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Abitudini e consumi

di Simone Bressan

Mi occupo ormai da diversi anni per lavoro e per passione dell’impatto che le tecnologie digitali hanno nella vita di tutti noi, con particolare riferimento a come questa nuova rivoluzione ha cambiato il modo in cui ci informiamo e il modo in cui, decisori pubblici e operatori privati, prendono e comunicano le loro deci-sioni.

In cosa consiste questa rivoluzione?

È prima di tutto un passaggio epocale da un mondo dominato dall’offerta a un mondo determinato dalla domanda. Lo vediamo nella cosa più semplice di tutti: gli acquisti che facciamo. Oggi molte delle cose che comprano le persone in età da lavoro arriva da negozi virtuali e una quota consistente di questi acquisti non sarebbe stato possibile se i consumatori si fossero basati solo sul-la capacità fisica di raggiungere un negozio. Compriamo cose a ogni ora del giorno e della notte, ce le facciamo consegnare a ca-sa, al lavoro, in un punto di ritiro che stabiliamo.

È una domanda, questa, estremamente complessa. Molto difficile da leggere. Perché è una domanda puntiforme e personalizzata.

C’è qualcosa di molto profondo nelle grandi marche sportive che

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permettono di personalizzare online il loro ultimo modello di scarpe. 20 anni fa la società di massa ci aveva abituato all’accessibilità a prodotti uguali per tutti. La grande conquista erano classi intere di ragazzini con lo stesso giubbotto, con lo stesso modello di scarpe. Oggi se prendiamo dieci persone che hanno lo stesso identico modello di smartphone ci accorgiamo che ognuna di loro possiede uno strumento diverso dall’altro:

cambia la cover, le app scaricate, l’utilizzo che ne fa (chi telefona di più, chi usa di più la connessione dati, ecc).

Questi cambiamenti sono avvenuti molto rapidamente. Ci sono voluti 50 anni perché l’invenzione del telefono arrivasse a metà delle famiglie americane e ci sono voluti 38 anni perché la radio raggiungesse un’audience di 50 milioni di ascoltatori. Facebook ha iscritto al suo social network 6 milioni di persone il primo anno e in 5 anni questo numero è stato moltiplicato per 100. Oppure prendiamo l’iPhone: viene lanciato nel 2007, nel 2009 esistono già 150mila applicazioni da poter scaricare, nel 2014 1,2 milioni.

Si tratta di cambiamenti dirompenti, che hanno conseguenze an-che nel modo in cui lavoriamo. Lo iniziamo a vedere in questi anni, i primi in cui la rivoluzione digitale dispiega i suoi effetti con una consistenza tale da renderla visibile agli osservatori main-stream.

Nel “mondo nuovo” assistiamo alla fine dello standard e dei per-corsi pre-determinati per cui uno studente si laurea in una deter-minata materia, entra in un’azienda facendo esattamente la cosa per cui ha studiato, lavora 8 ore al giorno per 5 giorni alla setti-mana e viene gratificato con promozioni, per mansione o per re-tribuzione, che si basano essenzialmente sull’anzianità di servizio e che derivano da un contratto nazionale cui ha aderito e dove è disciplinato tutto questo.

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Se, come detto, sta finendo la società di massa è chiaro che do-vremo dire addio anche all’idea che esistano “lavoratori di mas-sa”. Si rompe, quindi, il meccanismo verticale e verticistico di un ordine che arriva da un “capo” e a cui corrisponde la fornitura di un certo numero di ore di lavoro. Si inizia, anche nelle aziende più piccole, a condividere informazioni, processi e obiettivi. A la-vorare per cicli e a sviluppare conseguentemente forme di colla-borazione orizzontale in cui i lavoratori sono messi nelle condi-zioni di fare meglio quello che sanno fare meglio e di essere utili per i propri talenti, al di là delle mansioni stabilite dal contratto.

La velocità fa sì che il mondo cambi così rapidamente da diven-tare sostanzialmente ingovernabile con gli strumenti attuali. Le piattaforme di sharing economy esistono sul mercato da almeno 5 anni ma ancora oggi è complesso offrire in affitto la mia casa su Airbnb o vendere pubblicità di google su un sito internet rispet-tando tutte le norme, a partire da quelle fiscali. E abbiamo visto come i recenti casi di Foodora, o quelli più indietro nel tempo di UberPop, abbiano messo in seria discussione i nostri sistemi di re-golazione delle prestazioni lavorative e il lessico stesso con cui af-frontiamo il mondo del lavoro. Senza esprimere giudizi di merito, non è la stessa cosa chiudere un negozio senza licenza o che non rispetta gli standard igienico-sanitari o fermare mille persone che in una città come Roma mettono la propria macchina a disposi-zione a fronte di un corrispettivo pagato con PayPal e transitato su una app ideata in California e con i server in Islanda.

Ci sono almeno due aspetti di questa rivoluzione che è utile inda-gare. Il primo è culturale e, latu sensu, sociologico. Siamo davanti ad una rivoluzione alienante? Corrisponde al vero l’immagine che ogni tanto si dà della rivoluzione digitale come quella di nerd ciopatici che passano l’intera giornata chiusi in camera tra un

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cial network e l’altro? È un primo, importante mito da sfatare.

Siamo davanti ad un tornante della storia che rimette al centro la persona, le sue scelte, le sue aspirazioni. Possiamo aspirare a vorare in modo più umano, più vicino alle nostre esigenze di la-voratori, di padri, di nipoti che si prendono cura di un familiare anziano, di volontari, di soggetti che vogliono continuare a for-marsi perché sanno che varcato il portone della scuola e dell’università inizia per loro l’esperienza del lavoro e un nuovo ciclo di formazione, diverso da quello precedente ma non per questo meno importante.

Davanti a questa autentica rivoluzione, il legislatore pubblico è spiazzato: come è possibile affrontare tutto questo? Innanzitutto con un bagno di realtà. Non possiamo pensare di affrontare le sfide di una società che cambia così rapidamente con gli stru-menti che abbiamo sin qui utilizzato per cristallizzare in norma comportamenti che sono diventati consuetudine ormai 30 anni fa.

Secondo: accettando le premesse di questa rivoluzione. Non ha alcun senso immaginare un diritto del lavoro così pervasivo da regolare tutto e da lasciare al libero adattamento tra le parti trop-po trop-poco. Oggi soprattutto nelle aziende meno strutturate i mar-gini per la contrattazione di prossimità sono nulli o molto ridotti, tutto è delegato a norme e contratti nazionali. Anche questo ren-de un ambiente di lavoro meno stimolante e impedisce a datore e lavoratore di trovarsi al meglio e di esprimere il meglio che han-no per l’azienda al cui successo entrambi, con ruoli diversi, con-corrono.

Processi prima molto pesanti come l’accensione di un mutuo, l’attivazione di assicurazioni sanitarie o coperture previdenziali

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integrative sono stati resi molto più leggeri dalle nuove tecnolo-gie. Perché il digitale ci ha permesso di essere più informati e più responsabili e su queste basi è auspicabile che, come Maurizio Sacconi e i suoi colleghi immaginano nei due disegni di legge di cui discutiamo oggi, ci renda ancora più protagonisti in un ambi-to così importante della nostra vita come quello del lavoro.

© 2016 ADAPT University Press