• Non ci sono risultati.

Relatore:

prof. Federico GROSSO

ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino

SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La condotta di “abuso” - 3. Sulla rilevanza delle con-dotte omissive - 4. La doppia qualifica di illiceità speciale - 5. L’irrile-vanza di talune condotte - 6. Le diverse ipotesi di reato - 7. Il dolo del delitto di abuso di ufficio 8. La violazione dell’obbligo di astensione -9. Confronto tra la vecchia e nuova disciplina - 10. Le sanzioni.

1. Il nuovo delitto di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 c.p.

è centrato sulla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che “abusa del suo ufficio”. L’abuso acquista rile-vanza penale se è stato realizzato con il dolo specifico di “procura-re a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per ar-recare ad altri un danno ingiusto” (fattispecie di cui al comma 1°

dell’art. 323 c.p.), ovvero di “procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale” (fattispecie di cui al comma 2° dell’art. 323 c.p.). Esso è perseguito ex art. 323 c.p. “se il fatto non costituisce più grave reato” (clausola negativa).

Nella riforma di cui alla legge n. 86/90 il delitto di abuso di ufficio è destinato a sostituire diversi delitti: l’abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge previsto dall’origi-nario art. 323 c.p., il peculato e la malversazione per distrazione, e l’interesse privato in atti di ufficio. L’obiettivo perseguito dal le-gislatore è stato di ovviare alle incertezze interpretative suscitate dalle fattispecie abrogate e, nei limiti del possibile, circoscrivere, attraverso una più definita tipicizzazione legislativa, gli sconfina-menti del potere giudiziario sul terreno del controllo

giurisdizio-nale di settori riservati alla discrezionalità della pubblica ammi-nistrazione.

Alcune precedenti incertezze interpretative sono state, come ve-dremo, effettivamente eliminate. L’ambito di applicazione della leg-ge penale sui terreni più scivolosi sui quali il vecchio art. 324 c.p.

consentiva al giudice di avventurarsi è stato, a mio parere molto op-portunamente, contenuto. Rimane comunque il dubbio che le nuo-ve modalità di tipicizzazione del reato non siano interamente in gra-do di evitare rischi di una applicazione elastica della incriminazio-ne: la nuova fattispecie riproduce infatti, grosso modo, i tratti ca-ratteristici del vecchio abuso innominato, un reato che anch’esso, come l’interesse privato in atti di ufficio, era stato accusato di pre-starsi ad applicazioni non sufficientemente garantite sul terreno del-la tassatività.

2. La condotta criminosa del delitto previsto dall’art. 323 c.p.

si incentra sul concetto dell’“abuso di ufficio”. Costituisce “abuso” di ufficio ogni condotta compiuta in violazione delle norme che rego-lano l’esercizio della attività pubblica. In altre parole, ogni utilizza-zione dei poteri di ufficio che “oggettivamente” frustri o alteri la fi-nalità istituzionale che il soggetto pubblico è tenuto a perseguire.

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio può

“abusare dell’ufficio” sia ponendo in essere, o concorrendo a porre in essere nel quadro di un procedimento amministrativo e di un at-to collegiale, un atat-to amministrativo, sia realizzando una attività ma-teriale confliggente con il perseguimento delle finalità pubbliche isti-tuzionali. Questa doppia possibilità di realizzazione del reato emer-ge dalla formulazione testuale della norma, poiché l’espressione “abu-sa del suo ufficio” è tale da coinvolgere sia l’attività giuridica che quella materiale della pubblica amministrazione. Ma è confermata in modo decisivo dalla “storia” della nuova disposizione. In una fa-se dell’iter parlamentare della riforma si era giudicato opportuno ri-chiedere espressamente che l’abuso si commettesse con la realizza-zione di un atto amministrativo illegittimo; questa proposta era sta-ta successivamente scarsta-tasta-ta per il timore (in quanto sta-tale mal ripo-sto) di costringere il giudice penale a sindacare i vizi di illegittimità dell’atto amministrativo. L’abbandono della formulazione complessa che faceva riferimento oltreché all’abuso alla illegittimità dell’atto di-mostra tuttavia, anche, la volontà di riconoscere rilievo penale agli

abusi che si concretano nella ralizzazione di attività materiale illeci-ta rispetto ai fini istituzionali che dovevano essere perseguiti.

