• Non ci sono risultati.

GIUDICE PENALE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DOPO LA RIFORMA

Relatore:

prof. Gaetano CONTENTO

ordinario di diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari

Devo rinnovare il mio ringraziamento ai membri del Consiglio che hanno ritenuto di potermi fare di nuovo l’onore di tornare a par-lare a voi Magistrati di un argomento che, come tutti sanno, mi è molto caro, perché sono almeno quindici anni che dedico una par-ticolare attenzione a questo tema.

Ripeto, come ho già detto in occasione di un altro Convegno or-ganizzato sempre dal C.S.M. sulla materia dei reati contro la Pubblica Amministrazione, (si era, allora, ancora in attesa della riforma), ri-peto che per me è un grande onore poter parlare a voi.

É un grande onore perché ritengo che l’aspirazione di qualun-que scienziato del diritto, se qualun-questa parola riesce a non evocare un eccesso di presunzione, è quella di potersi rivolgere a coloro che de-vono applicare il diritto, che il diritto applicano, quindi a coloro per i quali, in sostanza, il diritto è fatto e per i quali dovrebbe essere svolta l’attività degli scienziati.

Non c’è quindi, a mio avviso, un’occasione migliore per un Professore di diritto che quella di potere parlare a dei Magistrati.

D’altra parte anche quando parlo ai miei studenti, in realtà io parlo ad essi come a possibili futuri Magistrati, perché sono più che convinto (lo sono sempre stato e continuerò ad esserlo), che il futu-ro del Paese, l’avvenire della società civile, il livello della qualità del-la vita, dipende soprattutto dal modo in cui in un paese del-la giustizia funziona o non funziona, e soprattutto dipende dalla fiducia che la collettività può riporre nell’operato dei Giudici, perché sono essi il punto di riferimento che una società civile deve poter avere, sul

qua-le poter contare, per poter svolgere con tranquillità, con serenità, qua-le proprie attività sociali.

Ecco perché il tema dei rapporti fra giurisdizione e attività am-ministrativa a me è sempre parso un tema di estremo interesse, ben-ché esso non goda molto credito o non abbia goduto molto credito nell’ambito delle indagini consuete alla dogmatica penalistica.

Era ed è un tema di grande interesse perché le due attività prin-cipali dello Stato destinate alla garanzia dell’ordine sociale, sono ap-punto quelle dell’amministrazione da un canto e della giurisdizione dall’altro ed è necessario che queste attività funzionino entrambe a regime, funzionino possibilmente senza conflittualità e senza inter-ferenze, funzionino al meglio, perché solo da una congiunta ottima-le spendita di energie in entrambe i campi, può attendersi un futu-ro di vita migliore.

Ecco perché, sin da quando cominciarono a manifestarsi nella realtà della prassi giudiziaria, i primi segni di una possibile incrina-tura dei rapporti fra le due attività, io ritenni necessario cercare di ordinare le idee perché le istanze che da una parte o dall’altra giu-stificavano un mutamento di indirizzo rispetto ad abitudini prece-dentemente già consolidate, sembravano tutte istanze degne di con-siderazione e di attenzione.

Non era certamente fuori luogo né fuori posto la comprensibile spinta che induceva i Magistrati a penetrare più a fondo nella disami-na, nell’analisi dei modi in cui l’amministrazione svolgeva (o non svol-geva) le sue funzioni: non erano d’altra parte neppure del tutto immo-tivate le preoccupazioni che da parte dell’ambiente dei pubblici ammi-nistratori venivano espresse per questa sorta di dipendenza istituzio-nalizzata dell’attività amministrativa dal controllo del Giudice Penale.

E non erano neanche infondate le preoccupazioni che una par-te della dottrina nutriva circa lo scetticismo sostanziale in ordine all’utilità di una presa di posizione, perché si riconosceva da tutti, in linea generale, (posso ricordare soltanto, per esempio, quanto si disse in occasione di uno dei primi Convegni organizzati su questo tema a Varese), che non era certo la via del controllo penale la mi-gliore per rifondare una sana e corretta amministrazione.

