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Pietro Lorenzetti, Storia della vita di Santa

Cronistoria delle otto rime di fresca attribuzione dantesca Come già specificato nel capitolo precedente, ben otto sono le rime che sono state

Illustrazione 3: Pietro Lorenzetti, Storia della vita di Santa

2.8.

Degli occhi di quella gentil mia dama (d. XXVI)

Degli occhi di quella gentil mia dama esce una vertù d'amor sì piena,

ch'ogni persona ch'è là 'v'è s'inchina a veder lei, e mai altro non brama.

Beltà e Cortesia sua dea la chiama, e fanno ben, ch'ell'è cosa sì fina

ch'ella non par umana, anti divina, e sempre sempre monta la sua fama. Chi l'ama, come pò esser contento guardando le vertù che 'n lei son tante! E s' tu mi dici: «Come 'l sai?»: «Ché 'l sento».

Ma se tu mi dimandi e dici: «Quante?», non til so dire, ché non son pur cento, anti più d'infinite ed altretante.

Barbi d. XXVI; Contini 76; De Robertis 59; Giunta 55. Sonetto di schema ABBA ABBA CDC DCD.

Componimento tipicamente stilnovistico, sulle lodi della “dama” del poeta: dai suoi occhi esce una tale forza d'amore che “chiunque si trova in sua presenza s'inchina86”;

“Beltà e Cortesia” la considerano loro dea e infatti “non par umana, anti divina” e le virtù sono così tante che l'uomo che ama può esserne contento.

Il sonetto, attribuito a Dante dal codice Escorialense e derivati, come anche nella stampa Giuntina del 1527, non convince della sua autenticità numerosi studiosi, soprattutto del passato: Fraticelli87, che lo considerava nel corpus di Dante da Maiano e,

primo tra tutti Contini che lo definisce “goffo sonetto”, forse opera di uno “scolaruccio stilnovista88”. Tra gli elementi che non convincono, troviamo:

86 Differenti le interpretazioni di tale verso; quella qui riportata è adottata da GIUNTA 2011, pag. 650; De

Robertis, dando un differente valore al verbo “inchinarsi a vedere”, lo parafrasava in “si volge”; cfr. DE

ROBERTIS 2005, pag. 366.

87 Cfr. FRATICELLI 1861.

88 Cfr. CONTINI 1980, pag. 270. Successivamente, anche Pernicone accoglie questa osservazione, ritenendo

che “il sonetto sia opera di un anonimo non troppo abile imitatore di Dante […] probabilmente ispiratosi ai due incipit danteschi De gli occhi de la mia donna si move […] e Ne li occhi porta la ma donna Amore

• l'utilizzo del gallicismo “dama”, mai trovato nelle opere sicure di Dante;

• il problematico rimante “piena/pina/plena”, “rima piuttosto umbra che siciliana89”;

• il goffo superlativo “sempre sempre”;

• le terzine finali, piene di formule e iperboli riferite a un interlocutore fittizio (di carattere comico-realistico alla maniera di Cecco Angiolieri);

• la dialefe “esce una”.

Elementi questi non condivisi da De Robertis, sicuro di conferire il sonetto al poeta fiorentino; confutando alcuni punti, nota che:

“dama” non ricorre nell'italiano dantesco, ma nel francese di Aï faus ris, pour quoi

traï aves, 5;

“piena/pina/plena” si trova già in Vita Nova, 17.3 abbinata con “sì”. Aggiunge inoltre altri argomenti a favore della sua tesi:

l'espressione “fanno ben” si riscontra in Inferno IV, 93;

il “cosa” è utilizzato da Dante anche in Donne ch'avete intelletto d'amore, 44;

• la situazione finale, giocosa e iperbolica, di suggestione angiolieresca, si può in parte ritrovare in Purgatorio XIII, 101;

Numerosi sono i temi danteschi e stilnovistici in generale (presente l'eco della cavalcantiana Chi è questa che ven90): oltre a notare una connessione con il sonetto

stilnovistico per eccellenza, Tanto gentile e tanto onesta pare, Giunta sottolinea connessioni anche con Due donne in cima della mente mia, Un dì si venne a me

Malinconia e Tre donne intorno al cor mi son venute (soprattutto per la personificazione

[…] e, in genere, al repertorio stilnovista”; cfr. V. PERNICONE, Degli occhi di quella gentil mia dama, in Enciclopedia Dantesca, vol. II, cit., 1970, pag. 338.