Quando l’attività del soggetto pubblico si concreta in attività giu-ridica, cioè nel compimento di atti amministrativi, l’abuso coincide con la realizzazione di atti amministrativi illegittimi, cioè viziati da eccesso di potere, incompetenza o violazione di legge. In questa pro-spettiva il giudice penale è comunque investito della valutazione con-cernente la esistenza o meno di questi vizi, non ovviamente agli ef-fetti del giudizio sulla validità dell’atto, bensì a quelli dell’accerta-mento della condotta tipica del reato.

Il giudice chiamato a valutare l’esistenza dell’abuso, ai fini dell’ac-certamento del reato potrà dunque procedere al sindacato sulla ille-gittimità dell’atto amministrativo. Deve essere invece escluso che egli sia autorizzato a compiere un qualsiasi giudizio di merito, a sinda-care cioè l’opportunità o la convenienza amministrativa dell’atto stes-so. Tale ulteriore sindacato verrebbe infatti ad estendere arbitraria-mente il giudizio dell’organo giurisdizionale in una materia di scel-ta politica riservascel-ta alla pubblica amministrazione.

3. Stabilito che l’abuso può consistere in condotte illecite di-verse dalla realizzazione di atti amministrativi illegittimi, ci si può domandare se in quest’ultimo ambito possano essere ricomprese an-che le condotte omissive (an-che siano, ovviamente, qualificate da uno dei fini alternativamente previsti dall’art. 323 c.p.).

Da un punto di vista strettamente letterale potrebbe anche sem-brare possibile rispondere al quesito in modo affermativo: il generi-co generi-concetto di “abuso” utilizzato per qualificare la generi-condotta potreb-be apparire idoneo a ricomprendere anche le omissioni espressa-mente finalizzate a recare vantaggio o cagionare danno. Se il delit-to fosse stadelit-to costruidelit-to come readelit-to materiale, subordinadelit-to cioè al ve-rificarsi del risultato di vantaggio o nocumento ingiusto, la rilevan-za della condotta omissiva avrebbe d’altronde potuto trovare un pun-to di appoggio nell’art. 40 comma 2° c.p., poiché al soggetpun-to pubbli-co pubbli-compete certamente l’obbligo di evitare che si verifichino vantaggi ingiusti a sé o ad altri o danni ingiusti ad altri.

Il delitto è stato costruito invece come reato di mera condotta, e, come è noto, è dubbio che nei confronti di questa categoria di il-leciti penali l’omissione possa essere considerata rilevante fuori del-le ipotesi in cui sia espressamente menzionata dalla norma penadel-le

incriminatrice. La storia della norma fornisce d’altronde, ancora una volta, una indicazione importante circa la volontà del legislatore.

Nel corso dell’iter parlamentare della riforma era stato infatti espres-samente previsto l’abuso mediante omissione, rilevante ai sensi del delitto di abuso di ufficio anziché di quello previsto dall’art. 328 c.p.

quante volte l’omissione fosse stata realizzata dal soggetto pubblico per una delle finalità specificamente indicate nell’art. 323 c.p.; que-sta previsione, che era que-stata accolta con favore da parte dei com-mentatori della disciplina che si andava profilando, è stata tuttavia successivamente abbandonata; il che può dimostrare appunto la vo-lontà legislativa di non dare rilievo ex art. 323 c.p. alle condotte omissive.

Pur ritenendo che sarebbe stato politicamente corretto distin-guere le omissioni di ufficio a seconda del dolo che le qualifica, con-siderando sotto il più grave profilo del delitto di abuso quelle com-piute al fine di recare vantaggi o cagionare danni ingiusti, penso che de iure condito possano essere ricondotti alla fattispecie prevista dall’art. 323 c.p. soltanto gli abusi consistenti nella realizzazione di atti amministrativi illegittimi e di attività materiale illecita positiva del soggetto pubblico.

4. Il termine “abuso” di ufficio connota in termini di disvalore giuridico (atto amministrativo illegittimo o attività materiale co-munque illecita) la condotta costitutiva del delitto previsto dall’art.