Ed allora io mi accinsi a studiare questo tema senza pregiudizi, senza preconcetti, senza posizioni viziate da ideologismi di parten-za, senza a priori di alcun genere, ma alla luce di quella che mi sem-brava dovesse essere la valutazione più corretta della legislazione di

cui disponiamo ed anche delle finalità complessive che il discrimen fra attività giurisdizionale ed attività amministrativa esige o tenta di perseguire.

E giunsi allora ad alcune conclusioni che naturalmente non tendo certo qui illustrare nelle sequenze argomentative, perché in-nanzitutto la cosa richiederebbe troppo tempo ma soprattutto per-ché poi rischierebbe di risultare noiosa e questo mi sembra già un motivo più che sufficiente per astenermi dal farlo.

Intendo soltanto riassumerle velocemente solo per poter intro-durre più proficuamente il discorso successivo.

Ricorderò, perciò, che fino a non molti anni or sono, gli studi dedicati ex professo a questo tema erano relativamente scarsi; vi era-no fondamentalmente, due posizioni, viziate entrambe, a mio avvi-so, da eccesso di radicalismo.

La prima sosteneva, con assolutezza, che il potere di sindacato del Giudice Penale sull’attività dell’amministrazione dovesse essere illimitato, perché in linea di principio il Giudice non può essere vin-colato se non dalla legge, nell’esplicazione della sua funzione istitu-zionale, e quindi non può essere mai limitato dai poteri di un altro settore dell’attività statale, quale è quello della Pubblica Amministrazione.

Vi era un’altra posizione altrettanto radicale che invece negava in linea di principio la possibilità che un Giudice potesse sindacare gli atti dell’amministrazione, quanto meno gli atti discrezionali, per-ché sosteneva che anche i Giudici dovessero rispettare il principio della separazione dei poteri e l’autonomia della Pubblica Amministrazione.

Ho già detto che si trattava di posizioni entrambe, a mio avvi-so, insostenibili e direi che la migliore prova o, perlomeno, l’indizio più significativo della loro insostenibilità, deriva dal fatto che en-trambe utilizzavano per pervenire a queste conclusioni così diame-tralmente opposte, lo stesso argomento: entrambe le posizioni si fon-davano, infatti, sulla normativa della legge 20 marzo 1865, numero 2248 allegato E, in particolare sugli articoli 2, 4 e 5.

Questa era la prima cosa, quindi, che occorreva verificare: in che misura questa normativa in effetti fosse utile alla soluzione del pro-blema dei rapporti tra giurisdizione ed amministrazione, in che mi-sura invece servisse solo a dare un supporto concettuale a soluzioni che avevano in realtà la loro motivazione in altre ragioni.

In realtà la legge di cui stiamo parlando quasi sempre è stata ed è invocata a torto perché quella legge, come tutti ricordiamo, in ef-fetti stabilisce solo l’obbligo del Giudice, di qualunque Giudice, (quin-di in teoria anche del Giu(quin-dice penale) (quin-di applicare gli atti ed i re-golamenti della Pubblica Amministrazione in quanto conformi alle leggi: e da questa locuzione si è tratto quindi il fondamento del co-siddetto potere di disapplicazione dell’atto non conforme alla legge.

Ma in realtà, come d’altra parte è chiarissimo, il potere di non applicare o disapplicare presuppone evidentemente che si ponga al Giudice il problema di dover applicare delle norme, precisamente le norme contenute nell’atto della cui conformità a legge poi si deve di-scutere.

Se il Giudice, invece, non deve applicare norme, non può nean-che disapplicarle. Quindi il presupposto per invocare il potere di di-sapplicazione, secondo la normativa dell’articolo 4, non ricorre, quan-do c’è una situazione nella quale il Giuice sia chiamato ad applica-re delle norme.

Ora questa situazione, per il Giudice penale, non si verifica qua-si mai. Dico quaqua-si mai perché evidentemente possono esservi, anche per il Giudice penale, fattispecie nelle quali egli deve verificare se un atto è compiuto nell’esercizio del diritto, se un atto è compiuto per ordine dell’autorità, se un atto è compiuto nell’adempimento di un dovere, e quindi in questi casi evidentemente è possibile ed è ne-cessario che il Giudice debba applicare norme contenute in atti che non siano necessariamente atti legislativi ma anche atti normativi di altro genere: ma al di fuori di questa tematica, al di fuori di quella, cioè, in cui il presupposto logico, diciamo, della fattispecie è la sus-sistenza di una norma non osservata, e tutte le volte in cui si possa dire che la norma non osservata è contenuta in un atto ammini-strativo, al di fuori di queste ipotesi, evidentemente il Giudice penale non deve applicare o non applicare atti, e quindi non si pone il pro-blema di ricorrere all’art. 4.

