istituto129. Secondo il Consei d’Etat, la possibilità

127 Conseil d’Etat – Assembléé générale (section de l’intérieur), n. 346.839, 27 novembre 1989, in Revue française de Science politique, 1991 (XLI), pp. 45 ss. e in Quad. dir. pol. Eccl., 1990, 1, pp. 510 ss.

128 Parere del Consiglio di Stato 27 novembre 1989 in www.olir.it/areetematiche/74/documents/Acanfora_Francia.pdf.

129 Sull’argomento J. RIVIERO, L’Avis de l’Assemblée Générale du Conseil d’Etat en date du 27 novembre 1989, in Revue française de droit administratif, janvier-février 1990, p. 1 ss., J. MINOT, Droits de l’Homme et neutalité de l’Etat: à propos de l’affaire du foulard, in La revue administrative, 1990, p. 32 ss., J-P.

WILLAIME, Le Conseil d’Etat et la laϊcité. Propos sur l’avis du 27 novembre 1989, pp. 35 ss., G. KOUBI, Le voiles de la laϊcité ou la laϊcité sans le voile, in Les petites

di portare un segno religioso a scuola, proprio perché è espressione di un diritto fondamentale, è da considerarsi la regola, mentre il divieto costituisce un’eccezione ammessa solo in presenza di determinate circostanze. Non è il segno religioso ad assumere quel carattere ostentatoire, ma il modo in cui viene portato ed ostentato a scuola (le port ostentatoire d’un signe religiose), e quindi il comportamento concretamente assunto dall’alunno: di proselitismo, di propaganda, provocazione.

A precisare il ruolo dei capi d’istituto, chiamati ad instaurare un dialogo con le alunne e le rispettive famiglie al fine di approdare ad una soluzione di compromesso o di convincerle a desistere da tali comportamenti, intervengono due circolari: la prima del 1989 del ministro Jospin (12 dicembre 1989), che accoglie l’orientamento liberale espresso dal Consiglio di Stato, la seconda del 1994 del ministro Bayrou (circolare n. 1649 del 20 settembre 1994) appartenente ad un governo di centro-destra.

Tale ultimo ministro si discosta dal parere del Conseil d’Etat ed emana una circolare con la quale vieta l’uso in ambito scolastico dei «segni ostentatori, che sono di per sé segni di proselitismo» ma

affiches, 4 décembre 1989 (145), pp. 3 ss., Nella dottrina italiana P. CAVANA, Interpretazione della laicità. Esperienza francese ed esperienza italiana a confronto, Ed. Ave, Roma, 1998, p. 123 ss., G. CAPUTO, La questione del velo islamico, in Quad. dir. pol. Eccl.,1990, 1, p. 507 ss.

non di quelli «discreti».130 Tale circolare legittima l’adozione di altri provvedimenti di espulsione nei confronti delle studentesse che indossassero l’hijab.

La successiva giurisprudenza amministrativa, invece, accogliendo l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, interviene più volte sull’argomento annullando regolamenti scolastici che prevedono un divieto assoluto di portare segni distintivi delle proprie convinzioni, anche religiose, all’interno della scuola, altre volte confermando provvedimenti di espulsione di alunne quando si fondano su comportamenti di proselitismo o di provocazione131 o sul rifiuto di togliersi il velo per il corso di educazione fisica132.

Il Consiglio di Stato è anche intervenuto a ribadire l’obbligo di frequenza da parte degli alunni che, in nome della libertà di espressione religiosa, non frequentano i corsi di sabato, giorno di festa per gli ebrei, ammettendo tuttavia che singole dispense possano essere

130 www.oli.it/areetematiche/74/documents/Ivaldi_velo.pdf

131 In senso contrario, il 27 novembre del 1996 il Consiglio di Stato ritiene illegittimo un provvedimento del Direttore di una scuola pubblica con il quale vengono espulsi dall’istituto un gruppo di diciassette giovani che avevano manifestato per rivendicare il proprio diritto di indossare l’hijab all’interno della struttura scolastica. In tale occasione il Consiglio di Stato enuncia il principio secondo cui la liceità dell’utilizzo «di segni di appartenenza religiosa, non si estende ai casi in cui tale utilizzo assuma carattere ostentatorio e rivendicativo,trascendendo in manifestazioni turbative del regolare funzionamento dell’istituto». P. CAVANA, Esperienza francese ed esperienza italiana a confronto, Ed. Ave, 1998, p. 117 ss.

132 Consiglio di Stato 10 marzo 1995 in Quad. dir. pol. Eccl.,1995, 3, pp. 902 ss.

accordate individualmente a condizione che non pregiudicano il compimento degli studi e il rispetto dell’ordine pubblico.

Con il passare del tempo, parte dell’opinione pubblica francese che si è fin dall’inizio mostrata ostile ad ammettere la presenza del velo islamico o di altri segni religiosi nella scuola pubblica133, si scontra con la pretesa di affidare in concreto ai capi d’istituto la valutazione circa il carattere lesivo o ostentatoire dell’uso del suddetto velo.

I principali motivi di insoddisfazione derivano dal fatto che da un lato, i capi d’istituto134 devono instaurare un rapporto di dialogo con le alunne e le rispettive famiglie al fine di convincerle a desistere dal portare il velo, dall’altro la giurisprudenza amministrativa lo ammette, almeno in termini generali, vanificando in concreto quello stesso tentativo di dialogo.