323 c.p. Nella formulazione di tale articolo il legislatore ha tuttavia ritenuto di dovere enunciare una seconda volta la qualifica negativa connotando in termine “ingiustizia” il vantaggio o il danno perse-guito dal soggetto pubblico.

A prima vista sembrerebbe possibile affermare che si tratta di aggiunta in realtà pleonastica, in quanto se la condotta è “abusiva”, cioè illegittima o comunque lecita rispetto ai fini istituzionali perse-guiti dall’ente, in re ipsa il vantaggio o il danno perseguito è ingiu-sto, cioè illecito a sua volta. Né parrebbe consentito sostenere che con il termine ingiusto si sia inteso fare riferimento a criteri di va-lutazione extragiuridica, di natura etico-sociale, politico-sociologica, o di opportunità amministrativa. “Ingiusta”, secondo l’interpretazio-ne costante l’interpretazio-nei diversi casi in cui questo aggettivo è stato usato per evidenziare momenti di antigiuridicità speciale interni alla fattispe-cie di reato, significa illiceità formale, contrarietà al diritto.

A rigore, quindi, la doppia indicazione dell’abuso e dell’ingiusti-zia può apparire superflua. In realtà nel contesto del delitto previsto dall’art. 323 c.p. acquista il significato di un importante segnale in-terpretativo.

“Abuso” significa, abbiamo visto, violazione di legge, cioè atti-vità oggettivamente contraria ai fini istituzionali perseguiti dall’ente.

Cè tuttavia il rischio che, a dispetto delle intenzioni del legislatore del ‘90 tutte tese a delimitare l’ambito delle ipotesi penalmente rile-vanti, il criterio di valutazione di questa illiceità venga stemperato nel quadro di un generico riferimento al concetto di strumentaliz-zazione dell’ufficio per finalità di vantaggio privato o di danno ad al-tri. Ebbene, la doppia menzione dell’abuso e dell’ingiustizia può ser-vire a richiamare l’attenzione sulla necessità che il giudice accerti in-vece rigorosamente l’illegittimità della condotta, illegittimità che non è automaticamente rinvenibile in ogni utilizzazione soggettiva dell’uf-ficio per finalità estranee ai fini istituzionali dell’ente.

Questa precisazione può apparire d’altronde particolarmente im-portante nei confronti dell’esercizio della attività discrezionale della pubblica amministrazione, nella quale, quanto più ampio è il potere discrezionale, tanto è più grande il rischio che il semplice riscontro del-la finalità privata associata a queldel-la pubblica induca a ritenere auto-maticamente provata la illiceità della condotta del soggetto pubblico.

5. L’identificazione della condotta costitutiva del reato nell’abu-so del proprio ufficio presuppone che il nell’abu-soggetto pubblico abbia po-sto in essere un comportamento che costituisca una modalità di espli-cazione dell’ufficio stesso. Il che implica che, a differenza di quanto poteva avvenire all’interno della vecchia disciplina dell’interesse pri-vato, non potranno essere considerate reato le ipotesi di utilizzazio-ne per finalità di carattere privato di notizie apprese per ragioni di ufficio, o quelle di partecipazione come privato ad attività di gestio-ne della pubblica amministraziogestio-ne. Ipotesi di questo tipo potranno acquistare rilevanza penale nella misura in cui possono essere ri-condotte alla figura di cui all’art. 326 c.p.

6. Secondo una delle formulazioni emerse nel corso della ge-stione della riforma, il reato di abuso di ufficio presupponeva che l’abuso determinasse l’ingiusto vantaggio o l’ingiusto danno. Questa configurazione del reato come illecito “di evento” è stata tuttavia

ab-bandonata nella configurazione definitiva, che ha tuttavia ripristina-to l’indispensabile “dolo specifico”. L’abuso di ufficio, cioè, può ac-quistare rilevanza penale nella misura in cui si accerti che è stato compiuto “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto” (art. 323, comma 1° c.p.), ovvero “per procurare a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale” (art. 323 comma 2° c.p.).

A mio avviso l’avere affiancato come fattispecie alternative di una unica figura delittuosa l’abuso a vantaggio e quello a danno non è stata una scelta felice. Le due figure rispondono infatti a ratio del tutto diverse, ed avrebbero dovuto essere distinte anche sul terreno della entità della sanzione.