In linea generale il Giudice penale invece deve soltanto accerta-re fatti.

Alcuni dei fatti che si pongono come oggetto del suo accerta-mento, evidentemente possono anche essere realizzati mediante il compimento di atti amministrativi, o in genere di attività ammini-strative: (perché si deve sottolineare anche questo, non sempre il co-siddetto potere di sindacato riguarda atti in senso formale, ma può

rigardare anche attività che siano meramente esecutive di atti am-ministrativi, attività materiali).

Ora, in questo potere di accertamento, evidentemente, l’articolo 4 o l’articolo 5 o l’articolo 2 non hanno motivo alcuno di essere in-vocati poiché si tratta di un accertamento di fatti, non si tratta di un’applicazione di discipline o di applicazione di norme.

Quindi il problema dei rapporti fra giurisdizione penale e atti-vità amministrativa non può impostarsi, e tanto meno risolversi, sul terreno della teoria del sindacato (e della disapplicazione) sugli atti, secondo la legge del 1865: si tratta piuttosto di vedere se esistano o non esistano delle regole, che possano comunque circoscrivere il po-tere di accertamento dei fatti, nel senso di circoscrivere il popo-tere di rilevazione dei vizi degli atti, qualora i fatti previsti dalle norme pe-nali consistano nel compimento di atti amministrativi, che non sia-no desumibili da altre indicazioni.

Questo trasferisce tutto il problema sul piano della teoria gene-rale dell’interpretazione delle norme penali, dell’interpretazione, so-prattutto, del significato dei termini linguistici che apparentemente evocano concetti già noti ad altri rami del diritto, ma che, nel lin-guaggio del legislatore penale, non sempre, non necessariamente, co-me d’altra parte è provato da infiniti altri esempi, devono avere lo stesso contenuto.

Così tutte le volte in cui, ad es., norme penali si riferiscono a re-quisiti come quelli di legittimità, legalità ed analoghi, è evidente che non c’è ragione di principio per asserire che questi termini debbano essere interpretati nello stesso modo in cui gli stessi termini hanno una loro valenza tecnica nel diritto pubblico, nel diritto ammini-strativo, perché l’interpretazione penale è sempre un’interpretazione teleologicamente orientata, nel senso che è correlata alle finalità di ogni singola norma: le quali si individuano, a loro volta, in relazio-ne al tipo di interesse, al tipo di berelazio-ne che quella norma intende pro-teggere attraverso l’incriminazione del fatto.

Quindi è del tutto ragionevole che la legalità, per esempio, del provvedimento di cui parla l’articolo 650, non sia identificabile in to-to con la legittimità amministrativa del provvedimento-to stesso ma ab-bia un ambito, in ipotesi, più ristretto, cioè debba essere verificata soltanto sotto taluni profili e non sotto tutti i possibili profili.

Così anche si può ripetere per altre situazioni: la richiesta lega-le di assistenza della forza pubblica di cui parla l’articolo 53, che

scrimina colui che “legalmente richiesto” presti assistenza, non è ne-cessariamente da verificare alla stregua di tutti i requisiti che pos-sono contribuire a rendere legale questo tipo di atto, e così via di seguito.

C’è una casistica vastissima, io non voglio annoiarvi su questo punto, che dimostra chiaramente come di questi concetti si possa adottare una nozione più ristretta in relazione alle finalità che la cor-retta interpretazione teleologica della fattispecie esige.

