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In abito di saggia messaggera (d II)

La fenomenologia d'amore nelle ultime dubbie dantesche

5.1. In abito di saggia messaggera (d II)

In abito di saggia messaggera movi, ballata, senza gir tardando, a quella bella donna a cui ti mando, e digli quanto mia vita è leggera.

Comincerai a dir che gli occhi miei

per riguardar su' angelica figura solean portar corona di desiri: ora, perché non posson veder lei, li strugge Morte con tanta paura c'hanno fatto ghirlanda di martiri. Lasso! non so in qual parte i' li giri per lor diletto, sì che quasi morto mi troverai, se non rechi conforto da lei: ond'io ti fo dolce preghiera.

Barbi d. II; Contini 60; De Robertis d. 1; Giunta d. II.

Ballata di soli endecasillabi di schema ZYYZ ABCABC CDDZ.

Rivolgendosi alla ballata, l'autore la prega di recarsi “in abito di saggia messaggera” presso la donna da lui amata e di palesarle il grande dolore che prova nel non vederla: se prima i suoi occhi nel guardarla “solean portar corona di desiri”, ora che non possono contemplarla un sentimento di Morte li consuma, portando per antitesi alla costituzione di una “ghirlanda di martiri”. Inducendo a pietà con l'annuncio di star per morire, si augura che la ballata ritorni recandogli parole di conforto da parte della donna. Struttura retorica e tema di questa ballata sono gli stessi della cavalcantiana Perch'i' no spero di tornar

giammai: in entrambi i casi la forma metrica adottata dal poeta viene personificata e

usata come nunzio alla donna amata a cui è destinato un messaggio drammatico e doloroso e poi la stessa morte dell'amante sia in Perch'i' no spero (“Tu senti, ballatetta, che la morte / mi stringe sì”) sia nella nostra ballata, a meno che non arrivi il conforto dell'amata. Altri topoi comuni sono il tema degli occhi che non vedono madonna da un bel po' e quello della “paura” mortale; stupefacente è però la ripresa da parte del nostro

pseudo-Dante al v. 3, dell'identico cavalcantiano v. 30, “a quella bella donna a cui ti mando”. Ma questa ballata ha uno sviluppo più elementare in quanto il motivo della morte e della vita “leggera” sono funzionali alla descrizione dello status di dolore e sofferenza dell'amante: se altri poeti analizzerebbero la passione che provano, qui vengono citati effetti e conseguenze di questa sul corpo, in particolare sugli occhi; l'insistenza sullo sguardo deriva dal bagaglio culturale comune all'epoca che attribuiva ad esso effetti benefici o malefici. Gli occhi della donna stilnovistica infatti sono specchio della sua anima e portatori di salus, di salvezza e di miracolo essendo madonna una figura angelica e un tramite per giungere a Dio; ma quando sono causa di sofferenza e dolore nel non vedere l'amata, come nel nostro caso, diventano rossi, segnati dall'angoscia e dallo sgomento come già accadeva in Vita Nova 28.4 (“E spesso avenia che, per lo lungo continuare del pianto, dintorno a·lloro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva”), al v. 8 del sonetto poco dopo trascritto

Lasso, per forza di molti sospiri (“li 'ncerchia di corona di martiri”), ai vv. 7-8 di Voi che savete ragionar d'amore in cui tramite perifrasi vi è un richiamo alla “pintura” intorno agli

occhi (in questo caso, della donna) e, come nota Contini3, in un passo del Filostrato

boccacciano, IV, 100 (“E 'ntorno agli occhi un purpureo giro Dava vero segnal del suo martirio”) e della Fiammetta (“Gli occhi tuoi, simili a due mattutine stelle, ora intornati di purpureo giro”).

La ballata è attribuita a Dante nei codici cinquecenteschi Riccardiano 1118 e Marciani it. IX 191 e IX 364; il loro progenitore, il manoscritto trecentesco Escurialense III 23 è però anepigrafo, cosa strana dato che il componimento successivo qui riportato è la ballata dubbia Donne, io non so di che mi preghi Amore (d. III), attribuita però questa sì a Dante, “così che non s'ha neppure una testimonianza positiva4”. Curioso è notare come sia

attribuito al senese Nuccio (o Ruccio) Piacente (o Piacenti) dall'infida stampa veneta del 1518 (Canzoni di Dante, madrigali del detto, madrigali di Messer Cino e di Messer Girardo

Novello) sulla base della sola testimonianza della rubrica di un codice Chigiano.

