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Quando 'l consiglio degli ucce' si tenne (d XXX)

Cronistoria delle otto rime di fresca attribuzione dantesca Come già specificato nel capitolo precedente, ben otto sono le rime che sono state

2.2. Quando 'l consiglio degli ucce' si tenne (d XXX)

Quando 'l consiglio degli ucce' si tenne, di nicistà convenne

che ciascun comparisse a tal novella; e la cornacchia maliziosa e fella pensò mutar gonnella,

e da molt'altri uccelli acattò penne, e adornossi, e nel consiglio venne; ma poco si sostenne,

perché parëa sopra gli altri bella. E l'un domandò l'altro: «Chi è quella?», si che finalment'ella

fu conosciuta. Or odi che n'avenne.

Che tutti gli altri ucce' le fur dintorno sìcche sanza sogiorno

la pelâr sì, ch'ella rimase ignuda; e l'un dicëa: «Vedi bella druda!», dicea l'altro: «Ella muda»;

e così la lasciaro in grande scorno. Similemente divien tutto giorno d'uom che si fa adorno

di fama o di vertù ch'altru' dischiuda, ché spesse volte suda

dell'altru' caldo tal che poi aghiaccia. Dunque beato chi per sé procaccia.

Barbi d. XXX; Contini 80; De Robertis 34; Giunta 54.

Sonetto doppio o rinterzato con aggiunta di settenari baciati dopo i versi dispari (AaBBbA AaBBbA CcDDdCCcD e la coda tristica dEE).

Il tema del componimento è molto particolare in quanto racconta l'apologo della cornacchia che, al “consiglio degli ucce'29” si traveste con le penne degli altri uccelli per

sembrare più bella ma viene sbugiardata “in grande scorno”.

Il topos è noto tramite due versioni-base: quella di Fedro e di altri imitatori 29 Visto come “parodia del concilio degli dei” da De Robertis (cfr. DE ROBERTIS 2005, pag. 285); più

medievali in cui un corvo cerca di camuffarsi in pavone per essere accettato in questa società ma, non riuscendo nell'intento, ritorna dai suoi simili che prima disprezzava; l'altra, più affine alla nostra storiella, racconta di un corvo che, presentandosi a una riunione con altri uccelli adorno di penne non sue, viene scoperto e sbeffeggiato. La morale, in ogni caso, è sempre la medesima: non farsi belli con meriti e virtù altrui con la chicca finale che consiglia di provvedere a sé stessi senza cercare aiuto altrove (“Dunque beato chi per sé procaccia”). Diversi studiosi hanno indagato le modalità attraverso le quali la storiella nella versione greca sia arrivata in Toscana: Giunta è convinto che la risposta si trovi tra “favolisti latini del tredicesimo e quattordicesimo secolo e nelle raccolte di exempla”, concludendo che “questi apologhi si trasmettessero anche alla spicciolata, e non solo entro serie compatte30”.

Pur trovandosi adespoto solo nel Laurenziano Mediceo Palatino 119 e attribuito a Dante dai Laurenziano Rediano 184 e dall'affine codice II IV 114 della Biblioteca Nazionale di Firenze, la sua attribuzione è stata molto discussa. Barbi, che nell'edizione del 1921 l'aveva collocato tra le rime dubbie, vedeva in questo sonetto rinterzato in forma “degenerata” (in quanto la sirma presenta gli stessi versi della fronte) un'anomalia nel

curriculum dantesco che contempla solo sonetti rinterzati regolari all'epoca del Dante

giovane (così anche Mattalia, che parla di “forma metrica eccezionalissima in Dante31”).

All'epoca, non era convinto di tale esclusione Giosué Carducci, al quale non pareva cosa strana la natura “rinterzata” dello schema metrico e che intravedeva nei termini qui usati “vocaboli eletti, di favella cortigiana32”. Contini, che non nutriva fiducia nei codici che

attribuivano a Dante il componimento, nota che lo schema metrico, unicum in Dante “è invece caro al favolista Pucci33”, autore fiorentino di cantari e apologhi nel Trecento. Della

medesima opinione in tempi recenti Pasquini34 che, oltre ad approvare le affermazioni di

Contini, nota come non si addicano a Dante forme come “nicisità” sincopata o il verbo “muda” e concetti del calibro di “ché spesse volte suda / dell'altru' caldo tal che poi aghiaccia”, decisamente oscuro e stonato. De Robertis invece, rispondendo a tono a 30 Cfr. Ibidem e, prima, pag. 644.

31 Cfr. MATTALIA 1943, pag. 267.

32 Cfr. G. CARDUCCI, Studi letterari, Zanichelli, Bologna, 1919, pag. 26.

33 Cfr. CONTINI 1980, pag. 278.

Paquini, ritiene che “notare le parole che non sono in Dante per escludere da lui il testo che le reca non è argomento valido35”. Egli, convinto che la poca attendibilità dei testimoni

non possa essere un “criterio aprioristico36”, ne sottolinea l'autenticità giustificando la

forma come un “singolare artificio metrico37” e, richiamando un suggerimento di

Massimiliano Chiamenti, apporta a suo favore la sorprendente risonanza al verso 21 di

Monarchia III, III, 17: additando ai decretalisti, troppo tradizionalisti e dunque spesso

oppositori della verità, Dante aggiunge “Hiis itaque sic exlusis, excludendi sunt alii qui, corvorum plumis operti,oves albas in grege Domini se iactant38”. Confuta questo

argomento a favore della paternità dantesca Mario Marti che, in un saggio sull'edizione derobertisiana della Rime, propende per il favolista Pucci e nota come “allora fosse diffuso il topos della nerezza del corvo (contrapposto alle albas pecorelle), con tutte le relative implicazioni metaforiche. Senza dire, in conclusione, che il solenne corvus è, nella specie, diverso (e anche nei colori metaforici) dalla buffa cornix. Il corvo, insomma, non è la cornacchia39”. Giunta, pur collocandolo tra le rime di certa attribuzione, rimane molto

dubbioso, sapendo che spesso accadeva che versi di morale spicciola di tal genere venivano poi assegnati al poeta per eccellenza dotto.

35 Cfr. D. DE ROBERTIS, Riabilitazione di una cornacchia, in “Carmina semper et citharae cordi”. Ètudes de philologie et de mètrique offertes à Aldo Menichetti, éd. Par M.-C. Gérard-Zai, P. Gresti et alii, Slatkine,

Genève, 2000, pp. 281-290. 36 Cfr. DE ROBERTIS 2002, II, pag. 1047

37 Cfr. DE ROBERTIS 2005, pag. 284.

38 “Peraltro, se lasciamo fuori siffatti personaggi, dobbiamo escludere anche coloro che, coperti dalle penne, dei corvi, si spacciano per bianche pecore nel gregge del Signore”; traduzione di Maurizio Pizzica in D. ALIGHIERI, Monarchia, a cura di M. Pizzica, Bur, Milano, 1988, pp. 318-319.

39 Cfr. M. MARTI, L'edizione nazionale delle “Rime” di Dante Alighieri, in «Giornale storico della letteratura