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Smart working

di Mariano Corso

Con i suoi Osservatori la School of Management del Politecnico di Milano cerca, da oltre 15 anni, di comprendere l’effetto che la rivoluzione digitale ha sull’economia e sull’organizzazione del la-voro. Si tratta in fondo di un doveroso tentativo di dare ad im-prese, cittadini e policy makers strumenti per interpretare un’epoca ricca di opportunità, ma anche di grandi cambiamenti e sfide epocali che minano alla base tante nostre sicurezze. L’industria 4.0, ad esempio, attraverso nuove tecnologie e approcci possibili alla produzione, è destinata a cambiare nel profondo la natura stessa dei mestieri nel settore manifatturiero. Con la diffusione della stampa 3D, ad esempio, l’“operaio” non sarà più colui che, con strumenti e procedure prestabilite, compie attività fisiche di trasformazione del prodotto, ma il suo ruolo sarà piuttosto quel-lo di un progettista che, usando strumenti software sempre più avanzati, svilupperà modelli virtuali di prodotti e componenti che potranno essere “mandati in stampa” quando e dove ne sorgerà la necessità. Questo operaio quindi avrà livelli di competenza e professionalità sempre più elevati e potrà godere di grande auto-nomia nella scelta del luogo e dell’orario di lavoro.

La quarta rivoluzione industriale sfida profondamente i nostri stereotipi sulle professionalità non solo nel settore

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ro, ma anche per quanto riguarda tutti quelli che chiamavamo la-vori “di concetto”. Le predictive technologies, ad esempio, grazie alla capacità di analizzare grandi moli di dati, consentono di prendere decisioni in modo molto più veloce e affidabile, consentendo co-sì di supportare o addirittura sostituire molte attività professiona-li, con conseguenze occupazionali sul mondo dei servizi che sono ancora da comprendere appieno. A fronte della grande accelera-zione che la rivoluaccelera-zione tecnologica sta avendo, è allora più che mai necessario prendere coscienza per tempo dell’impatto che questa avrà sull’economia e sul mondo del lavoro, per cercare di regolarne e orientarne gli effetti verso il bene della persona in modo da cogliere le opportunità ed evitarne, per quanto possibi-le, gli effetti negativi.

A fronte di questa evidente necessità, risulta stridente il contrasto con il mondo della normazione del lavoro, sostanzialmente ferma da oltre mezzo secolo e pensata per regolare modelli organizzati-vi divenuti ormai obsoleti come le tecnologie a cui facevano rife-rimento. A fronte della digitalizzazione e virtualizzazione delle tecnologie, ad esempio, non è possibile restare ancorati al concet-to di erogazione della prestazione lavorativa come attività subor-dinata, delimitata in termini di luogo e orario in cui ritmi e meto-do sono imposti da regole preordinate.

L’obsolescenza dell’organizzazione del lavoro ci porta a vivere una sorta di schizofrenia per cui, mentre come persone, consu-matori e cittadini, ci sentiamo flessibili e all’avanguardia, come lavoratori ci scontriamo quotidianamente con vincoli e rigidità di cui non riconosciamo più alcuna ragione di esistere. Arriviamo così a scoprire come sia una irrazionalità collettiva quella che porta milioni di lavoratori ad accodarsi nelle stesse strade e sugli stessi mezzi di trasporti nelle ore di punta, per poi arrivare negli

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stessi orari a svolgere attività, quali elaborare documenti o ri-spondere alle e-mail, che potrebbero essere svolte con maggiore efficacia a casa propria, prima di raggiungere la sede di lavoro.

La crescita esponenziale dell’interesse nei confronti dello smart working va letto come la salutare risposta a questo senso di fru-strazione. Lo testimoniano le crescenti attenzioni dei media an-che più generalisti, così come il diffondersi di iniziative e speri-mentazioni nelle imprese. Lo testimonia, da ultimo, l’interesse della politica che, attraverso il disegno di legge sul “lavoro agile”, sta cercando di dare una cornice legislativa leggera che funga da stimolo e linea guida per le imprese che vogliano cambiare e af-fermi alcuni diritti fondamentali dei lavoratori come il diritto alla disconnessione, la parità di trattamento salariale e la formazione continua.