L’abuso “a vantaggio” è stato a sua volta distinto nell’abuso a vantaggio proprio ed a vantaggio di altri, e nell’abuso a vantaggio (proprio o altrui) non patrimoniale e nell’abuso a vantaggio (proprio o altrui) patrimoniale.

Con riferimento all’abuso a vantaggio altrui nella formulazione definitiva dell’art. 323 c.p. non sono state riprodotte alcune prece-denti proposte tenprece-denti ad escludere la rilevanza penale del fatto quando il soggetto “altrui” è la stessa pubblica amministrazione o un altro ente pubblico. Questa scelta impedisce che si possa escludere che il reato risulti integrato quando il pubblico ufficiale o l’incari-cato di un pubblico servizio abusa del suo ufficio allo scopo di sod-disfare un interesse pubblico estraneo ai fini istituzionali del setto-re della p.a. al quale appartiene il suo ufficio (se l’intesetto-resse pubbli-co perseguito attiene alla sfera dei fini istituzionali della p.a. sem-bra escluso che possa trattarsi di vantaggi “altrui”).

Se il vantaggio proprio o altrui ha carattere non patrimoniale, è stata prevista la pena della reclusione fino a due anni; se ha carat-tere patrimoniale, la pena della reclusione da due a cinque anni.

Innanzitutto occorre sottolineare che la fattispecie prevista nel com-ma 2° dell’art. 323 c.p. non costituisce una circostanza aggravante, bensì un titolo autonomo di reato: essa non aggiunge infatti elementi a quella prevista dal comma 1°, bensì sostituisce all’elemento del van-taggio “non patrimoniale” quello del vanvan-taggio “patrimoniale”.

La distinzione fra le due figure, che risponde evidentemente alla valutazione di maggiore gravità dell’affarismo all’ombra della pubbli-ca amministrazione rispetto agli abusi per finalità diverse, suscita co-munque qualche problema interpretativo. Può accadere infatti con

una certa frequenza che si sovrappongano nel medesimo contesto e finalità di natura patrimoniale e finalità di natura non patrimoniale:

ad esempio, che vengano distribuiti arbitrariamente fondi pubblici ad amici politici non al fine di arrecare loro un indebito vantaggio pa-trimoniale, ma per ragioni politico-clientelari. In casi di questo tipo, escluso che sia proponibile parlare di concorso formale di reati, si può proporre una interpretazione rigoristica, diretta ad applicare il comma 2° dell’art. 323 c.p. ogniqualvolta si accerti che tra i fini per-seguiti dall’agente ve ne era uno di vantaggio patrimoniale; si può proporre invece, ritengo con maggiore aderenza alla ratio della incri-minazione, che debba essere applicato il 1° ovvero il 2° comma dell’art.

323 c.p. a seconda della finalità dominante rilevata dal giudice.

7. Come si è visto, il dolo del delitto di abuso di ufficio è “spe-cifico”. Il soggetto pubblico, per essere chiamato a rispondere del reato, deve comunque rappresentarsi tutti gli elementi oggettivi del fatto. Poiché fra gli elementi del fatto ricorre l’elemento normativo dell’“abuso”, deve ritenersi che, secondo i principi generali, l’agente debba rappresentarsi tale qualifica di illiceità speciale. Ove si accer-ti che nonostante la oggetaccer-tiva illiceità (amministraaccer-tiva) del fatto, il soggetto riteneva che esso fosse legittimo, dovrà essere pronunciata sentenza di proscioglimento perché il fatto non costituisce reato.

8. Ci si deve domandare, a questo punto, se la violazione del dovere di astensione eventualmente imposto a determinati soggetti pubblici quando vi sia interferenza fra esercizio del potere pubblico e loro interessi privati sia qualificabile ex art. 323 c.p.

Come è noto, la questione era stata oggetto di ampia discussio-ne con riferimento alla vecchia fattispecie di interesse privato in at-ti di ufficio. Dopo un iniziale atteggiamento di rigore, la giurispru-denza si era orientata a sostenere che la mera violazione dell’obbli-go di astensione non era in grado di integrare interesse privato, es-sendo necessario, agli effetti di tale incriminazione, che il soggetto pubblico sfruttasse l’ufficio per finalità di interesse privato.