E in quel mio studio di cui ho prima accennato, ormai risalen-te al lontano 1979, alla fine, proprio attraverso una indagine di que-sto genere, pervenivo ad alcune conclusioni e cioè che in effetti il potere di sindacato, in senso improprio, del Giudice sulla legittimità degli atti amministrativi, inteso come potere di accertamento della legittimità dell’atto in tutte quelle fattispecie in cui la norma conte-nesse il riferimento a questo tipo di elemento, il potere di sindaca-to del Giudice fosse variamente configurabile, a seconda delle sin-gole norme, in una serie di ambiti che potevano essere, da un can-to ristrettissimi, e limitarsi, per ipotesi, soltancan-to alla verifica della pura e semplice competenza dell’autorità che aveva emanato l’atto;

oppure potevano essere via via sempre più ampi, quindi inclusivi nel-la verifica delnel-la competenza del soggetto autore dell’atto nonchè del-la sua regodel-larità formale, dal punto di vista apparente ed intrinseco;

oppure ancora, in altri casi, includere anche il potere di verificare la corrispondenza effettiva fra i dati di realtà enunciati dall’atto come presupposti del provvedimento e quelli storicamente esistenti: oppu-re ancora giungeoppu-re alla verifica dell’effettiva corrispondenza tra i fi-ni legali dichiarati nell’atto e quelli reali assunti poi come obiettivo dello stesso.

La cosidetta illegittimità sostanziale, poteva ancora, addirittura, estendersi finanche alla revisione del giudizio di merito circa la per-tinenza dell’atto e la sua idoneità a realizzare i fini pubblici tutte le volte che si accertasse che l’atto era stato in effetti puro e semplice strumento per il conseguimento di fini antitetici a quelli pubblici.

In questa ultima categoria, che naturalmente è la più ampia e pra-ticamente consente un sindacato pieno dell’attività amministrativa al Giudice penale, dicevo, in quel libro, che rientrano la maggior parte delle fattispecie di abuso, dei delitti di abuso, e quindi la necessità di trovare un criterio sicuro per stabilire quando ci si trovi dinanzi a ve-ri e propve-ri abusi penalmente ve-rilevanti e quando invece ci si trovi

di-nanzi a semplici inosservanze di norme non passibili di questa quali-ficazione, mi sembrava il punto nodale dell’indagine: proprio perché, in effetti, l’abuso vero e proprio, a mio giudizio, (lo dissi allora e pos-so continuare a ripeterlo adespos-so), consente al Giudice il sindacato in qualsiasi direzione e quindi anche nel merito del provvedimento.

Questo rende acuto il problema perché l’abuso è, in generale, in-terpretato, da gran parte della giurisprudenza, come un requisito che tende ad esaurirsi in una semplice figura di qualificazione di un com-portamento, che non possiede ex se, dei connotati oggettivamente ve-rificabili: esso è, cioè, il risultato di un giudizio che si esprime su un comportamento qualificato come tale il più delle volte soltanto in ragione del fine che si ritiene lo abbia presidiato.

E se in effetti rischia di poter essere considerato abusivo qua-lunque comportamento che finalisticamente devii rispetto al fine pre-fissato dall’ordinamento, allora è chiaro come il rischio della inter-ferenza diviene estremamente preoccupante, perché la deviazione fi-nalistica di chi opera nell’ambito della Pubblica Amministrazione non essendo normalmente, nella stragrande maggioranza dei casi, appa-rente, cioè ricostruibile attraverso indizi testuali, non può che esse-re assunta come ipotesi il più delle volte pesse-resunta sulla base di ele-menti di sospettto che dovrebbero convalidare l’ipotesi stessa.

Ma se, quindi, è sufficiente l’ipotesi della deviazione finalistica per attribuire ad un certo tipo di comportamenti rilevanza penale, il rischio è, appunto, che l’ipotesi si riveli poi infondata e nello stesso tempo tuttavia si siano comunque inevitabilmente arrecati i danni che qualsiasi iniziativa giudiziaria, in questo settore, evidentemente non può fare a meno di arrecare.

Direi che questo è il senso più specificamente politico dell’im-portanza del problema.

Cioè non è tanto importante il problema tecnico-giuridico di ve-dere se e fin dove la Magistratura può legittimamente accertare se vi è stato o non vi è stato abuso.

Il tema è caratterizzato dal fatto che proprio per la impalpabi-lità, per la inafferrabiimpalpabi-lità, per la inesistenza di connotati oggettivi dell’abuso, perlomeno secondo una certa posizione interpretativa, si possa in realtà legittimare formalmente e sostanzialmente la propo-sizione di un’iniziativa giudiziaria penale per scoprire se un abuso effettivamente ci sia stato, per il solo fatto che un abuso potrebbe essere stato commesso.

