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Iacopo, i' fui nelle nevicate alpi (d VII)

Componimenti destinati a tre personaggi, senza risposta Come accennato in precedenza, analizzerò in questo capitolo i tre sonetti pseudo-

4.1. Sennuccio del Bene

4.2.1. Iacopo, i' fui nelle nevicate alpi (d VII)

Iacopo, i' fui, nelle nevicate alpi con que' gentili ond'è nata quella ch'Amor ne la memoria ti suggella e per che tu, parlando anzi lei, palpi. Non credi tu, perch'io aspre vie scalpi, ch'io mi ricordi di tua vita fella

sol per costei che la dïana stella criò e donde tu mai non ti parti? Per te beato far mossi parole a' suo' propinqui del lontano essilio che cercar pensa per l'altrui valore. Donde non nacquer canti né carole, ma intra loro facìen lungo concilio: non so 'l diliberar, ma so 'l dolore. Dico che tutti si dolìen per lei, dicendo: «Dove perderén costei?».

Barbi d. VII; Contini 72; De Robertis d. 6; Giunta d. V.

Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE con coda a rima baciata (FF), elemento questo assai particolare e raro; se il sonetto fosse d'attribuzione dantesca, risulterebbe essere uno dei primi esempi di coda nella storia del sonetto italiano, coevo ad alcuni componimenti di Guido Cavalcanti e Lapo Gianni.

La poesia, caratterizzata da una certa “dignità borghese32”, si pone come una sorta

di lettera narrante il soggiorno in montagna (“nelle nevicate alpi33”) dell'io con i famigliari

della donna che evidentemente il destinatario Iacopo ama (“quella / ch'Amor ne la memoria ti suggella”) e, riamato, vorrebbe portare con sé. L'io ha quindi interceduto per l'amico informando i parenti di lei (“gentili34”) della sua decisione di abbandonarli per 32 Così definita da Cudini in CUDINI 1979, pag. 329.

33 Sintagma che designa l'Appennino secondo Mattalia (cfr. MATTALIA 1943, pag. 239), ma più probabilmente

le “montagne” in generale.

34 Il sintagma viene inteso sia da Contini che da De Robertis nel senso di “consanguinei, parenti”, residuo del latino gens; Giunta azzarda l'interpretazione a mo' di epiteto (“quei nobili, quei cortesi”), ma “potrebbe anche essere […] addirittura un cognome” (cfr. GIUNTA 2011, pag. 688). Da notare come poi il

seguire il suo amato (“lontano essilio”); ne viene riportata non una risposta ma la reazione di dolore dei famigliari. Il sonetto, definito da Giunta “difficile35”, sia per il contenuto

doloroso, sia per le rime (quella in “-alpi36” è una delle più ardue, come pure i notevoli

rimanti “suggella”, “fella”, “carole”, “concilio”), è però la dimostrazione palese che si possa fare poesia colta e dal contenuto deciso, senza per forza utilizzare uno stile aspro, virtuoso e artificioso come quello adottato nelle petrose.

Il componimento viene attestato dal Laurenziano Rediano 184 che lo attribuisce a Dante e dal Chigiano L IV 131 in cui è adespoto ma inserito all'interno di una silloge dantesca di incerta paternità tra il fiorentino e Cino da Pistoia.

Difficile stabilire se sia del nostro Dante o meno: in un passato abbastanza remoto Filippini37 lo dava per certo, ricordandogli il dantesco Cavalcando l'altrier per un cammino:

stessa situazione paesaggistica lontana e appartata, stesse preoccupazioni e turbamenti d'amore. Curiosa è poi la collocazione geografica-temporale che fa del sonetto, all'interno della biografia dantesca: probabilmente scritto verso la fine del 1286 e riferito al borgo infimo di Pietramalia, luogo di transito e sosta nel viaggio Firenze-Bologna, dove avevan sede le dimore delle nobili famiglie degli Ubertini e dei Tarlati; la località viene ricordata da Dante nel De vulgari eloquentia I, VI, 2. È invece stranamente scettico Barbi che, in uno

studio mirato sul sonetto, inizialmente dà uno sguardo alla tradizione manoscritta, notando come il Rediano sia più attendibile del Chigiano anche se “una deve essere stata la fonte dei due testi38”; conclude poi affermando che, anche se il componimento non

sarebbe indegno di Dante, non possa essere comunque accolto da lui nel corpus certo sostantivo sia stato sotto sostituito dall'espressione “propinqui”(al v. 10), utilizzata con valore di sostantivo soltanto qui e in Purgatorio XIII, 150, mentre solitamente presenta quello aggettivale (così ha notato GIAN LUCA PIEROTTI in I grappoli del ricordo, «Studi danteschi», LXII, 1990, pp. 163-164, che

addirittura definisce il nostro sonetto come “uno dei frutti più sapidi del Dante comico”). 35 Cfr. GIUNTA 2011, pag. 687.