89 Cfr. CONTINI 1980, pag. 270.

90 Il sonetto cavalcantiano citato presenta molte analogie con questo pseudo-dantesco dato che in entrambi la lode alla donna amata non si sofferma più sulla comparazione di questa con elementi naturali, ma trascende nel metafisico: nei due componimenti la domina, piena di “vertute”, viene considerata una dea e così nominata dalla “Beltate” in persona (in Dante (?) pure da “Cortesia”). I suoi occhi sono l'aspetto fisico più fascinoso e magnetico, tanto che suscitano, accompagnati dalla sua quasi miracolosa bellezza, diverse reazioni negli astanti che la guardano stupiti: se nello pseudo-dantesco ogni persona è indotta a inchinarsi (“ch'ogni persona ch'è là' v'è s'inchina”), in Guido nessuno è in grado di parlare, “ma ciascun sospira” ed a inchinarsi non sono individui ma ogni nobile virtù (“ch'a le' s'inchin' ogni gentil vertute”). Altra analogia è l'impotenza di esprimersi, l'ineffabilità della donna, il non riuscire a descrivere in modo dettagliato e veritiero la scena, la solita stilnovistica mancanza di parole di fronte a fenomeni miracolosi e angelici di tal portata: se in Degli occhi l'autore non avrebbe saputo annoverare e elencare quante virtù avesse la sua donna, anche Cavalcanti in ben due punti ammette che non sarebbe in grado di “contar” (nel senso di “dire/spiegare”) cosa sembri la sua donna quando muove gli occhi e poi quanta bellezza vada a presentare. Per avere un quadro più dettagliato e approfondito delle analogie cavalcantiane e dantesche in fatto d'amore, cfr. la premessa al capitolo 5 ad esso dedicato.

della Bellezza e della Cortesia), ritenendo inoltre che “il verso d'attacco, poi, sia vicinissimo al dantesco Degli occhi della mia donna si move91”. Questa analogia viene

presa in considerazione anche da Roberta Capelli che, analizzando alcuni contenuti del manoscritto Escorialense, nota come i due componimenti qui presi a confronto, oltre al fatto di trovarsi l'uno in seguito all'altro, siano accomunati dal medesimo attacco d'incipit, dalla consonanza “-ento/-into” e, dal punto di vista contenutistico, dalla “nozione della superiorità sovrumana della dama92”. Onesta è l'osservazione finale di De Robertis,

convinto che il componimento sia “una sorta di prova generale a cuor leggero […] di ciò che a breve termine sarà una pensata e responsabile dimostrazione93”, non accolta però

da Gorni94, non rassegnatosi all'attribuzione dantesca e da Lino Leonardi, anche lui autore

di una Nota sull'edizione critica delle “Rime” di Dante, che vede il componimento come “un assemblaggio neanche troppo abile95”.

91 Cfr. GIUNTA 2011, pag. 649. Questa analogia è stata invece interpretata da Pasquini come una “piatta

imitazione”; cfr. PASQUINI 1997, pag. 43.

92 Cfr. R. CAPELLI, Sull'Escorialense (lat. e.III.23). Problemi e proposte di edizione, Edizioni Fiorini, Verona,

2006, pag. 37.

93 Cfr. DE ROBERTIS 2005, pag. 366.

94 Cfr. GORNI 2002, pag. 596.

95 Cfr. L. LEONARDI, Nota sull'edizione critica delle “Rime” di Dante a cura di Domenico De Robertis, in

«Medioevo romanzo», XXVIII, 1, 2004, pag. 88.