Questo naturalmente, significa che, poi, in tutti i casi in cui la indagine si concludesse negativamente, si sarebbe creata inevitabil-mente una situazione certainevitabil-mente non favorevole alla serenità dell’at-tività amministrativa ed una situazione che, quindi, può stimolare l’immobilismo, favorire la mancanza di iniziative, seminare preoc-cupazioni di vario tipo e che certamente non contribuisce all’effi-cienza dell’amministrazione, non contribuisce al buon andamento dell’amministrazione, che pure dovrebbe essere una delle preoccu-pazioni di funzionamento complessivo del sistema.

D’altra parte se voi ricordate, certamente tutti lo ricordate, per quali esattamente analoghe ragioni la sciagurata (come la chiama Tullio Padovani), norma dell’articolo 324 ha consentito quelle che so-no state qualificate come vere e proprie incursioni o scorribande del-la Magistratura Penale nel territorio dell’attività amministrativa, con-staterete che le ragioni sono le stesse: l’interesse privato, non poten-do essere accertato a priori, non potenpoten-do essere rilevato attraverso connotazioni obiettive di tipi di comportamento, non poteva che es-sere presunto come possibile e quindi sospettato come ipotetico.

Se questo bastava per aprire un’inchiesta penale è chiaro che, al-la fine, l’eventuale carenza di dati sufficienti per confermare l’ipote-si aveva già prodotto il danno.

Noi non disponiamo in Italia, (ma credo che anche all’estero sia difficile trovarle) di pubblicazioni, di riviste, di atti che diano conto e quindi informino il pubblico ed in particolare gli addetti ai lavori, dell’esito di quei procedimenti che non procedono oltre nella fase di giudizio e che si concludono in fase preliminare, cioè non ci sono riviste che pubblichino, ad es. i decreti di archiviazione o le senten-ze di non doversi procedere, non ci sono neanche dati statisticamente selezionati e quindi ragionati sul numero di processi, in questo set-tore, che, appunto, non giungono oltre la fase istruttoria: ma questi sono, invece, dati e numeri importanti perché la valutazione del fun-zionamento, o del non funfun-zionamento, e comunque dell’impatto che l’attività giudiziaria ha nell’ambito della società dipendono in buona parte anche dal numero di questi fatti che apparentemente non han-no storia processuale.

Intendo dire cioè che quanto più elevato è il numero dei proce-dimenti che si chiudono con sentenze di non doversi procedere, o con decreti di archiviazione, in questa materia, tanto è preoccupan-te il fenomeno, in quanto esso dimostra che in effetti c’è

un’eccessi-va ingerenza, un’eccessiun’eccessi-va vigilanza, se vogliamo così esprimerci, da parte della Magistratura, nei riguardi dell’attività amministrativa, che poi alla luce dei fatti risulta non giustificata.

E queste sono purtroppo ragioni che di solito vengono oblitera-te al cospetto dei casi in cui, invece, l’esito finale delle inchiesoblitera-te si conclude con l’accertamento ed il riconoscimento e la dichiarazione dell’esistenza dei reati, e delle responsabilità relative.

Ci si dimentica, infatti, che vi sono numerosissimi altri casi in cui questo non accade, e non sempre non accade per la carenza di supporti probatori sufficientemente validi, ma non accade proprio perché l’ipotesi, una mera “alternativa”, una possibilità, alla quale si può anche credere ma che non c’è modo di dimostrare che è, ne-cessariamente, quella vera.

Si trattava, quindi, quando il legislatore ha cominciato a mette-re mano alla riforma di questa materia, di cercamette-re di trovamette-re una so-luzione che rendersse meno probabile il rischio, come dire, della per-secuzione giudiziaria immotivata e non certo quello di sottrarre

Si trattava, quindi, quando il legislatore ha cominciato a mette-re mano alla riforma di questa materia, di cercamette-re di trovamette-re una so-luzione che rendersse meno probabile il rischio, come dire, della per-secuzione giudiziaria immotivata e non certo quello di sottrarre