In attesa che l’azione normativa tolga dubbi ed alibi al cambia-mento, sono sempre di più le aziende che adottano iniziative di smart working. A guidare il cambiamento sono in particolare le Grandi Imprese tra le quali, in un solo anno, è aumentato dal 17

% al 30% il numero delle organizzazioni che hanno messo in campo iniziative strutturate di smart working. Occorre poi conside-rare l’11% di organizzazioni che dichiara di lavoconside-rare secondo modalità smart pur senza aver introdotto un progetto sistematico, mentre solo il 12% del campione si dichiara non interessato all’adozione dello smart working o ritiene che questo non possa essere applicato alla propria realtà. Situazione ben diversa è quella che si riscontra nelle piccole e medie imprese dove, sebbene il li-vello di consapevolezza e apertura sia molto aumentato, il nume-ro di imprese con pnume-rogetti strutturati rimane appena del 5%.

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In termini di diffusione tra i lavoratori italiani, il numero di colo-ro che già oggi godono di un grado consistente di autonomia nel-lo scegliere quando, dove lavorare e con che strumenti, possono essere stimati in circa 250mila, ma sono almeno 5 milioni i lavo-ratori che, dal punto di vista delle attività svolte e con le tecnolo-gie attualmente disponibili, potrebbero fare smart working.

Ma cosa vuol dire veramente fare smart working? Troppo spesso lo smart working viene confuso con il concetto di telelavoro o viene ricondotto a politiche di welfare e forme conciliazione che le aziende possono concedere ai lavoratori affinché questi ultimi possano stare meglio.

Lo smart working è qualcosa di completamente diverso: è una filo-sofia manageriale, un modo di restituire al lavoratore autonomia e flessibilità chiedendogli una responsabilizzazione sui risultati. Il vero cambiamento che ne deriva è epocale: si passa da un mana-gement tradizionale orientato al presenzialismo e al controllo de-gli adempimenti, ad uno nuovo che ha dei principi che sono pro-fondamente diversi: il superamento della cultura del sospetto e del formalismo a favore di una fiducia misurata e controllata nei confronti del lavoratore, l’importanza della collaborazione, della capacità della persona di essere responsabile, dell’apertura, della flessibilità.

Per ottenere la massima efficacia da un progetto di smart working le imprese devono agire su una molteplicità di leve in modo coe-rente e sinergico. Entrando più nel dettaglio, le iniziative su cui agire per abilitare il modello smart working sono: le policy organizza-tive, ovvero le regole e le linee guida relative alla flessibilità di ora-rio (inizio, fine e durata complessiva), di luogo di lavoro e alla possibilità di scegliere e personalizzare i propri strumenti di

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ro; le tecnologie digitali, che possono ampliare e rendere virtuale lo spazio di lavoro, facilitando la comunicazione, la collaborazione e la creazione di network di relazioni professionali tra colleghi e con figure esterne all’organizzazione; il layout fisico degli spazi di lavoro, che ha un impatto significativo sulle modalità di lavoro e può condizionare l’efficienza, l’efficacia, la flessibilità e il benes-sere delle persone; e i comportamenti delle persone e gli stili di leader-ship, ovvero aspetti legati sia alla cultura dei lavoratori che al loro modo di “vivere” il lavoro, sia all’approccio da parte dei capi all’esercizio dell’autorità e del controllo.

I benefici ottenibili dall’adozione dello smart working riguardano sia le aziende (miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo, riduzione dei costi per gli spazi fisici…), sia le persone (miglioramento del work-life balance, aumento della soddi-sfazione…) che l’ambiente (riduzione delle emissioni di CO2, di traffico e inquinamento…) e si tratta di benefici potenziali trop-po imtrop-portanti per trop-potersi permettere di non sviluppare immedia-tamente un piano di interventi in grado di migliorare la competi-tività e la sostenibilità economica delle imprese.

Affinché ci sia una chiara consapevolezza del fenomeno, è neces-sario distinguere quelle che sono convinzioni errate, i “falsi miti”

dello smart working, da quelle che sono difficoltà reali. In primo luogo, spesso si pensa che le persone tendano ad approfittarsi dello smart working. L’esperienza pratica dimostra invece che è ve-ro esattamente il contrario: coinvolte in un pve-rogetto di smart wor-king le persone si sentono maggiormente responsabilizzate e de-siderano dimostrare il proprio contributo indipendentemente dal-la presenza fisica, dal-lavorando di più e meglio. Un’altra convinzio-ne errata è che lo smart working sia solo per chi ha la possibilità di lavorare da casa; l’introduzione di questa modalità lavorativa

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comporta per le persone la possibilità di scegliere con autonomia e responsabilità tra molteplici leve di flessibilità, delle quali il la-voro “da remoto” è soltanto una. Gli orari di lala-voro, la configu-razione e scelta degli spazi lavorativi all’interno delle sedi azien-dali, la flessibilità nell’utilizzo di diversi strumenti tecnologici in risposta a specifiche esigenze lavorative, costituiscono leve altret-tanto centrali nello smart working. Si pensa infine che questa mo-dalità di lavoro crei un senso di isolamento nelle persone, ma a differenza del telelavoro, lo smart working si configura come una forma di flessibilità volontaria, che può prevedere saltuariamente il lavoro da remoto. Così concepito i pericoli di isolamento o alienazione sono trascurabili.