L'attribuzione a Dante è incerta. Barbi è inizialmente possibilista nel saggio ad hoc,

3 Cfr. CONTINI 1980, pag. 232.

Una ballata da restituirsi a Dante5 in cui, tramite l'analisi della tradizione manoscritta,

sosteneva che si potesse darle credito; dopo che gli fu resa nota la testimonianza dell'Escorialense, cambiò opinione, rettificandola nell'apposita Appendice, ritenendo che venissero a mancare le prove per accertarne la validità dantesca. Anche Gianfranco Contini ne esce scettico: dopo aver notato come nel testo siano presenti richiami non solo danteschi, ma pure cavalcantiani e boccacciani, conclude dicendo che “la ballatetta ha indubbiamente del ricalco: è un cibreo di frasi fatte, e l'anonimato le conviene benissimo6”. Attribuibile invece a Lapo Gianni è ciò che congettura Guglielmo Gorni,

attraverso un'indagine metrica (lo schema in questione è identico a quello di ben tre sue ballate) e stilistico-lessicale (l'uso delle forme “abito”, “movi, ballata”): “tutto par convergere verso Lapo Gianni e la sua maniera di fruitore passivo della poesia cavalcantiana e dantesca7”. Fondamentale nel ribaltare la scena è stato il saggio di Corrado

Calenda che, leggendo la ballata in chiave stilistico-attributiva, prestando attenzione alle compatibilità formali e psicologico-tematiche, ha riportato alla luce la paternità dantesca: oltre alle similitudini dantesche precedentemente citate in quanto notate anche da altri studiosi, Calenda si sofferma sullo schema metrico, sottolineando come il ritornello di quattro versi endecasillabi qui presenti con schema XYYX sia riscontrabile anche nelle dantesche Ballata, i'voi, Deh, Vïoletta e Voi che savete. In particolare Ballata, i'voi, unica ballata della Vita Nova (5. 17-22), presenta proprio il “medesimo schema del componimento che stiamo studiando, se si eccettua la misura minore dei versi centrali di ciascuna mutazione8”; inoltre, tra le altre analogie riscontrabili, vi sono il comune

riferimento alla ballata in qualità di messaggera, l'appello finale ad essa con la forma di “preghiera” e il fatto che essa sia in movimento, pronta a giungere all'amata. Tra gli altri stilemi che vanno annoverati incontriamo l'espressione “In abito”, già presente al v. 4 di

Cavalcando l'altr'ier (Vita Nova, 4. 9-12), la forma perifrastica “senza gir tardando” che

ricorda l'incipit di O dolci rime e la chiusa di A ciascun'alma presa; l'ultimo verso del 5 Cfr. M. BARBI, Una ballata da restituirsi a Dante, in Studi sul Canzoniere di Dante con nuove indagini sulle

raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Sansoni, Firenze, 1915, pp. 3-96.

6 Cfr. CONTINI 1980, pag. 232.

7 Cfr. G. GORNI, Le ballate di Dante e del Petrarca, in Metrica e analisi letteraria, il Mulino, Bologna, 1993,

pag. 228.

8 Cfr. C. CALENDA, Nuovi accertamenti su una ballata da restituirsi a Dante, in Appartenenze metriche ed esegesi: Dante, Cavalcanti, Guittone, Bibliopolis, Napoli, 1995, pag. 51.

ritornello, “e digli quanto mia vita è leggera” riporta alla mente il v. 50 di Amor che movi (“guarda la vita mia quant'ell'è dura”) e i vv. 29-30 di Donna pietosa (“Mentre io pensava la mia frale vita / e vedea 'l suo durar com'è leggiero”). De Robertis, pur ammettendo i diversi stilemi danteschi precedentemente sottolineati, nota come vi siano espressioni tipiche del generale e comune bagaglio culturale dell'epoca, ascrivibili a Cino da Pistoia, Lapo Gianni e Guido Cavalcanti; anche Giunta parla di paternità dantesca possibile, ma tutt'altro che certa.