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Meno legge, più contratto

di Roberto Pessi

Il tema dello smart work è un tema molto complesso, come si evince dalle esposizioni che mi hanno preceduto del Professor Corso e di Simone Bressan. Emblematico è, al riguardo, un dato emerso nel confronto odierno: l’esistenza di 17 milioni di lavora-tori “tradizionali” e di 5 milioni di potenziali smart workers. Questi dati evidenziano l’attualità del tema e la necessità di un intervento del legislatore, che non può prescindere da una considerazione essenziale, e cioè che esistono tipologie di attività lavorative che sono molto distanti da quest’ultimo fenomeno: penso, ad esem-pio, al turismo ed alla grande distribuzione, ove la prestazione è cadenzata dalle esigenze specifiche del settore.

Come sapete, insegno diritto del lavoro all’università e quando tratto la tematica dei licenziamenti evidenzio sempre ai miei stu-denti che, di fatto, esistono due “diritti del lavoro”: quello relati-vo le aziende fino a 15 dipendenti, ove vige la tutela obbligatoria, e quello delle aziende oltre i 15 dipendenti, ove invece vige la tu-tela reale. Per le piccole imprese la disciplina consente, in buona sostanza, di procedere al licenziamento in assenza di gravi conse-guenze per l’azienda (al di là di quelle risarcitorie). Nelle grandi aziende, di contro, la situazione è ben diversa ed i poteri impren-ditoriali sono arginati dalla disciplina protettiva. Tale

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zione ha effetti importanti in chiave ricostruttiva di alcuni feno-meni: se, infatti, è vero che i lavoratori a bassa produttività (come evidenziava il collega Corso) sono il 2%, è altrettanto vero che il nostro Statuto protettivo consente ad un dipendente, in astratto, di lavorare poco e di continuare a percepire la retribuzione: basta infatti aggiungere ai 180 giorni di comporto annuale della grande distribuzione, le ferie, i riposi, le giornate per la donazione del sangue ed i giorni per l’assistenza ai soggetti disabili per coprire quasi tutto l’intero anno lavorativo, con gravi difficoltà gestionali per l’imprenditore. Voglio dire, in chiave provocatoria, che siamo di fronte ad una materia molto complessa.

Non è un caso, dunque, che nel disegno di legge presentato da Maurizio Sacconi c’è un passaggio, secondo me chiave, ove si af-ferma che “non c’è tra i diritti fondamentali l’articolo 18”. Con ciò si vuole sostanzialmente togliere la stabilità reale, andando oltre la riforma Fornero ed il Jobs Act che, anche alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza, non hanno escluso la reintegra nell’ipotesi di licenziamento per motivo soggettivo. Si tratta, dunque, di avviare un lungo percorso per rilanciare un’interpretazione dell’art. 2094 c.c. che dia il giusto peso al con-cetto di “collaborazione” nell’impresa, in passato messo all’angolo dal concetto di subordinazione imposto attraverso meccanismi e modelli organizzativi. C’è una soluzione tecnica che certamente il Professor Tiraboschi ha ispirato insieme a Maurizio Sacconi, riprendendo una vecchia idea di Antonio Val-lebona: è l’idea che attraverso la certificazione si possa concretiz-zare una sorta di autonomia assistita, funzionale a dare una rego-lamentazione tra le parti (oggetto di negoziazione) che superi la dicotomia classica autonomia-subordinazione. Una sorta di con-tratto individuale/collettivo ad hoc, che attraverso un mix intelli-gente (e certificato dalla presenza di garanti) possa favorire anche

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una maggior diffusione dello smar twork in settori che oggi sem-brano meno propensi ad utilizzarli.

Questa parte del disegno di legge del Professor Tiraboschi, e di Marco Biagi a suo tempo, è a mio giudizio convincente in quanto ben potrebbero, seppur con gli opportuni accorgimenti e cautele, convivere gli statuti protettivi classici con esperienze innovative quali potrebbero essere quelle di cui discutiamo. Si tratterebbe di un percorso culturale prima ancora che giuridico, che porti a ri-tenere che la tutela del lavoratore contro il licenziamento illegit-timo possa essere incentrata su una stabilità esclusivamente ob-bligatoria, magari rafforzata quanto alla dimensione economica, confermando l’idea che il rapporto di lavoro è risolubile. Eviden-temente è chiaro che il quadro di riferimento che si apre può es-sere di grande interesse. Indispensabile è, a questo punto, l’avvio di una discussione “post ideologica”, che consenta un serio ap-profondimento delle tematiche sottese ad un siffatto approccio ricostruttivo. I tempi, d’altronde, sembrano maturi. Lo stesso so-stanziale superamento del tertium genus operato dal Jobs Act, che ha avuto quale effetto quello di centrare la materia sui due mo-delli tradizionali (il 2094 c.c. e il 2222 c.c.), favorisce – forse – il superamento del dogma della inderogabilità assoluta dello Statuto protettivo, consentendo l’esplorazione di formule più flessibili di prestazione lavorativa.

In tale quadro, appena delineato, si inseriscono inevitabilmente elementi ulteriori che rivestono un ruolo assolutamente decisivo:

penso alla contrattazione in deroga, all’uscita Fiat da Federmec-canica e Confindustria, agli 80 euro dati direttamente da Renzi in busta paga e non, come sempre fatto in passato, per tramite della contrattazione collettiva. Elementi, questi, che rendono la partita ancora più complessa.

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Concludendo, come è stato detto in precedenza dagli altri relato-ri, la sfida va affrontata, seppur con la dovuta prudenza legata ad un mercato del lavoro che è ancora oggi fortemente diversificato.

La chiave di volta può essere proprio il superamento della stabili-tà reale, attraverso cui si può favorire l’instaurazione di un conte-sto collaborativo indubbiamente diverso in azienda. Al contem-po, opportuno sembra un nuovo tentativo teso a valorizzare ve-ramente l’autonomia assistita attraverso la certificazione, supe-rando il dogma dell’esclusiva dei giudici in materia di potere qua-lificatorio.

Mi sia consentita un’ultima battuta. Mi colpisce che si discuta un referendum costituzionale senza che siano in nessun modo state affrontate tematiche quali lavoro e welfare. Nessuna riflessione sul rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art. 38 (penso anche alla perequazione automatica), o sull’art. 39 in tema di con-trattazione collettiva aziendale e di inattuazione degli ultimi tre commi; ancora, nessuna riflessione sulla crisi di effettività dell’art.

40 nel rinnovato contesto del conflitto sociale o sull’art. 36 e sul salario minimo. Oggi più che mai, forse, si rende necessaria una revisione della Costituzione in materia lavoristica al fine di ren-derla più flessibile e più aderente al contesto economico-sociale di riferimento.

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