Il problema si presenta in termini formalmente diversi con rife-rimento al nuovo delitto previsto dall’art. 323 c.p.. Di fatto la rispo-sta è tuttavia in larga misura analoga.

La violazione dell’obbligo di astensione integra senza dubbio un

“abuso” di ufficio (violazione di legge); essa realizza quindi,

verosi-milmente, la condotta costitutiva del nuovo delitto. Agli effetti della responsabilità penale è tuttavia necessario che il soggetto pubblico abbia agito non allo scopo di realizzare l’interesse pubblico, ma al fine di perseguire un interesse proprio.

In questa prospettiva, sia pure non più sotto il profilo della in-sussistenza della condotta, bensì sotto quello della mancanza del do-lo, vi è ampio spazio per il proscioglimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che abbia semplicemente vio-lato il dovere di astensione senza caricare questa astensione di nes-suna specifica finalità.

9. Individuata la struttura del delitto di abuso di ufficio, non è difficile cogliere i rapporti di continuità e quelli di specificità nei confronti della vecchia disciplina.

Ho già rilevato che una nuova figura sostituisce il vecchio pe-culato per distrazione, il vecchio interesse privato in atti di ufficio e l’abuso innominato.

Le ipotesi precedentemente riconducibili al peculato per distra-zione sono qualificabili, oggi, alla stregua del nuovo abuso nella sua forma più rigorosa di cui al comma 2° dell’art. 323 c.p. Poiché la legge non consente che fondi pubblici siano destinati a scopi diver-si da quelli istituzionali, tale destinazione integra infatti, senza pos-sibilità di dubbio, l’abuso in cui si sostanzia la condotta del nuovo delitto (salva, ovviamente, la necessità di provare altresì il dolo spe-cifico previsto dall’art. 323 c.p. e la consapevolezza dell’abuso).

Opportunamente la nuova qualificazione giuridica impedisce d’al-tronde che possano acquistare rilevanza penale le “distrazioni” all’in-terno dei fini istituzionali dell’ente, ipotesi che invece, secondo una interpretazione assurdamente rigorosa, una parte della giurisprudenza continuava a fare rilevare ai sensi dell’originario art. 314 c.p.

Le vecchie ipotesi di abuso innominato sono tutte riconducibili al nuovo modello.

L’abuso di ufficio copre, infine, gran parte dello spazio prece-dentemente occupato dall’interesse privato in atti di ufficio: riman-gono escluse soltanto le ipotesi in cui la “presa di interesse privato”

si manifestava senza che lo sfruttamento soggettivo dell’ufficio si con-cretasse in un abuso, cioè in un atto amministrativo illegittimo o in una attività materiale illecita. Ma a mio avviso è giusto che sia sta-ta imboccasta-ta quessta-ta strada, che esclude dall’area della rilevanza

pe-nale situazioni in cui più facilmente potevano verificarsi eccessi re-pressivi ed indebite sovrapposizioni del controllo giurisdizionale al-la discrezionalità amministrativa. La nuova disciplina ha d’altronde il pregio di superare le vecchie questioni relative alla definizione del concetto di interesse “privato” ed al conseguente rapporto tra le fat-tispecie di interesse privato in atti di ufficio e di abuso innominato.

10. L’abuso per finalità di vantaggio non patrimoniale e di dan-no è punito con la reclusione fidan-no a due anni (più gravemente del vecchio abuso innominato, che prevedeva la pena alternativa della reclusione o della multa). L’abuso per finalità di vantaggio patrimo-niale è punita a sua volta con la reclusione da due a cinque anni (una pena che nel minimo è superiore a quella, di soli sei mesi, pre-vista per il vecchio interesse privato in atti di ufficio).

La pena prevista dal comma 2° dell’art. 323 c.p. è meno elevata di quella di cui al vecchio peculato per distrazione (reclusione da tre a dieci anni): ma la dottrina più sensibile non aveva mancato di rilevare che la pena prevista per il peculato, giustificata nei confronti delle condotte di appropriazione, lo era assai meno nei confronti di quelle di distrazione.