36 A tal proposito, propongo qui subito la difficile congettura del v. 8 che, in rima con i vv. 1-4-5 (“alpi-palpi- scalpi”), legge in un testimone “ti parti” e nell'altro “ti diparti”, in entrambi i casi in rima imperfetta con le altre occorrenze di A; se De Robertis, accogliendo il suggerimento di Pézard (cfr. PÉZARD 1967, pag. 105)

ripreso poi da Gorni, convinto di dover sanare a tutti i costi, (cfr. GORNI 2001, pag. 204), va ad emendare in

“salpi” (“prendere il largo”, “staccarsi da”), Giunta opta per “ti parti”, ritenendo che sia da accettare la rima imperfetta, essendo una licenza che i poeti antichi si concedevano più spesso di quanto si possa pensare e notando come il termine di origine marinaresca accolto da De Robertis sia in realtà tipicamente cinquecentesco e presente in un unico testo duecentesco (“più plausibile, semmai, sarebbe il non attestato “disalpi”; cfr. GIUNTA 2011, pag. 687).

37 Cfr. FILIPPINI 1929, pp. 9-10.

38 Cfr. M. BARBI, Per un sonetto attribuito a Dante, in Studi sul Canzoniere di Dante con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Sansoni, Firenze, 1915, pag. 468.

dell'Alighieri, proprio per il carattere infido e poco credibile dei codici. Contini è meno dispiaciuto di tali considerazioni finali e ne boccia quasi certamente la paternità sostenuto dalla prova lampante della poca affidabilità dei codici, dalla forma metrica del sonetto (caudato, e dunque troppo sui generis per l'epoca), dall'azzardo della rima imperfetta del v. 8 e, non ultimo, dal linguaggio che “ha poco di dantesco39”; anche Mattalia ne rifiutava

l'attribuzione, soprattutto per via dello stile e del procedere “chiuso lento e laborioso40”.

Accoglie queste considerazioni in negativo Emilio Pasquini41, che ne aggiunge di altre

personali: privi di tratti danteschi gli hapax “palpi” e “scalpi” e, cosa in assoluto non notata finora, la singolarità del participio passato dell'incipit, “nevicate alpi”, tra l'altro non riscontrabile neppure nella semplice forma intransitiva di “nevicare”. In tale contesto, il “fulmine a ciel sereno” è rappresentato da Gorni che, pur dimostrandosi inizialmente titubante e confuso (“anche per me questa storia resta indecifrabile42”) tenta una

confutazione passo passo delle tesi esposte precedentemente contro la paternità dantesca: dando uno sguardo alla lingua qui utilizzata, si nota come anche nel corpus dell'Alighieri (prevalentemente in Inferno XIII-XIV) sia presente il termine “Iacopo” in attacco di verso o “fui” in endecasillabo sotto accento di 4ª; inoltre si sottolinea come la forma metrica del sonetto caudato non sia inusuale nell'epoca, essendo riscontrabile anche nel carteggio tra i contemporanei Guido Orlandi e Guido Cavalcanti. Anche Lino Leonardi di lì a poco sarà persuaso dalle sue osservazioni: “quasi lo si assegnerebbe a Dante43”, afferma riferendosi ai riscontri con la Commedia. De Robertis, non convinto

come Gorni della paternità dantesca delle nostre rime, ritorna sui passi del vecchio Contini, convinto che il linguaggio sia appannaggio di un bagaglio comune, pieno di frasi fatte e sintagmi obsoleti (cita, a titolo d'esempio: “vita fella”, “dïana stella”), mentre non appoggia l'argomentazione riguardo la bassa probabilità che Dante praticasse il sonetto caudato, avendo il critico fiorentino dato per certa l'analizzata precedentemente Quando

'l consiglio degli ucce' si tenne (d. XXX): Gorni, di contro, poco dopo commenterà

negativamente ciò che ha scritto lo studioso fiorentino sulla non-paternità del sonetto, 39 Cfr. CONTINI 1980, pag. 260.

40 Cfr. MATTALIA 1943, pag. 239.

41 Cfr. PASQUINI 1997, pag. 48.

42 Cfr. GORNI 2001, pag. 206.

sostenendo che “non sembra persuasivo44”. In tempi recentissimi tornano sulla questione

Umberto Carpi e Claudio Giunta: il primo, nel suo lavoro La nobiltà di Dante, parla di paternità dantesca del componimento, che anzi “confermerebbe la dimestichezza del poeta, oltre che con l'ambiente naturale, con talune famiglie nobili d'Appennino45”; il

secondo invece, in modo quasi romanzesco, sottolinea lo stile sciolto e conversevole, le rime e la correctio del v. 14 (“non so 'l diliberar, ma so 'l dolore”), affermando in chiusura che “tutto questo non sconverrebbe affatto alla penna di Dante46”.

44 Cfr. GORNI 2002, pag. 596.

45 Cfr. U. CARPI, La nobiltà di Dante, Polistampa, Firenze, 2004, 2 voll., pag. 470; ritorna sull'argomento anche

successivamente dove ribadisce “la piena famigliarità raggiunta con i casati gentili d'Appennino”, ossia con i conti di Romena Guido e Oberto da parte del poeta fiorentino (cfr. Ivi, pag. 539).