Esistono però delle difficoltà reali che sono legate alla maturità e disciplina personale che lo smart working richiede alle persone, alla maturità delle persone, alla necessità che i manager cambino il lo-ro mind set, pianificando e delegando gli obiettivi. Fare smart wor-king richiede mettersi in discussione, è un percorso che necessita un rapporto maturo tra individui, tra persone e organizzazione, tra capi e collaboratori; un rapporto che deve essere basato sulla fiducia, sulla disponibilità a mettersi in gioco e, in fin dei conti, sulla disponibilità a trattare l’altro come un individuo con le sue esigenze, le sue caratteristiche, i suoi talenti da valorizzare.

Rimangono però alcuni “cantieri aperti”, su cui assicurare un cre-scente impegno nel prossimo futuro. Un primo cantiere su cui è necessario lavorare riguarda le piccole e medie imprese, dove la cultura con approcci manageriali in prevalenza improntati al mi-cro-management, rappresenta la vera barriera alla diffusione dello smart working. Un secondo cantiere di lavoro riguarda la pubblica amministrazione, fattore essenziale per il rilancio della competiti-vità del nostro sistema Paese. Lo smart working è un buon affare

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per i conti pubblici, come dimostrano i benefici colti dalle orga-nizzazioni private, ed è un modo per iniziare a introdurre anche in questo settore logiche di valutazione basate sui risultati e sui livelli di servizio piuttosto che sul presenzialismo o sull’adempimento di procedure burocratiche. Inoltre è un modo di preservare l’attrattività del pubblico impiego verso i talenti, non escludendo i dipendenti pubblici da iniziative che migliorano il clima organizzativo e la possibilità di conciliare e integrare lavo-ro e vita privata. Un terzo cantiere riguarda la necessità di rende-re i progetti di smart working più sistemici e pervasivi in termini di leve introdotte, non limitandosi a interventi superficiali, ma lavo-rando anche sulla regolazione in modo diverso a livello di con-tratti di sistema e di contrattazione di secondo livello. Un quarto cantiere riguarda invece il ruolo dello smart working come abilita-tore della Digital Transformation. Il digitale è solo apparentemente una commodity: senza un aumento rilevante della disponibilità di tecnologie e competenze digitali la diffusione reale e l’efficacia dello smart working saranno limitate e intere porzioni di individui, organizzazioni e territori, ne rimarranno di fatto esclusi. La diffu-sione dello smart working inoltre può essere a sua volta un poten-tissimo fattore di accelerazione della digitalizzazione dei processi e della diffusione di tecnologie e competenze digitali. Infine un quinto e ultimo cantiere su cui lavorare è la progressiva estensio-ne dello smart working a nuove attività e profili professionali: con la crescente diffusione di nuove tecnologie digitali e l’evoluzione delle professionalità che avverrà grazie all’Industria 4.0, il bacino di potenziali smart workers diventerà sempre più ampio, andando ad includere mestieri che ad oggi paiono ancora molto distanti da questo nuovo approccio, come ad esempio gli operai o i manu-tentori. I 5 milioni di potenziali smart workers possono sembrare tanti, ma bisogna cominciare a pensare gli altri 17 milioni, perso-ne che vanno progressivamente inclusi in questi modelli che

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trebbero beneficiare degli stessi vantaggi. Affinché ciò sia possi-bile la tecnologia non basta, bisognerà porre una grande atten-zione alla formaatten-zione e allo sviluppo di competenze, consideran-do che i comportamenti digitali sono una condizione essenziale di cittadinanza e di inclusione nel mondo del lavoro. Il sistema educativo deve occuparsi di tutti quei lavoratori che hanno biso-gno di acquisire una serie di competenze, di abitudini, di stru-menti di collaborazione che permetteranno loro di essere inclusi e di potere essere parte di questo fenomeno di innovazione e tra-sformazione.

Le sfide e le prospettive aperte da questi cantieri ci fanno dire che il percorso dello smart working è appena all’inizio, ma è una strada che apre enormi potenzialità di rendere il nostro sistema di organizzazione del lavoro più competitivo, più giusto, più inclu-sivo, in altre parole più smart.

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