133 Emblematico in tal senso è l’articolo pubblicato nel novembre del 1989 e redatto da cinque noti autori: Elisabeth Badinter, Régis Debray, Alain Finfielkraut, Elisabeth de Fontenay e Catherine Kintzler, intitolato «Profs, ne capitulons pas» (in Le Nouvel Observateur, n. 1304, 2-8 novembre 1989, 58-59), nel quale, rivolgendosi al ministro Jospin, accusato di debolezza sul tema della laicità, si pronuncia un forte appello a favore della netta separazione tra la scuola pubblica laica e la religione:

«Pars qu’elle s’adresse à tous, l’école n’admet aucun signe distinctif marquant délibérément et a priori l’appartenence de ceux qu’elle accueille» respingendo quindi anche l’uso del velo islamico nella scuola pubblica.

134 L’ affidamento ai capi d’istituto del compito di applicare tali principi ha di fatto prodotto un «droit local», ossia una varietà di soluzioni e di compromessi locali nei singoli istituti da cui viene in concreto a dipendere l’esercizio di una libertà fondamentale, aumentando l’incertezza giuridica ed indebolendo il principio di laicità. P. CAVANA, I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia.

Ed. Giappichelli, Torino, 2004, p. 102.

Chi, sul finire degli anni ’90 poi, ha auspicato che la questione relativa alla liceità ovvero all’illiceità dell’utilizzo dei simboli religiosi nella scuola pubblica potesse trovare una soluzione legislativa è rimasto deluso quando, il 15 giugno del 2000, è stato promulgato da parte del Parlamento il «Codice dell’Educazione», in quanto esso non affronta espressamente la questione della liceità dell’abbigliamento imposto da norme confessionali all’interno degli istituti pubblici di istruzione.

Al silenzio del legislatore del 2000 ha fatto seguito un aumento della conflittualità sociale derivante dall’utilizzo di simboli religiosi negli istituti statali che ha indotto la classe politica francese ad interrogarsi sull’opportunità di una legge che regolamentasse tale fenomeno ed istituendo a tal fine due commissioni chiamate ad esprimere il proprio parere sul rapporto tra laicità della scuola pubblica e liceità dell’utilizzo dei simboli religiosi all’interno di essa.

Nel giugno del 2003, Jean Louise Debré istituisce una

«commissione di informazione» (mission d’information), sulla

«questione dei simboli religiosi nelle scuole». Il 4 dicembre del 2003, la commissione parlamentare rende un rapporto intitolato «La laicità nelle scuole: un principio repubblicano da affermare», nel quale si propone che una disposizione legislativa stabilisca il divieto di portare ed indossare in modo visibile tutti i segni e i simboli religiosi e politici

all’interno delle aule degli istituti scolastici, in modo da riaffermare pienamente la laicità. Un mese dopo, il Presidente della Repubblica Jacques Chirac nomina una «commissione sulla laicità nella Repubblica», affidando la presidenza a Bernard Stasi.

Il rapporto della «commissione Stasi» viene presentato al Presidente Chirac l’11 dicembre 2003: in tale documento si fa menzione al principio di laicità affermato dall’art. 1 della Costituzione del 1958, il quale afferma che «la Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale».

Secondo il rapporto, il suddetto principio implica due conseguenze: la neutralità dello Stato da una parte, la tutela della libertà di coscienza dall’altra. La neutralità dello Stato implica in primo luogo, il divieto di manifestare le proprie convinzioni religiose nell’ambito di un servizio pubblico ed il divieto per tutti i dipendenti pubblici di indossare simboli religiosi, anche quando non siano in diretto contatto con il pubblico; in secondo luogo, comporta che i cittadini debbano essere trattati allo stesso modo qualsiasi siano le loro convinzioni religiose.

Quanto alla libertà di coscienza, il documento precisa che la laicità non deve essere strumentalizzata al fine di limitare le scelte spirituali degli individui.

Sia la mission d’information (c.d. Mission Debré) che la Commissione Stasi, terminano il proprio lavoro avanzando la proposta di una disposizione di legge che introduca espressamente il divieto del porto di segni di appartenenza religiosa e politica nella scuola pubblica.

Tuttavia mentre la mission d’information propone una formula che vieta «il porto visibile (visible) di ogni segno di appartenenza religiosa e politica nell’ambito degli istituti scolastici»

pubblici,135il Rapport Stasi propone di interdire «nelle scuole, collegi e licei, «segni ostentatori» e cioè che manifestano in modo vistoso

136(ostensiblment) un’appartenenza religiosa o politica»137, distinguendo i segni ostentatori, vietati, dai segni discreti estranei al divieto.

In seguito al rapporto della commissione Stasi, il 17 dicembre 2003 il Presidente Chirac adotta una formula parzialmente diversa che poi è stata approvata dal legislatore, proponendo il divieto, nelle scuole, collegi e licei pubblici, del porto di abiti o di segni che manifestano in maniera ostentatoria l’appartenenza (soltanto) religiosa, accogliendo la distinzione tra segni discreti, leciti e tra i quali rientrano i capi d’abbigliamento o gli accessori di piccole

135 http://www.assemblee-nat.fr

137 http://www.assemblee-nat.fr

dimensioni, e tra segni vistosi, e cioè quelli il cui porto conduce a farsi notare immediatamente attraverso la propria appartenenza religiosa, ritenuti inammissibili.

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